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I FRONTI CALDI DELL’EURASIA: I CONFLITTI E LE TENSIONI IN EUROPA ORIENTALE E NEL VICINO ORIENTE

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In occasione del decennale di EURASIA. Rivista di studi geopolitici, l’Associazione Nuove Idee presenta una conferenza dal titolo I FRONTI CALDI DELL’EURASIA: I CONFLITTI E LE TENSIONI IN EUROPA ORIENTALE E NEL VICINO ORIENTE che si terrà a Brescia sabato 8 novembre alle ore 15.30 in Via Pietro Pasquali 5.

All’evento parteciperanno Claudio Mutti, idrettore della rivista Eurasia, Stefano Vernole (Vice Direttore della rivista), Paolo Rada (saggista ed esperto di Islam) e Ali Reza Jalali (ricercatore e analista geopolitico).

Nel corso dell’evento verrà presentato anche l’ultimo numero della rivista EURASIA dedicato alla geopolitica delle religioni.

Locandina Eurasia-conferenza_08112014

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TOMMASO CAMPANELLA, LA CITTA’ DEL SOLE

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Tommaso Campanella, La Città del Sole, Edizioni di Ar, Padova 2014, pp. 122

E’ un testo classico che mantiene tutta la sua importanza, La Città del Sole.

La forza dirompente e la suggestione primaria di quest’opera stanno nella sua capacità di immaginare e di rappresentare un regime a un tempo comunista e teocratico, contraddistinto dalla messa in comune delle risorse (materiali e financo personali: i figli, le donne …) e da una precisa gerarchia destinata a custodire l’origine trascendente dello Stato e le sue finalità “totalitarie”.

In uno scritto utilizzato – vanamente – come difesa giudiziale (la Secunda delineatio defensionum) Campanella (1) precisa la sua ispirazione antimoderna, che lo mise fra l’altro in polemica con Machiavelli, del quale contestava l’orientamento settoriale e la mancanza di riferimenti superiori (2): “Nessun impero né regno si è potuto reggere con la sola prudenza politica (…) Per questo Socrate affermò che lo Stato va in rovina se viene meno l’arte divinatoria, e Salomone che il popolo è perduto senza profezia”.

E’ forte nel corso di tutta la sua vita il riferimento all’importanza della profezia e della predestinazione; lui stesso è “novello legislatore del mondo, eletto da Dio”. In un sonetto di commento al salmo Saepe expugnaverunt me così riassume la sua vicenda umana: “Spesso m’han combattuto, lo dico ancora/fin dalla giovinezza; ahi troppo spesso !/Ma d’espugnarmi non fu lor concesso,/ch’è Dio che mi sostiene e mi rincuora”.

Nella Città del Sole egli fissa i lineamenti di quella renovatio mundi alla quale i filosofi devono dare un contributo essenziale, trasformando la teoria in modello praticabile.

Di contro alla “commedia universale”, di contro al “teatro del mondo” – oggetti di studio costante da parte di Campanella – viene delineato uno Stato ideale che è modello di armonia, di ordine, di corrispondenza fra essere e apparire.

Al vertice – senza separazione di potere spirituale e materiale – sta il Principe Sacerdote, ovvero il Metafisico, ovvero il Sole; dopo di lui, o meglio al suo fianco (“collaterali”) i tre Principi rappresentanti Potestà, Sapienza e Amore; via via segue una gerarchia di ufficiali ed enti intermedi destinati a dare sostanza a una retta e felice vita sociale.

Assenza di proprietà privata, educazione comune di base ed eugenetica sono aspetti imprescindibili della disciplina solare, così come l’esigenza di accordare a ciascun membro della comunità dignitosi mezzi di sopravvivenza; l’analogia/simpatia fra corpi celesti ed enti terrestri – fra macrocosmo e microcosmo – è attentamente considerata.

In un sonetto intitolato “Sulle radici dei gran mali del mondo” Campanella indica quali siano stati i bersagli della sua vita: “Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”. Quest’ultima si nasconde evidentemente anche ai massimi livelli, quando l’istituzione subisce il contrappasso della contraffazione: “Non è re chi ha regno, ma chi sa reggere”, titola con coraggio un altro suo sonetto.

Un’ultima considerazione: domenicano talvolta in sospetto di eresia, Tommaso Campanella manifesta ne La Città del Sole una concezione del Sacro che va al di là della dottrina cattolica; che la comprende, sicuramente, ma che sembra andare oltre.

La collocazione di questa città santa è vicino a Taprobana, che secondo la descrizione di Tolomeo potrebbe corrispondere a Ceylon (per altri potrebbe essere vicino a Sumatra; come spiega l’attento curatore dell’opera, si tratta più di una visione che di un preciso spazio geografico): una collocazione comunque “esotica”, estranea al mondo tradizionalmente cattolico.

I Solari onorano personalità spirituali diverse: “Moisè, Osiri, Giove, Mercurio, Macometto ed altri assai; e in loco assai onorato era Gesù Cristo e li dodici Apostoli, che ne tengono gran conto, Cesare, Alessandro, Pirro e tutti li Romani” (p. 19); e “cantano gesti di eroi cristiani, ebrei, gentili, di tutte le nazioni” (p. 47), così da suggerire un’impronta realmente imperiale, più che confessionale, della Città del Sole.

 

NOTE

1. Vita veramente straordinaria, quella di Tommaso Campanella: l’infanzia e adolescenza in Calabria, l’entrata già da ragazzo nell’ordine domenicano, il trasferimento a Napoli, la congiura, l’arresto, l’indicibile (40 ore !) tortura della “veglia”, la simulazione della follia, i 27 anni consecutivi di carcerazione, l’enorme quantità di opere scritte durante la detenzione, la liberazione, il nuovo (breve) imprigionamento, l’esilio in Francia e la felice permanenza alla corte del Richelieu, la morte e la sepoltura in un convento andato distrutto, insieme alla sua tomba, durante la Rivoluzione, nel 1795
2. “Sembra dunque indubitabile il divario fra Machiavelli e Campanella: due menti lontane e antitetiche”, afferma Gerardo Di Nola in Tommaso Campanella, il nuovo Prometeo: da poeta-vate-profeta a restauratore della politica e del diritto, ESD Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1993, p. 155

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LE SANZIONI CONTRO MOSCA NEL CONTESTO DELL’INSTABILITÀ GLOBALE

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Il vertice europeo del 23-24 ottobre non sembra aver mutato la linea europea e americana di netta contrapposizione alla Russia, innescata dagli eventi ucraini degli ultimi mesi. Nonostante i gravi danni economici che ne deriverebbero (quantificati in 1,8 miliardi su base biennale per la sola Italia)(1), l’Europa è decisa a non rinunciare al regime di sanzioni che, sebbene imposte da Washington (per stessa ammissione del vice presidente americano Joe Biden)(2), non suscitano netta contrarietà presso i suoi leader, anzi. La crisi economica europea e l’erosione di sue quote di mercato da parte dell’America latina e della Cina, è però destinata a far emergere sempre più attriti tra Europa e Usa sulla questione.

Presso gli stessi policymaker statunitensi esiste scetticismo sull’efficacia della strategia volta a “isolare” la Russia, che, semmai, appare foriera di conseguenze negative sul piano tanto economico, quanto politico, per Washington.(3) In primo luogo essa potrebbe spingere sempre più ex alleati a diffidare del regime di rapporti fondato su un approccio “sanzionatorio” degli USA, che mina le basi di convenienza economica nella partnership atlantica, allontanando paesi alleati dai mercati finanziari europei e americani. Come sembrano suggerire del resto le operazioni di accantonamento del dollaro come moneta di scambio mondiale.

Inoltre, il piano di esclusione delle compagnie russe e di quelle estere che dovessero continuare a trattare con le prime, non tiene in conto la proiezione globale della presenza economica di Mosca, confondendo l’efficacia del piano di esclusione ai danni di un’economia regionale come l’Iran (verso la quale le sanzioni sono state realmente dannose), a cui sembra ispirarsi la contrapposizione attuale volta a isolare la Russia, con l’improbabile danno che deriverebbe a un mercato di ben più vaste proporzioni come quello russo, sempre più legato a quello cinese nelle sue ramificazioni asiatiche.

Di conseguenza lo scenario di chiusura ai danni di Mosca si tramuta in una porta sbarrata degli Usa verso la Cina e altri attori asiatici ad essa legati, riunitisi proprio il 24 ottobre scorso in occasione della creazione dell’Infrastructure Asian Investment Bank (AIIB) (4). Non solo, ma ben lungi dal danneggiare le finanze russe, le consolida, contribuendo alla conversione del debito estero russo (già pressoché nullo) denominato in dollari, in rubli e, quindi, alla sua svalutazione a seguito dell’indebolimento della valuta nazionale russa (5). In realtà questa chiusura appare il risultato di un clima di diffidenza tra i due giganti nucleari e uno strumento di pressione degli USA sulla Russia, quale naturale ritorsione contro la resistenza in Ucraina e l’annessione della Crimea.

Se le sanzioni però costituiscono il principale strumento degli Usa per mantenere il controllo geopolitico su tutta la regione euro-atlantica (6), come ha sostenuto il ministro degli esteri russo Lavrov, tale strategia di chiusura nelle proprie casematte, non può che far gravitare sempre più pedine al di fuori di questo scacchiere verso i poli della Cina e di Mosca, tra vecchi e nuovi alleati. La consistenza dell’influenza americana è ormai sensibilmente diminuita rispetto solo a una decade fa, e ciò è riconosciuto dagli stessi analisti americani.(7)

Accanto a paesi europei come la Serbia, dove Putin ha ricevuto, in occasione di una recente visita ufficiale, una accoglienza giudicata “trionfale”(8), e l’Ungheria, il cui presidente, Viktor Orban, ha dichiarato di volersi emancipare dalla forma di democrazia liberale occidentale (9), entrambi raggiunti dalla linea di rifornimento del South Stream, diversi paesi dell’America meridionale, affiliati o parte dei BRICS (e riuniti nell’UNASUR) (10), nonché alcuni stati dell’area medio orientale e africana ormai diffidenti verso l’Occidente, tra cui l’Egitto (divorziatosi dagli USA dopo il sostegno alla Fratellanza musulmana), trovano una alternativa al “nuovo ordine” (che dovrebbe dirsi ormai “vecchio”) di Washington.

Stati Uniti e Israele, infatti, specie in queste ultime aree, con il loro contributo alla creazione dello Stato Islamico (11) e alla destabilizzazione politica di alcuni paesi (Libia e Siria su tutti), tramite il ricorso alla pratica del “regime change”, si sono alienati il sostegno di alcuni alleati regionali, nell’intento di perseguire obiettivi strategici confusi e indefiniti volti a generare caos e terra bruciata intorno al costruendo asse Iran-Iraq-Siria, che sarebbe stato rafforzato dalla realizzazione di un oleodotto attraverso i tre paesi (12), pericolo mortale contro la presenza statunitense nella regione, nonché foriero di un riallineamento strategico con Mosca e Pechino all’indomani del ritiro americano dall’Iraq.
La stessa manovra ribassista sul prezzo del petrolio avviata dall’Arabia Saudita (che sta facendo dumping senza intaccare i livelli di produzione) e seguita a ruota dagli altri produttori (13), tra cui l’Iran, alla quale ha fatto seguito un crollo delle quotazioni del greggio a livello mondiale, potrebbe essere letta anche come una partita contro la produzione russa. Va tenuto conto, tuttavia, di altri fattori, come la generale caduta della domanda e il surplus legato allo shale oil (petrolio da scisto bituminoso) americano che in gran parte ormai soddisfa la domanda statunitense di greggio (14).

Lo stesso Putin, forse in termini preventivi, ha paventato un “crollo dell’economia mondiale” in caso di discesa al di sotto degli 80 dollari al barile. In altri tempi l’instabilità politica globale avrebbe innescato un rialzo dei prezzi, non una sua repentina discesa come accaduto oggigiorno. Non è da escludere la tesi di coloro che sostengono essere questo ribasso il frutto di una manovra doppiogiochista dei sauditi, volta da un lato a spingere gli Usa ad abbandonare le riluttanze sull’intervento definitivo contro Assad e a troncare l’accordo con l’Iran sul nucleare previsto per novembre e dall’altro finalizzata a colpire i produttori concorrenti.(15) Un ribasso del prezzo del carburante in vista delle elezioni di medio termine potrebbe infine fare gioco a Obama nel contrastare una eventuale vittoria repubblicana.(16)

Se le sanzioni sono state la spinta definitiva al matrimonio russo-cinese, il cordone di contenimento a discapito di Pechino (vertente sull’asse Giacarta–Hanoi-Camberra-Manila-Taipei-Seul-Tokyo) può considerarsi indebolito in virtù della prospettiva di una definitiva saldatura euroasiatica tra Mosca e Pechino, ormai un dato consolidato, attorno alla quale potrebbero ruotare in futuro paesi un tempo parte della strategia di limitazione geopolitica cinese. Seguendo il dettame di Sun Tzu, sembra che cinesi e russi stiano tentando in un primo tempo di sconvolgere la strategia degli Stati Uniti, per poi provare a spezzarne le alleanze (17).

NOTE
(1) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-16/sanzioni-ue-russia-ecco-quanto-costerebbe-all-italia-guerra-commerciale-mosca-181150.shtml?uuid=ABravv3B
(2) http://fr.ria.ru/world/20141006/202628563.html
(3) “Don’t Mistake Russia for Iran.” Foreign Affairs. 25 Oct. 2014. Web. 25 Oct. 2014. http://www.foreignaffairs.com/articles/142278/eric-lorber-and-elizabeth-rosenberg/dont-mistake-russia-for-iran
(4) http://www.ibtimes.co.uk/china-launches-aiib-rival-world-bank-without-us-allies-after-pressure-washington-1471582
(5) http://www.zerohedge.com/news/2014-10-10/de-dollarizing-russia-pays-down-near-record-53-billion-debt-third-quarter
(6) http://italian.ruvr.ru/2014_10_21/UE-si-rifiuta-di-revocare-le-sanzioni-a-Mosca-e-non-intende-dare-altri-soldi-a-Kiev-8752/
(7) “The Unraveling.” Foreign Affairs. 25 Oct. 2014. Web. 25 Oct. 2014 http://www.foreignaffairs.com/articles/142202/richard-n-haass/the-unraveling
(8) http://temi.repubblica.it/limes/il-trionfo-di-putin-a-belgrado/67428
(9) http://vocidallestero.blogspot.it/2014/07/orban-attacca-la-democrazia-liberale-e.html
(10) http://rt.com/business/173008-brics-bank-currency-pool/
(11) http://en.alalam.ir/news/1621056
(12) http://www.alarabiya.net/articles/2013/02/20/267257.html ; http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2012/08/201285133440424621.html
(13) http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-10-02/petrolio-l-arabia-saudita-dichiara-guerra-prezzi-e-brent-crolla-164943.shtml?uuid=ABZQJQzB&fromSearch
(14) http://italian.ruvr.ru/2014_10_15/Il-prezzo-del-petrolio-9705/
(15) http://rt.com/op-edge/196148-saudiarabia-oil-russia-economic-confrontation/
(16) http://www.strategic-culture.org/pview/2014/10/23/political-manipulations-with-the-price-of-oil.html
(17) Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano 2003, capp. III-IV

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UNO “SBARCO A TRIPOLI” NEL 2015?

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Se il ministro degli Esteri Gentiloni ha ventilato pubblicamente la possibilità di un intervento militare italiano in Libia, un motivo ci sarà.
Questo motivo, proprio mentre avviene nel Canale di Sicilia l’ennesima “strage di migranti”, parrebbe essere il contenimento dei flussi migratori illegali che, da quando è stata spazzata via la Jamahiriyya, sono ripresi a ritmi sempre più intensi.

Per la verità, i “migranti” arrivavano via mare anche quando era in sella il Colonnello Gheddafi, ma è innegabile che, con la Libia sempre più ridotta ad una sorta di Somalia, la situazione, anche per quanto riguarda il traffico di esseri umani, sia diventata praticamente insostenibile.
Oltretutto, con la proclamazione dell’affiliazione di parte della Cirenaica al preteso “califfato” del Levante islamico, i motivi di preoccupazione, dal nostro punto di vista, non possono che aumentare. Non perché i “jihadisti” s’insinuerebbero tra coloro che sbarcano illegalmente in Italia (anche se pure su quest’aspetto è bene non sottovalutare il pericolo), bensì perché essendo il cosiddetto “fondamentalismo islamico” una creatura dei servizi d’intelligence occidentali, bisogna assolutamente tenere d’occhio gli sviluppi in quella che non ha mai smesso di essere, per noi, la “Quarta sponda”.

Intendiamoci, le milizie “islamiste” che hanno preso il controllo di parte della Libia non costituiscono alcun problema dal punto di vista strettamente militare. Per dirla con una battuta, non sono nemmeno in grado di fare il buco nell’acqua del famoso missile lanciatoci da Gheddafi in uno dei momenti di tensione che caratterizzarono le nostre relazioni con quello che, in definitiva, si dimostrò a conti fatti un buon contraente per l’Italia.

E veniamo allora al perché, cent’anni dopo lo “sbarco a Tripoli”, si ricomincia a pensare di riconquistare la Libia o, perlomeno, di far sì che non vi si crei una situazione troppo negativa per i nostri interessi laggiù.

L’attacco proditorio alla Jamahiriyya, che aveva stipulato con l’Italia un accordo magnifico dopo anni di faticose trattative, venne portato unilateralmente dagli Usa e dalla Francia, soprattutto, che utilizzando sul terreno armati locali e reduci da altre “guerre sante” per procura ebbero la meglio dell’esercito regolare. Sullo sfondo, la Turchia, che storicamente non ha mai smesso di puntare al controllo della Tripolitania e della Cirenaica (infatti la guerra del 1911-12 è chiamata “Italo-turca”, ed è bene ricordare che, all’epoca, tutto il resto dell’Africa del Nord era colonizzato da Francia e Inghilterra).

Ora, l’Italia afferma timidamente di voler far qualcosa, “sotto mandato dell’Onu”, perché sa benissimo chi e perché ha voluto fare della Libia un campo di battaglia.
La nostra politica estera è inscindibilmente legata ai successi dell’Eni, che in Libia rischia di essere sempre più estromesso qualora essa finisse nelle mani di un “califfato” made in England.

Dunque, bisogna far qualcosa, su questo non c’è dubbio. Specialmente perché la crisi ucraina e la chiusura del South Stream non inducono all’ottimismo energetico. E se ci aggiungiamo i tentativi di scatenare una “primavera” o una “ribellione” in Algeria, tutti prontamente sedati dall’esercito, il quadro è sufficientemente preoccupante.

Ma la domanda principale che a questo punto dovremmo porci è la seguente: se non siamo stati in grado, nel 2011, quando eravamo in una posizione di forza, di far valere il nostro punto di vista, come faremo, questa volta, ad imporre la nostra linea contro chi – è sempre bene ricordarselo – detiene sul nostro territorio oltre cento basi ed installazioni militari?
Dio non voglia che, sotto gli squilli di tromba di un ostentato “orgoglio nazionale”, l’Italia si accodi, un’altra volta, ad un ruolo da comprimario, dilapidando soldi e, chissà, pure vite umane, per realizzare l’ennesimo autogol.

Enrico Galoppini

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UCRAINA

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Quanto accaduto nell’ultimo anno in Ucraina rappresenta essenzialmente una manifestazione storica del paradigma dialettico fra i tre principali attori dello scenario geopolitico che ha fatto seguito alla Guerra Fredda: la Russia, il Nordamerica e l’Unione Europea. Comprendere le vicissitudini politiche e militari che stanno attualmente interessando le regioni ucraine, soprattutto quelle bagnate dal Mar Nero e confinanti coi territori russi, significa in primo luogo dover ricercare un nesso logico tra le vicende storiche, politiche e sociali che caratterizzano l’ontologia di tutti gli attori coinvolti, prima fra tutti l’Ucraina.

Le manifestazioni e i tumulti di piazza esplosi circa un anno fa nel centro di Kiev, utilizzati (e in buona parte ispirati) dall’Occidente al fine di estendere la propria influenza egemonica, altro non sono che la più recente manifestazione politica di una convivenza difficile, durata anni, per non dire secoli, tra popoli e culture eterogenee. Per secoli infatti il territorio ucraino, in relazione al quale troppo presto e troppo disinvoltamente si è parlato di “nazione ucraina”, è stato attraversato da popoli appartenenti a diverse culture: Mongoli, Polacchi, Austriaci e infine Russi. D’altronde l’etimologia ci ricorda che il toponimo Ucraina significa “terra al limite” o “terra di frontiera”. Inserita nel contesto sovietico, l’Ucraina fece parte di una realtà geopolitica ben definita e si vide assegnato un ruolo di avamposto naturale dell’URSS. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale, lungo lo spiegarsi degli eventi della Guerra Fredda, Stalin intraprese una serie di deportazioni di gruppi di popolazione russa per concentrarli nella parte orientale e sudorientale del territorio ucraino. Si trattava in sostanza di un’operazione di rafforzamento della frontiera sovietica, mediante la creazione di un fronte russofono in grado di proteggere l’URSS dal potenziale invasore occidentale. Così anche l’Ucraina, come tutti i paesi dell’Europa dell’Est, riuscì a trovare una sorta di stabilità e di equilibrio.

Oggi l’Ucraina costituisce per la Russia un’occasione storica per affermare la sua sovranità. La questione ucraina rappresenta infatti la fase più recente dell’avanzata della NATO nella parte d’Europa che si era trovata sotto il controllo sovietico. Putin deve tracciare la sua linea rossa, per recuperare alla Russia quella dignità e quella sovranità che i suoi predecessori negoziarono con l’Occidente, confidando con eccessivo ottimismo nelle sue promesse.

Un’Ucraina all’interno dell’Unione Europea significa un’Ucraina perfettamente inserita nella NATO, ossia nelle trame della politica statunitense. Come si può permettere che al nemico storico del Patto di Varsavia vengano concessi oltre duemila chilometri di frontiera indifendibile? Scendere in piazza per stringere trattati con l’Unione Europea allentando i rapporti con Mosca significa aderire al progetto di allargamento della NATO ad est, che gli Stati Uniti stanno attuando fin dal 1991.

“Il rapporto USA-Russia è fallito perché l’Occidente non ha mai capito che non poteva trattarci da sconfitti. Primo, i russi non hanno mai creduto di essere stati sconfitti. Secondo, è il nostro carattere nazionale. Noi siamo una delle pochissime nazioni al mondo che non sono mai state sconfitte”. Questo è quanto afferma lo stratega russo Sergej Karaganov per spiegare l’atteggiamento di Putin nei confronti di Jevromajdan.

Per capire a fondo la posizione di fermezza assunta a riguardo della Crimea occorre ricordare le considerazioni del politologo russo Sergej Mikheev: “I Russi – dice Mikheev – sono delusi dall’Occidente. I Russi hanno distrutto l’URSS e si aspettavano maggiore riconoscenza. L’Occidente si è invece comportato come se avesse vinto la guerra fredda e come se noi fossimo un paese sconfitto, i cui interessi nazionali non avevano alcuna importanza”.

Si aggiungano le parole di Putin: “Ci era stato promesso che dopo l’unificazione della Germania la NATO non si sarebbe espansa verso oriente.(…) La nostra decisione sulla Crimea è stata in parte prodotta da questo”.

Il 16 marzo 2014 la Crimea, regione a schiacciante maggioranza russa e legata a Mosca da storia, radici, interessi economici, ha votato quasi all’unanimità la secessione dall’Ucraina. Questo è un fatto, a prescindere dagli interrogativi attinenti la legittimità giuridica del referendum che lo ha determinato. Il diritto internazionale, questione di prassi più che di leggi scritte, è abbastanza chiaro nello stabilire che un cambio di governo è un dato di fatto dal momento che ha avuto successo. Quello che appare meno chiaro è se l’intervento russo in Crimea e il successivo referendum siano stati legittimi oppure no. A conti fatti importa poco, dal momento che essi hanno provocato una situazione di fatto.

In ogni caso, dopo ventiquattro anni di appartenenza della Crimea all’Ucraina, il 96% degli abitanti della penisola ha scelto il ritorno alla Russia. Secondo molti, tra cui il politologo russo Fedor Lukjanov, una Crimea annessa all’Ucraina rappresentava un “tragico errore storico” e così sembra pensarla oltre il 40% dei diretti interessati.

Sembra opportuno interrogarsi a questo punto sugli effetti che produrranno le sanzioni imposte alla Russia. Anche ammettendo che il Cremlino neppure immaginasse quali sarebbero state le ritorsioni dell’Occidente alla sua decisione di annettere la Crimea e sostenere la popolazione russa dell’Ucraina, chi colpiscono realmente queste misure sanzionatorie? Si tratta di penalizzazioni essenzialmente economiche che provocano la svalutazione della moneta russa e che hanno come unico vero effetto quello di costringere la Russia ad avvicinarsi ulteriormente a Pechino. I sondaggi mostrano che negli anni Novanta circa il 90% dei Russi ammirava gli Stati Uniti e che la Russia unita puntava a diventare il terzo pilastro in Occidente dopo Europa e Stati Uniti. Oggi neppure il 10% del popolo russo vede di buon occhio gli USA e, mentre la popolarità di Barack Obama è in calo vertiginoso, quella di Vladimir Putin in Russia è in netto rialzo.

Alessandro Gatti

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LA GUERRA POST EROICA E COGNITIVA NEI SOCIAL NETWORK

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Nel mondo multipolare ed iperconnesso si sono sviluppate forme diverse di contrasto agli avversari, ingenerando nuovi terreni di scontro. Uno di questi sono i social network, inizialmente luoghi virtuali di incontri e scambi di opinione, ora assurti al ruolo di informazione ma anche di controinformazione. Distinguere i tratti corretti da quelli che intendono sviare la realtà è estremamente complesso, soprattutto se l’inganno è architettato da professionisti. La negazione dei dati, intesi come territorio inviolabile di uno Stato sovrano, piuttosto che di una organizzazione transnazionale quanto di una azienda privata, passa per la guerra cognitiva, od anche per la guerra post-eroica. Le operazioni psicologiche saliranno di livello con i Facebook Warriors voluti dallo spionaggio britannico. I nuovi soldati della disinformazione sono inquadrati nel 77° Battaglione dell’esercito inglese come unità delle Forze Speciali. Si tratta di personale altamente addestrato per operazioni complesse e coperte che tendono allo sviluppo di strumenti adatti all’inganno, ma anche alla distruzione, alla degradazione ed all’usurpazione delle reti di mappature, come precisato in un documento dell’USAF. Una delle tattiche con la quale combatteranno è definita “controllo del riflesso” e consiste nel confezionare ad arte informazioni false, in tal modo da indurre il bersaglio a reazioni già previste e programmate. Una sorta di battaglia combattuta su Facebook e Twitter, dove verranno diffuse disinformazione e verità abilmente mescolate tra loro, in modo che gli utenti non possano capire dove è celato l’inganno. I Chindits del 77° Battaglione, così denominati a ricordo dell’unità partigiana che operò in Birmania dal 1942 al 1945, diverranno operativi dall’aprile 2015 ed il raggruppamento sarà composto da 1500 guerrieri dello spazio virtuale.

La guerra cognitiva è un passaggio da quella di annientamento al nuovo concetto di operazioni diverse dalla guerra classica; i rischi di tale passaggio, che potrebbe ingenerare effetti psicosociali imprevedibili in cui la sicurezza dell’individuo non sarebbe garantita, sono paragonabili a quelli di un conflitto nucleare. Una non-guerra combattuta nello spazio virtuale, dove la vittoria è più rappresentativa di uno scontro militare, oppure, citando Luttwak, guerra post-eroica. Quest’ultima probabilmente non potrà prescindere dal sistema finanziario e dallo sviluppo tecnologico, in particolare da quello applicato al commercio ed ai servizi. Le armi informatiche potranno essere le capacità e le identità civili. L’obiettivo della disinformazione si prefigge non la distruzione dello Stato avversario, ma un’azione psicologica contro il nemico nel suo stesso territorio. Una politica della comunicazione volta a demotivare il competitore, ma a lasciare intatte le loro risorse. Un concetto antico, che risale a Sun Tzu, ignorato nelle guerre convenzionali, ma ripreso nel mondo contemporaneo, dove salvaguardare le risorse tecnologiche e naturali dell’antagonista rappresenta la nuova filosofia della conquista. La guerra dell’informazione del 77° Battaglione si prefigge operazioni sulla psicologia sociale, ossia intende influenzare emozioni e motivazioni dell’antagonista in modo da poterne controllare e prevenire i comportamenti. Questo scenario avrà come risultanza una necessaria crescita del controllo della sicurezza interna, rendendo sovrapponibili i concetti di sicurezza e difesa. L’obiettivo del controllo dell’informazione è ledere il sistema cognitivo, dunque non più il corpo ma la mente, e quindi instaurare una percezione dell’identità alterata di una persona o di una organizzazione. La risultanza sulla distribuzione di immagini, simboli od informazioni, che produrranno i Facebook Warriors, rappresenta una forte incognita; infatti è prevedibile, ma non certa, la decodifica che i ricettori assegneranno ai singoli eventi creati dalle Forze Speciali britanniche: in base al retaggio culturale, alle credenze religiose, al ceto sociale di appartenenza, alla condizione economica personale ed alla società in cui vive, ogni singolo soggetto bersaglio avrebbe una diversa percezione della falsa realtà mediatica che gli verrà imposta, dunque le reazioni potrebbero non essere quelle pianificate dagli inglesi e le implicazioni sarebbero imperscrutabili. Di fatto, gli effetti alle azioni di manipolazione cognitiva occasionerebbero risvolti molteplici e non determinabili. Una minaccia che si estenderebbe a tutte le Nazioni, anche a quelle dalle risorse economiche e tecnologiche non sviluppate. Pericolo che aumenta esponenzialmente in quei Paesi dalla scarsa omogeneità nazionale o fortemente divisi fra etnie culturali e religiose. Con l’ausilio della guerra cognitiva si può tendere anche a rallentare lo sviluppo di una Nazione evoluta distruggendo le sue tecnologie, un vantaggio competitivo di peso specifico importante nel contesto della guerra post-eroica. Per bilanciare gli squilibri regionali e globali, è stata ipotizzata anche la deterrenza nucleare: ossia creare una compensazione fra Stati basata sulle armi di distruzione di massa che possa trasmutarsi in un equilibrio cognitivo. La parificazione nucleare non escluderebbe in ogni caso le ingerenze della disinformazione, ma si annullerebbe nelle micro conflittualità regionali, le cui cause a volte sembrano distanti dalle logiche dominanti dei Paesi tecnologicamente ed economicamente avanzati. La proliferazione nucleare di un singolo Stato, avrebbe un forte impatto sulla società della Nazione stessa, con il rischio della nascita di gruppi dalla forte identità, pervasi da un super-io tale da indurli ad accettare la distruzione totale e dunque di loro stessi, come strumento razionale per raggiungere il fine prefissato.

Nella guerra cognitiva della disinformazione, non dovrebbero verificarsi perdite umane, da qui il concetto di post eroica, ossia l’assenza di forze militari sul campo non ingenererà vittime, ed ovviamente non potranno essere perpetrati atti di eroismo che condurranno al sacrificio gli eroi stessi. Pertanto si configurerebbe la possibilità di etichettarla come guerra giusta. Tale concezione è ricordata da Roland Bainton nel citare Platone: per poter essere considerata giusta, deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia ed il ristabilimento della pace. Dove, però, l’applicazione della giustizia sia equa, i diritti dei vinti non siano lesi e la pace non sia negativa. Come descritto dal giurista Carl Schmitt, la “justa causa”, non deve prescindere dallo “justus hostis”. Il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo fornito di pari diritti, contro il quale è necessario limitare l’uso della forza, sia fisica che mentale. Inoltre, la dottrina dello “jus in bello” contempla la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’Industria della Difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico. Anche Norberto Bobbio ha affrontato la teoria della guerra giusta nel profilo della giurisprudenza, sottolineando che in tal caso è necessaria una distinzione fra un processo di cognizione ed uno di esecuzione. Nel secondo caso, la guerra è intesa come pena o come sanzione da comminare al nemico, e l’atto di belligeranza è esaltato nella forza che dunque si pone al servizio del diritto. Nel processo di cognizione, le operazioni militari trovano il loro limite in quanto non adatte a discriminare il giusto dall’ingiusto; manca infatti un attore al di sopra delle parti che possa giudicarne i criteri di esecuzione, in quanto la guerra è giusta per entrambi i contendenti. Di fatto, la non discriminazione dei soggetti bersaglio tende a discostare la guerra giusta da quella cognitiva.

Giovanni Caprara

Bibliografia:
Emilio Marco Piano, “L’esercito UK arruola migliaia di Facebook Warriors per disinformare”. The Globalist, 2015
Roberto Di Nunzio: “Conseguenze sulla sicurezza interna della guerra dell’informazione”. Gnosis.
Luca Bellocchio: “Relazioni internazionali e politica globale”.
Michael Walzer, “Just and injust war”- New York Basic Books, 1977.
Giuseppe Pili, “La guerra come attività culturale” – Polemos, 2014.
Andrea Salvatore, “Schmitt e la teoria della guerra giusta” – Behemoth, n. 40 (2009)
Norberto Bobbio, “Il problema della guerra e le vie della pace” – Il Mulino, 2009.

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L’ORIENTALISTA GUERRIERO. OMAGGIO A PIO FILIPPANI-RONCONI. A CURA DI A. IACOVELLA, IL CERCHIO, RIMINI 2011

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Se c’è una cosa che non viene perdonata ad un docente universitario di Storia delle Religioni è questa: avere una visione spirituale della vita, che si traduce in un’immedesimazione simpatetica con l’oggetto di studio.

Se a questo si va a sommare l’essere “dalla parte sbagliata”, il quadro è completo. La demonizzazione e l’ostracismo di gran parte dei colleghi – per giunta invidiosi – e di gran parte del cosiddetto “mondo della cultura” sono assicurati.

E cosa importa se il reprobo conosce decine di lingue, alcune tra le più ostiche ed impenetrabili, sapendosi tra l’altro esprimere oralmente in idiomi assai lontani in occasione di convegni e conferenze internazionali…
Roba da lasciare di stucco gli astanti, per non parlare degli studenti, naturalmente i meno superficiali, letteralmente ammaliati dal “sacro fuoco” della Conoscenza che promanava dal conte Pio Filippani-Ronconi.

Filippani-Ronconi (1920-2010) non era uno semplice studioso delle religioni, o meglio delle dottrine e, soprattutto, delle discipline orientali come tutti gli altri.

Era L’Orientalista guerriero, come viene ricordato in un “omaggio” curato da Angelo Iacovella e pubblicato dalle Edizioni Il Cerchio di Rimini.

“Orientalista”, perché stiamo parlando dell’autore d’importantissimi studi sul Buddismo, l’Induismo, lo Yoga, il Pensiero cinese, l’Ismailismo, lo Zoroastrismo… Nonché di traduzioni di testi sacri e sapienziali delle suddette tradizioni. Ma non solo.

Proprio perché in Filippani-Ronconi era costantemente presente l’anelito a rivitalizzare – penetrando l’oggetto di studio – un’esperienza “mistica” alla portata dell’uomo occidentale contemporaneo e a riprodurre quindi la condizioni adatte per una sua specifica “via realizzativa”, egli si dedicò anche alla comprensione della spiritualità, della visione del mondo, dei popoli italici pre-romani, come gli Umbri. E, osserviamo di passata, non è senza significato che proprio l’Umbria, abbia dato i natali al Santo patrono d’Italia…

In altre parole, lungi dal voler confinare l’attività di “orientalista” nella palude dell’erudizione fine a se stessa, Filippani-Ronconi ne fece lo strumento per indagare – senza “orientalizzarsi” – le possibilità che le stesse dottrine e discipline orientali potevano offrire a chi, come lui, anelante all’Assoluto, non se la sentiva di “convertirsi”.

In realtà, da quanto emerge anche solo da questa raccolta di saggi e ricordi di chi ebbe la ventura di conoscerlo (1), il Conte, nato in Spagna da antica famiglia aristocratica italiana, seguiva una “sua” via, segnata essenzialmente dall’Ortodossia cristiana e da un ‘sodalizio dell’anima’ con Massimo Scaligero, che aveva – a suo avviso – mostrato delle possibilità più congeniali allo specifico “sentire” degli occidentali, interpretando a sua volta la lezione di Rudolf Steiner.

È noto che – pur non esprimendo giudizi trancianti come per altre correnti “spiritualiste” – Julius Evola non aveva un’eccessiva stima dell’Antroposofia (2), mentre Filippani Ronconi nutrirà sempre un grande rispetto per il Barone, tributandogli un bello scritto nel volume collettaneo Testimonianze su Evola, pubblicato nel 1973 (3).

Quanto a Guénon, prediligendo “la via dell’azione” l’orientalista guerriero si doveva sentire in un certo qual modo distante dalla via tracciata dal metafisico francese entrato in Islam, ma non “convertito” (punto, questo, essenziale per capire la sua “equazione personale”, per dirla con Evola).

Ma al di là di questo, oltre il sentiero indicato da questo o quel Maestro contemporaneo del filone “tradizionale”, resta il fatto che Filippani-Ronconi non diventò mai, pur conoscendolo profondamente e direttamente, un “patito dell’Oriente”, se con “Oriente” s’intende la pura e semplice assimilazione di un’altra “mentalità”. Anche perché – e qui gli non gli si può dare torto – uno non può diventare quello che non è.

Dunque, se occidentali siamo, e tali resteremo, Filippani-Ronconi, abbeverandosi alle fonti della “filosofia perenne” ancora accessibili in Oriente, intendeva trasfondere nuova linfa ad una Tradizione occidentale ancora riattivabile, naturalmente in forme nuove, “sintetiche”, e non seguendo certe mode “neopagane” al limite della ‘archeologia spirituale’ (con tutti i pericoli che ne derivano).

In fondo, il problema se l’era posto anche lo stesso René Guénon, se solo ci si va a rileggere la raccolta di scritti per le riviste “Atanòr” e “Ignis”, pubblicati tra gli anni 1924 e 1925, e che testimoniano – attraverso la collaborazione con Arturo Reghini – la plausibilità della ‘ipotesi di lavoro’ perseguita da chi non vede per gli occidentali altro che l’assorbimento puro e semplice da parte dell’Oriente (4).
Stabilito che per “occidentale” qui non s’intende un equivalente di “moderno”, la ricerca d’una “realizzazione” più adatta alla situazione psichica dell’uomo moderno occidentale è un problema tragicamente concreto che non può essere risolto adottando acriticamente e pedissequamente persino gli usi e i costumi d’altri popoli…

Si tratta in poche parole di trovare un equilibrio, consci tuttavia che gli occidentali (e qui il termine è da intendersi in ogni accezione) versano in un disperato bisogno di aiuto.

Di qui l’interesse di Filippani-Ronconi per l’Oriente e le sue forme del sacro, sempre considerate dal punto di vista archetipico, allo scopo di assorbire gli aspetti vivi ed operativi delle relative dottrine e discipline.
Il problema della rivivificazione dell’Occidente, che da tempo versa in uno stato comatoso e, addirittura, sta contagiando anche l’Oriente, è forse uno dei dilemmi più cogenti della nostra epoca. Se non vi si metterà mano assisteremo infatti ad una china sempre più dolorosa e distruttiva, al termine della quale vi sarà la nostra scomparsa pura e semplice di questa umanità.

Con ogni probabilità, il “problema dell’Occidente” sta iscritto nel destino di Roma. Per questo motivo, Filippani-Ronconi, che considerava l’estinzione del Fuoco Sacro dell’Urbe il prodotto d’un malinteso “Cristianesimo”, esordì nella pugna spiritualis proprio alle porte di Roma, sul litorale di Anzio, inquadrato, giovane volontario, nei reparti d’assalto germanici più spericolati e sprezzanti della morte. Pugnale tra i denti e via, contro i barbari invasori.

L’orientalista”, dunque, nasce come “guerriero”, non smettendo praticamente mai di combattere. Lo s’intende benissimo dallo scritto, di suo pugno, che chiude il presente libro, intitolato La guerra.

Chi non s’accontenta di una conoscenza superficiale da ostentare in pubblico sa benissimo che “si può affermare di conoscere veramente soltanto ciò che si diventa o ciò in cui ci si trasforma, in virtù di un moto interiore che conferisce alla realtà, altrimenti disanimata, un significato conforme all’io che con essa si congiunge e la fa propria” (5).

Di Filippani-Ronconi, conoscendo egli e l’Oriente e la guerra, si può dire, come minimo, che è stato fedele a questa aurea ed essenziale regola di vita.

Enrico Galoppini

NOTE
1) Per i dettagli dei contenuti del libro si rimanda alla scheda del sito delle Edizioni Il Cerchio: http://www.ilcerchio.it/l-orientalista-guerriero-omaggio-a-pio-filippani-ronconi.html.
2) Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Ed. Mediterranee, Roma 1990, pp. 91-105 (ed. or. 1932).
3) P. Filippani-Ronconi, Julius Evola: un destino. In: AA. VV., Testimonianze su Evola, Ed. Mediterranee, Roma 1985, pp. 118-124 (ed. or. 1973).
4) Cfr. R. Guénon, Il risveglio della tradizione occidentale. I testi pubblicati in Atanòr e Ignis, a cura di M. Bizzarri, Atanòr, Roma 2003.
5) A. Iacovella, Materiali per servire a una “biografia immaginale” di Pio Filippani-Ronconi, a p. 15 del libro che stiamo recensendo.

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VIVERE E MORIRE A DAMASCO: IL VERO VOLTO DEL DISASTRO SIRIANO

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“Congratulazioni alla Siria, il cui popolo ha resistito ad ogni forma di egemonia e di oppressione con tutti i mezzi disponibili: con la sua ragione, con l’intelletto e con la coscienza patriottica. Ci sono coloro che combattono con le armi in pugno, coloro che combattono raccontando la verità e coloro che continuano a combattere con il loro grande cuore nonostante tutte le minacce.” Queste sono le parole del Presidente Bashar al-Assad, pronunciate nel discorso alla cerimonia di insediamento per il suo terzo mandato presidenziale, conquistato con l’ 88,7% dei suffragi espressi, circa il 65% dell’elettorato.

Un vero e proprio plebiscito: mai e poi mai il timido oculista di Damasco avrebbe immaginato di ritrovarsi in una tale situazione. Certamente il Paese dovette affrontare una prima delicatissima fase – dopo l’indipendenza del 1946 – caratterizzata da una lunga serie di colpi di stato, che terminarono con l’arrivo di suo padre al potere, Ḥāfiẓ al-Asad (1970-2000) e del suo partito Ba‘th (Rinascita), grazie al quale si pervenne a una certa stabilità.

Il Ba’th fu fondato nel 1943 da Mišīl ‘Aflaq e Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār, l’uno di religione ortodossa e l’altro sunnita, i quali nel corso dei loro studi a Parigi vennero in contatto con teorie di carattere socialista che poi applicarono al loro nascente movimento, caratterizzato appunto dalla triade: Unità, Libertà, Socialismo. Tale movimento aveva come base il rilancio del patrimonio storico-culturale arabo, reputando l’Islam come elemento sicuramente importante ma non esclusivo, e presentandosi come partito che avrebbe potuto garantire una certo equilibrio in un Paese diviso e frammentato sia socialmente che culturalmente. Parliamo di una nazione multiconfessionale, nella quale il Governo e l’Assemblea Nazionale sono composti da tutte le rappresentanze etniche e religiose del popolo siriano.

Tornando ai nostri giorni, si può senza alcun dubbio affermare che il marzo 2011 ha rappresentato un punto di non ritorno per la Siria. Da quelle proteste di piazza che scossero il Paese per chiedere riforme si avviò una spirale di morte, distruzione, infiltrazione di mercenari e servizi segreti stranieri che stanno tuttora mettendo a dura prova il governo in carica. D’altronde, come diceva lo scrittore e giornalista Chuck Palahniuk: “Non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai”. Probabilmente era scritto nel destino di Bashar al-Asad che doveva sbarazzarsi di quell’aria riservata ed apparentemente mite per divenire il condottiero capace di guidare l’intero popolo siriano in questa tragica tempesta scatenata da potenze straniere ostili.

Laureatosi in medicina a Damasco nel 1992, Bashar al-Asad si trasferì a Londra per continuare la sua formazione post laurea nel campo oftalmologico. Né la vita politica né tanto meno quella militare erano ritenute confacenti alla sua persona: ma il destino, com’è noto, spesso e volentieri riserva tutt’altro. Nel 1994, infatti, in un tragico incidente stradale muore il fratello maggiore Basil, l’erede designato alla successione. A questo punto il giovane Bashar viene richiamato in patria e indirizzato direttamente all’Accademia militare , in quanto destinato a essere investito di quel ruolo che sarebbe spettato al povero Basil.

Quando nel 2000 muore il padre, Ḥāfiẓ al-Asad, l’attuale premier siriano ha circa 34 anni. Nei primi difficili anni di governo dovette far fronte al pericolo di una possibile spaccatura nel Paese e cercare in qualche modo di liberarsi del vecchio sistema autoritario che aveva ancora una certo potere, imboccando una tortuosa strada verso un processo di democratizzazione cominciato con alcune riforme economiche.

La situazione in Siria ancora adesso però resta gravissima e le dichiarazioni del Nunzio apostolico a Damasco Mons. Mario Zenari costituiscono un’ulteriore conferma: ”La popolazione civile ormai non ne può più, la situazione è in progressivo deterioramento, a cominciare dalla mancanza di lavoro, dalle fabbriche distrutte, dalle case in rovina, la mancanza di scuole… Quella che un tempo era la classe media, ora è in povertà e i poveri di un tempo, oggi sono in miseria”.

Le tristi immagini di persone brutalmente crocifisse da uomini del gruppo takfirista dell’ISIS, che negli ultimi tempi sono provenute dalla provincia siriana di Raqqa, sono il simbolo della tragica guerra civile vissuta da circa tre anni da un intero popolo. Il conflitto, in cui l’ESL (Esercito Siriano Libero) e una serie indistinta di gruppi takfiristi (tra i quali spiccano il Fronte Al-Nusra, il Fronte Islamico e lo stesso ISIS) combatte l’esercito regolare siriano, ha provocato oltre 140.000 morti e circa 2 milioni e mezzo di sfollati, traducendosi in una vera e propria catastrofe umanitaria.

Traffico d’armi, “aiuti” di ogni genere provenienti da Paesi stranieri vicini e lontani, distruzione, esecuzioni sommarie: storia dell’inferno siriano. I Governi occidentali di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Israele con il sostegno della Turchia e delle monarchie wahhabite dell’Arabia Saudita e del Qatar appoggiano la fazione dei cosiddetti “ribelli” contro il governo di Assad, il quale è a sua volta sostenuto da Russia, Cina, Iran e dal gruppo libanese Hezbollah.

Per capire la complessità dell’odierno mondo arabo bisogna in realtà tornare un po’ indietro, precisamente negli anni appena successivi alla Prima Guerra Mondiale. Caduto l’Impero ottomano, alleato di Germania e Austria-Ungheria nel primo conflitto bellico, furono Francia e Inghilterra a porre le basi per la costruzione della realtà geopolitica del Vicino Oriente,anche allo scopo di controllarne le ingenti risorse di petrolio e di gas naturale. Con l’accordo Sykes-Picot, difatti, le due suddette potenze europee si suddivisero le spoglie dell’Impero Ottomano.

La Siria e l’Irak, sulla base delle concessioni accordate dalla Società delle Nazioni, furono affidati rispettivamente alla Francia e all’Inghilterra. L’accordo Sykes-Picot ha realizzato i presupposti per la futura instabilità dell’area, con la creazione di 19 Stati caratterizzati da differenze etniche, culturali e religiose che hanno comportano notevoli problemi di convivenza. A ciò si aggiunga la famigerata “Dichiarazione Balfour”.

La Siria, com’è noto, ha importanti giacimenti di gas nelle sue acque territoriali e questi, insieme alla sua collocazione geografica, la rendono uno snodo fondamentale per il trasporto di idrocarburi fino ai mercati europei. La guerra civile e le successive sanzioni che sono state accordate al Paese nel corso di questi ultimi anni hanno non solo bloccato le esportazioni siriane di greggio in Europa, ma anche le importazioni dei prodotti petroliferi, obbligando in tal modo il governo siriano a rivolgersi a Paesi come il Venezuela, l’Iran e la Russia. Indubbiamente la politica energetica è stata all’ordine del giorno del governo di Assad, in particolare una forte attenzione è stata garantita al settore del gas: non solo sfruttamento di tale risorsa, ma anche piani infrastrutturali capaci di garantire, oltre all’approvvigionamento anche un ruolo strategico di transito per i produttori dell’area e per il mercato finale del vecchio continente.

Una politica – in poche parole – quella che nel 2009 lo stesso premier siriano definì “La strategia dei quattro mari”, cioè un piano per posizionare Damasco come centro vitale per il transito e commercio di carattere energetico, più la previsione di una sostanziosa parte di investimenti nella realizzazione di gasdotti tra il Mar Caspio, Golfo Persico, Mar Nero e Mediterraneo. In una conferenza congiunta ad Ankara con il presidente turco Abdullah Gul, Assad aveva dichiarato che tale piano strategico era utile per integrare lo spazio economico tra Siria, Iran, Iraq e Turchia e consacrare il suo paese come hub regionale di transito del petrolio e del gas, grazie alla sua posizione tra l’Europa e le principali zone di produzione tra il Golfo Persico e il Mar Caspio.
Progetto davvero ambizioso, ma che certamente avrebbe creato non poche tensioni con gli altri “competitor” regionali.

Per qualcuno un tal tipo di politica voleva significare spingersi un po’ troppo oltre certe ambizioni, e il governo Assad fin da subito ha dovuto subire spiacevoli conseguenze: il bombardamento all’oleodotto Kirbuk-Banias nel 2003 ne è stato una conferma. Il premier siriano condannò pubblicamente la guerra degli americani in Iraq e come ritorsione vi fu il bombardamento di tale conduttura che aveva servito per circa 50 anni i due confinanti Paesi: l’Iraq e appunto la Siria. Altra “spiacevole” conseguenza fu il “Syria Accountability Act” che nel 2004 fu varato dal Congresso statunitense, col quale furono previste una serie di sanzioni commerciali e finanziarie con lo scopo di mettere in ginocchio il Paese. La costruzione inoltre dell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan ha avuto come fine “punitivo” quello di escludere la Siria dai benefici derivanti dalle royalty, in quanto l’infrastruttura non passa per il Paese.
A tutt’oggi questa è l’unica conduttura che trasporta il greggio nel vecchio continente.

Le domande adesso che potremmo porci sono queste: perchè? A chi giova?
Tentando di fare una più attenta analisi della situazione, subito balza all’occhio un particolare di non poco conto. La produzione petrolifera della Siria è gestita dalle sue compagnie nazionali: la Syrian Petroleum Company e la Syrian Gas Company, con piccole quote di minoranza per gli stranieri. Tutto questo ovviamente tenendo bene in mente le importanti riserve di gas, soprattutto nelle sue acque territoriali, e la posizione di transito strategica, come detto poco prima.

Ricerche recenti hanno infatti confermato che le risorse di gas nel mediterraneo sono ingenti e alla Siria tocca una bella fetta. Rovesciare Assad quindi vuol significare poter mettere le mani su un “tesoro” che fino ad oggi è rimasto in gran parte inesplorato.
Se c’è inoltre uno stato che guarda con un occhio malevolo il tutto è il Katar, concorrente regionale per il gas con una riserva che è ritenuta la terza su scala mondiale (Qatar Morth Dome con 900 miliardi di metri cubi).

Tra l’altro, anche il trasporto del gas in Europa è una priorità per i produttori mediorientali, ed in questo vi sono progetti contrapposti in merito. Qualche anno fa la Turchia cercò di negoziare invano con i sauditi la costruzione di un gasdotto che sarebbe passato proprio sul territorio di quest’ultimi per poi agganciarsi al Nabucco (infrastruttura di marca statunitense che ha lo scopo di portare il gas centroasiatico verso il Mediterraneo e poi, da lì, in tutta Europa, col fine di sganciare il vecchio continente dall’orbita russa e dai suoi programmi energetici antagonisti e cioè il Southstream e il Northstream).

Il rifiuto dei sauditi a tale progetto ha complicato i piani, e allora si sarebbe dovuto optare per una soluzione di ripiego che avrebbe previsto il passaggio del gasdotto non solo in Giordania e Irak, ma anche in Siria, fino alla Turchia snodo finale delle forniture qatariote. Ecco che Turchia e Qatar, l’uno perchè aveva già accordi di fornitura con alcuni Stati europei, l’altro con la speranza di incrementare le proprie forniture, hanno avvertito la necessità di abbattere un “ostacolo” che sbarrava loro la strada per il compimento finale di tale progetto: la Siria di Assad. Subito pronta allora la propaganda occidentalista contro il giovane medico di Damasco, additato come sanguinario dittatore e grave pericolo per l’ordine internazionale. Campagne denigratorie, finanziamenti a ribelli anti-regime (Isis o Daesh) tutto per cercare di rovesciare il governo in carica siriano.
Certamente, la storia ce lo ricorda, il possesso di grandi quantità di risorse di gas, come nel caso della Siria, al di là di ogni valutazione indubbiamente positiva, costituisce non poche volte una vera e propria dannazione.

La zarina Caterina II affermava che proprio cominciando dalla Siria si può “possedere la chiave di casa Russia”: l’allusione è anche all’opportunità di agganciarsi alla famosa via della seta della Cina. Assad, infatti, ben comprendendo il tutto, si era affrettato a concludere accordi per il trasporto del gas iraniano verso il Mediterraneo in modo da mettere fuori gioco i competitor del progetto Nabucco.

Il mosaico è realmente complesso: interessi economici, accaparramento di fonti energetiche, questioni religiose. Ogni tassello a sua volta è dotato di un’ulteriore complessità di valutazione.
Il mondo arabo rappresenta evidentemente un fondamentale campo di battaglia per tutti i motivi poc’anzi enunciati. Poco prona al richiamo della logica mondialista e globalista, una tale realtà resiste ancora imperterrita e ben salda nelle sue radici e nella sua cultura.
Le primavere arabe tra l’altro sarebbero servite appunto a questo: cercare d’imporre regimi facilmente manovrabili dalle potenze occidentali (USA in primis) e inoltre minare la convivenza pacifica tra le diverse confessioni religiose: sciiti, sunniti e cristiani.

Paese a maggioranza sunnita, ma con un presidente alawita, la Siria è reputata il centro del nazionalismo arabo non integralista. Gli alleati regionali del regime sono: Iran, Iraq, Libano e Palestina, che possiamo anche definire probabilmente come gli ultimi ostacoli da abbattere per la creazione di un nuovo ordine mediorientale disegnato da Israele e USA che hanno finanziato e utilizzato in tutti questi anni l’universo combattente wahhabita per favorirne la realizzazione.

Non solo quindi risorse energetiche. Penetrare nel Vicino Oriente vuol significare contrastare e in qualche modo provare ad arginare l’avanzata russa e cinese nello scacchiere internazionale.

Il 2014 è stato un anno segnato da eventi che avranno probabilmente importanti ripercussioni negli equilibri geopolitici mondiali: la crisi ucraina, il fenomeno ISIS, il “santo Graal” energetico cino-russo, le sanzioni al governo di Mosca e l’attacco speculativo al rublo.

Non solo questo però. E’ di questi giorni infatti la notizia che lo scorso 4 dicembre la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti con 410 voti a favore e 10 contrari ha approvato una risoluzione che sostanzialmente concede al Presidente, in caso di necessità, senza alcuna autorizzazione da parte dell’organo legislativo, di usare ogni mezzo possibile, dalle sanzioni agli atti di guerra: è chiaro il riferimento in questo caso alla Russia. La stessa legge prevede inoltre un’ulteriore stanziamento di circa 350 milioni di dollari nella fornitura di armamenti all’esercito ucraino con la “speranza” da parte di Obama di poter fermare l’avanzata russa nell’Est nel Paese.
Mossa quanto mai rischiosa e pericolosissima quella degli USA.

Mosca nel frattempo, colpita dall’attacco speculativo al Rublo, è sempre più spinta tra le braccia dei cinesi, i quali tra l’altro hanno annunciato da poco l’inizio della convertibilità dello Yuan, seguita da un processo di de-dollarizzazione. Da fine mese infatti gli scambi fra Cina, Malesia, Russia e Nuova Zelanda potranno effettuarsi con le valute locali, senza alcun bisogno del dollaro.
Si prevede un 2015 carico di nuove tensioni e colpi di scena. Non resta semplicemente che augurare che possa essere un anno all’insegna del buon senso e del dialogo costruttivo. Ai posteri poi l’ardua sentenza.

Giuseppe Perrotta*

*Giuseppe Perrotta è laureato in Giurisprudenza presso l’Università del Sannio

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LA PORTE D’AFRIQUE. IL MAROCCO E L’UE

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Nella visione geopolitico-economica dell’Unione europea il Marocco, Paese africano, mediterraneo e atlantico, è la Porte d’Afrique. Gli innumerevoli accordi bilaterali siglati dal Regno nordafricano retto dal monarca Muhammad VI offrono l’accesso ad un mercato che, nel complesso, si estende a più di cinquanta Stati, per un totale di oltre un miliardo di consumatori e con una produzione che copre circa il 60% dell’intero prodotto lordo mondiale. D’altro canto Rabat si muove in una dimensione multipolare e aperta a tutti quegli agenti internazionali in grado di garantire uno sviluppo economico, politico e sociale al Regno mettendo in evidenza una sempre più spiccata vocazione europea, realtà di riferimento. D’altronde, le carte geografiche ci dicono che i quattordici chilometri che separano Punta de Tarifa e Punta Cires costituiscono il punto di maggior vicinanza tra l’Europa e l’Africa. Qui, nel punto in cui le acque impetuose dell’Oceano Atlantico si mescolano con quelle tranquille e riparate del Mar Mediterraneo, il Marocco si protende verso la penisola iberica in un metaforico desiderio di incontro con il Vecchio Continente. E qui, secondo la mitologia classica, in corrispondenza della Rocca di Gibilterra e del Jebel Musa arrivò l’eroe Eracle in una delle sue dodici fatiche: giunto ai limiti estremi del mondo, separò i monti Calpe, in Spagna, e Abila, in Marocco a formare le due colonne oltre le quali era vietato il passaggio a tutti i mortali. Nell’antichità, oltre tale limite si figuravano terre ricche e fertili e se, ad esempio, Platone vi colloca Atlantide, la mitica isola ricca di argento e di metalli (Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d’Ercole, c’era un’isola. E quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte (1)) nei giorni economici della modernità l’Unione europea vi colloca la possibilità di aprirsi a nuovi, ricchi e prosperi mercati.

La strategia UE è chiara: fare in modo che quello che Eracle divise torni ad unirsi, che Abila e Calpe si avvicinino e con loro le due sponde del Mediterraneo in modo da creare una grande area di libero scambio commerciale. Leader regionale nell’Indice Mondiale della libertà economica stilato dalla Heritage Foundation (2), con prodotto interno che ha fatto registrare una crescita negli ultimi anni, stimata al 4% per il 20153 e grazie alla sua stabilità politica è interlocutore privilegiato nell’area del Maghreb.

Divenuto indipendente da Parigi nel 1956, il Marocco di Re Muhammad V, riconosciuto nuovamente sovrano e richiamato dall’esilio nel 1957, manifestò una vocazione europea del suo Regno che pare estesa sino ad oggi: i dati del sondaggio Baromètre du voisinage de l’UE – Sud de la Méditerranée – Automne 2014 rivelano come i cittadini del Marocco abbiano un’immagine positiva dell’UE, pensino che le istituzioni comunitarie stiano muovendo nella giusta direzione e considerino l’Europa unita quale partner fondamentale per lo sviluppo del Regno. Per i primi passi concreti nelle prime relazioni tra Rabat e i prodromi delle istituzioni europee comunitarie bisogna attendere la fine degli anni ’60: è del 1969 la firma di un primo accordo di Associazione bilaterale della durata di un quinquennio, rinnovato, poi, nel 1976 da un’intesa sulla cooperazione stipulata nell’ambito della Politica Mediterranea della CEE avviata nel 1972.

Alla morte di Muhammed V sul trono del Regno succede il figlio Hassan II che, nel 1987, incoraggiato dalle politiche di allargamento della CEE e dalle prospettive di una integrazione con l’Europa, si spinge sino ad avanzare una formale richiesta di adesione alla comunità economica continentale. Questo è stato senza dubbio ha più simbolica che altro: il Re, pur essendo a conoscenza dalle informative elaborate dai propri diplomatici che non si presentava alcuna possibilità di ammissione, perseverò con la richiesta per dare un chiaro segnale al continente africano che il futuro del Marocco era destinato a orientarsi altrove se non si fosse risolta la questione relativa alla sovranità delle province del Sahara marocchino.

Il processo di avvicinamento tra le due sponde del Mediterraneo riprende con rinnovata enfasi nel novembre del 1995 quando le relazioni tra l’UE e il Marocco si inquadrano all’interno della cornice di quello che è noto come Processo di Barcellona o Partenariato Euromediterraneo, nome che indica la strategia europea adottata in relazione alla regione mediterranea. Gli obiettivi delineati a Barcellona afferiscono alla sfera politica (creare stabilità e sicurezza nella regione), economica (favorire lo sviluppo e la crescita con l’obiettivo nel medio-lungo periodo di istituire una zona di libero scambio) e culturale. Gli accordi bilaterali firmati nell’ambito del partenariato hanno reso il Marocco il principale interlocutore dell’Europa unita sulla sponda meridionale del Mar Mediterraneo.
Firmato il 26 dicembre 1996 ed entrato in vigore il 1° marzo 2000, l’Accordo di Associazione tra Unione europea e Marocco ne regola le relazioni commerciali oltre a definire in modo dettagliato le aree specifiche all’interno delle quali le linee guida elaborate nel processo di Barcellona possano essere sviluppate bilateralmente al fine di delineare una road map avente l’obiettivo finale di istituire un’area di libero scambio modellata sull’esempio comunitario e capace di unire nel concreto le due sponde del Mediterraneo già entro il 2012. Le disposizioni dell’Accordo si applicano ai prodotti industriali importati dall’UE in Marocco, ad esclusione di una lista di prodotti che continuano ad essere sottoposti al pagamento dei dazi e delle tasse previsti dal regime di diritto comune; prodotti industriali importati dal Marocco nell’UE; alcuni prodotti agricoli trasformati importati dall’UE in Marocco e viceversa; alcuni prodotti agricoli importati dall’UE in Marocco e viceversa; alcuni prodotti agricoli e della pesca importati dal Marocco nell’UE.

Dopo aver firmato nel luglio del 2005 un piano di azione condiviso nell’ambito della Politica Europea di Vicinato, nel 2008, in seguito alle riforme politiche, sociali ed economiche, il Marocco è diventato il primo Paese della regione ad ottenere lo status avanzato nelle relazioni con Bruxelles, primo passo concreto di quel processo di allargamento del soft power dell’UE che Romano Prodi nel 2002, quale Presidente della Commissione Europea, esaltò nel voler vedere un “cerchio di amici” circondare l’Unione e i suoi vicini più immediati, dal Marocco alla Russia e al Mar Nero. Il cerchio di amici sarà composto da paesi molto diversi e il tipo di relazioni dell’Unione con i rispettivi paesi dipenderà in gran parte dalle loro performance politiche e dalla loro volontà politica. Naturalmente, anche la geografia farà la sua parte. E’ compito della Commissione pensare a come migliorare i rapporti con tutti questi Paesi (4).

L’allora ministro degli Affari Esteri marocchino, adesso consigliare personale del Re, Taieb Fassi Fihri nel commentare lo storico evento riprese il concetto espresso dall’ex premier italiano: noi rispondiamo in concreto alla definizione di Prodi: “tutto tranne le istituzioni”. Noi siamo vicini a raggiungere il “tutto”. Questo impegno europeo sullo stato avanzato è, prima di tutto, una testimonianza di una fiducia nello sforzo del Marocco in termini di riforme politiche, di consolidamento dello Stato di diritto, di una giustizia migliore, di riforme economiche, di coesione sociale e di lotta contro la povertà.(5) Sua Maestà, Muhammed VI, spronò tutti gli attori nazionali a “mettere in comune i loro sforzi al fine di assicurare la messa in opera al livello previsto per aumentare le sfide inerenti questo Statuto, mettendo a profitto tutte le opportunità che offre in tutti i campo”.

L’obiettivo rimane il raggiungimento dell’accordo di libero scambio completo e approfondito (DCFTA, in inglese, ALECA in francese), un mercato di oltre 150 milioni di persone rilanciato nel 2013 e comprendente oltre a UE e Marocco anche Egitto, Giordania e Tunisia. Questo allargherebbe alla sponda europea del Mediterraneo l’Accordo di Agadir, siglato nel febbraio del 2004 e considerato a più voci come il primo e decisivo passo nella creazione di quell’Area Euro-Mediterranea di Libero Scambio prevista dal Processo di Barcellona: nella città marocchina, i rappresentanti di Rabat, Amman, Tunisi e Il Cairo hanno apposto le proprie firme su un documento che toglie le barriere non tariffarie al fine di creare una graduale zona di libero scambio con esenzione dai dazi doganali sul modello comunitario del Vecchio Continente.

Il 2013 è un anno di grande attivismo diplomatico sul fronte delle relazioni tra UE e Marocco: il 7 giugno è raggiunta un’intesa per un Partenariato per la mobilità per la gestione ed il controllo dei flussi migratori verso le sponde europee del Mar Mediterraneo (6) mentre il 16 dicembre viene stato varato un piano di azione quadriennale che mette a disposizione del Regno del Marocco aiuti economici per un ammontare di circa duecento milioni annui. assistenza economica dell’UE nei confronti del partner nordafricano si è dispiegata nel corso di quattro fasi: nell’arco temporale 1976-1995 sono stati siglati quattro successivi protocolli finanziari; nel 1996 il Marocco è stato inserito nel programma MEDA I che, nel complesso ha elargito 3.4 miliardi di euro ai Paesi terzi mediterranei; nel 2000 si è passati all’attuazione del MEDA II mentre dal 2007 Rabat usufruisce delle risorse elargite dallo strumento europeo di vicinato e partenariato che contribuirà all’attuazione dell’accordo Euromediterraneo grazie all’elaborazione e all’adozione di misure concrete, concordate tra le parti. Il piano d’azione UE-Marocco nel quadro della Politica Europea di Vicinato (PEV) persegue il duplice scopo di fissare misure concrete affinché le parti possano adempiere gli obblighi derivanti dagli accordi già stipulati e definire un quadro più ampio entro cui intensificare le relazioni UE-Marocco, al fine di raggiungere un livello di integrazione economica più elevato e di approfondire la cooperazione politica, conformemente agli intenti generali dell’intesa. Intanto, al fine di favorire la penetrazione e la competitività dei prodotti europei sul mercato africano e di arginare, così, la concorrenza delle merci asiatiche, sono stati liberalizzati gli scambi industriali oltre che agricoli e dei prodotti derivanti dalle attività legate alla pesca con un risparmio sulle imposte doganali di circa 33.000.000 di euro l’anno.

Ad inizio 2015 è stato siglato un accordo riguardante la tutela dei prodotti IG, soprattutto agricoli, denominazione che identifica un prodotto legato ad un territorio determinato ed usata come strumento di commercializzazione allo scopo di certificare la qualità di un prodotto, evidenziare l’identità di una marca e preservare le tradizioni culturali.

Di importanza strategica è il partenariato nel settore della pesca. Siglato a Rabat il 24 luglio 2013, approvato dal Parlamento Europeo il 10 dicembre 2013 con 310 sì, 204 voti contrari e 49 astenuti e ratificato nel luglio dello scorso anno dal Marocco, visto dall’ottica di Rabat il nuovo protocollo sulla pesca si può considerare come un successo diplomatico e negoziale considerato che assicura al Regno un reddito di 40 milioni di euro l’anno da destinare allo sviluppo del settore in cambio della possibilità di sfruttamento delle acque. L’accordo si applica ai territori posti sotto la sovranità o la giurisdizione di Rabat, formula che con cui l’UE risolve l’impasse relativa all’annosa controversia sulle province del Sahara marocchino reclamate dal Fronte Polisario.

Nonostante lo status di questi territori sia ancora al centro di un controversia internazionale irrisolta e che si trascina dagli anni settanta, il Governo marocchino ha varato un piano di sviluppo destinato a queste difficili zone di deserto che vada oltre le contese di sovranità (siamo tutti fratelli. Io sono saharawi, ho combattuto a Tantan contro i francesi così come la famiglia del Presidente del Fronte Polisario. Il Marocco è il nostro Paese, siamo un Regno stabile, ci interessa lo sviluppo umano e offrire lavoro ai cittadini. Le altre questioni vengono dopo (7)) volto a incrementare il settore della produzione ittica e il suo indotto, puntando fortemente sullo sviluppo delle infrastrutture portuali e marittime. Sono stati progettati lavori per ammodernamento e ampliamento dei porti El-Marsa (letteralmente “il porto”) e Tarfaya (8).

Completato a metà degli anni ottanta portando a termine i lavori iniziati dalle autorità coloniali spagnole che hanno amministravano la regione sino al 1975, e posizionato a 25 km della città di Laâyoune, il porto commerciale di El-Marsa è diventato un mezzo di sviluppo sostenibile per l’intera cittadina. La baia è stata allargata ed è stata costruita una zona in acque profonde che permette, al contempo, il traffico di merci e le attività inerenti la pesca. Questo porto ha la capacità di veicolare fino a 2 milioni di tonnellate di merce annualmente: “questo è lo scalo principale per movimentare merci e prodotti ittici. Si pensi che da qui transitano circa 300.000 tonnellate di pesce l’anno, soprattutto polpi e sardine, con un giro di affari di 900.000.000 di dirham (90.000.000 di euro). Oltre alle unità di produzione interne al porto, c’è una zona industriale legata a questa infrastruttura. La parte più esterna dello scalo è riservata alla movimentazione dei fosfati, quella più interna all’attracco dei pescherecci e delle barche dei pescatori artigianali. C’è la possibilità di far attraccare circa 450 barche di medie dimensioni e circa 12.000 piccole imbarcazioni. Un altro molo è riservato ad altre attività come la produzione di farina di pesce e i prodotti congelati da destinare al mercato estero. El – Marsa dispone di tutte le certificazioni internazionali di sicurezza e di qualità e occupa circa 12.000 persone” (9).

Il Presidente del Comune Urbano di El Marsa, Badr El Moussaoui, spiega come la cittadina che appartiene alla provincia di Laayoune e alla regione economica di Laâyoune-Boujdour-Sakia El Hamra viva di attività legate alla filiera del pesce e come le infrastrutture moderne di cui si è dotata la città permettano di rimanere a vivere nelle zone in cui siamo cresciuti, ci tengono vicini. Gli introiti derivanti dalle attività portuali consentono al Comune di sviluppare il tessuto urbano mentre le prospettive di sviluppo attraggono investimenti, locali e stranieri (10).

Il wali, rappresentante del Re, della regione, Yahdih Bouchaabi, saharawi, rappresentante del Polisario a Parigi fino agli anni ’70 per poi tornare al servizio del Regno come Ambasciatore del Marocco in Svezia e in Norvegia, spiega come2 il piano di sviluppo per le regioni del Sahara marocchino sia l’unica soluzione credibile, realistica e concreta per risolvere la questione e, al contempo, attuare uno sviluppo sostenibile della regione. Il Governo è aperto agli investimenti esteri, soprattutto europei visto che l’UE è il nostro partner commerciale privilegiato e io in prima persona, in nome del Re Muhammad VI, sono disponibile ad aiutare chiunque voglia portare ricchezza nel Sud del Marocco. La regione, così come tutto il Marocco, è accogliente per gli investitori, locali e stranieri” (11).

Centotrenta chilometri a nord del porto di Laayoune, troviamo lo scalo di Tarfaya, cittadina nota per aver ospitato Antoine de Saint-Exupery, autore de Il Piccolo Principe. Anche qui, sfruttando le risorse provenienti da Rabat, le autorità locali e regionali stanno progettando un progressivo allargamento dello scalo portuale: “i lavori stanno andando avanti secondo i tempi previsti. Tarfaya ha intenzione di mettersi al pari delle altre province marocchine. La città avrà un porto turistico internazionale e contatti con le compagnie che servono la tratta con le Canarie sono già stati avviati. Per quanto riguarda il porto commerciale, invece, sono previsti l’ampliamento delle zone di attracco delle imbarcazioni e lavori per aumentare la profondità delle acque di ingresso al porto. Tarfaya diventerà una porta aperta verso l’Europa e viceversa” (12).

Il Marocco occupa una posizione strategica, un hub capace di servire Africa, Europa e Stati Uniti, aprendo opportunità di investimento su mercati nuovi e consolidati e, in quest’ottica, di notevole rilevanza strategica sono le scelte operate da Rabat nella geopolitica dei trasporti (13). Se gli scali di El-Marsa e Tarfaya sono orientati ad uno sviluppo sempre più crescente delle provincie del Sahara marocchino, a livello internazionale, invece, si impone l’infrastruttura Tangeri Med. Dove Calpe guarda Abila, a 14 km dalle coste spagnole, collocazione strategica sulla via di passaggio tra Asia, Europa, Nord America e Sud America, si sviluppa questo scalo marittimo circondato da una zona franca di attività industriali e logistiche. Grazie a questa posizione strategica, è divenuto una piattaforma logistica di vari porti europei, basandosi sul funzionamento della produzione just in time: in meno di 24 ore, una commessa può lasciare il nord del Marocco e raggiungere il porto di Barcellona o di Marsiglia oppure in 48 raggiungere le coste francesi. Il porto è situato sulla seconda via marittima più frequentata al mondo, lo stretto di Gibilterra da dove transitano più di centomila imbarcazioni l’anno ed ha nel trasbordo di container la sua attività principale.

I rapporti tra UE e Marocco, quindi, diventano sempre più saldi: il Marocco è strategico nella visione di Bruxelles in cerca di stabilità e opportunità nel Nordafrica e, vantaggio della posizione geografica, rappresenta la migliore piattaforma di distribuzione dei prodotti destinati ai diversi mercati; dall’altra parte gli Europei rimangono uno dei partner privilegiati di un Regno che comincia a muoversi in una dimensione multipolare che guarda con interesse anche a Cina, Russia e Stati Uniti oltre che al proprio continente di appartenenza. In Marocco la spinta centripeta attrae interessi e capitali mentre le due sponde del Mediterraneo tendono ad avvicinarsi. Calpe e Abyla, le antiche colonne di Ercole si cercano mentre il Mediterraneo anela il suo mercato unico.

Andrea Turi

NOTE
1) Platone, Timeo, Capitolo III. Nel 1803, la mappa congetturale di Bory de Saint-Vincent la posiziona davanti alle coste marocchine.
2) Il Marocco si colloca all’89° posto a livello mondiale, all’8° a livello continentale. http://www.maroc.ma/fr/actualites/le-maroc-gagne-14-places-dans-lindice-de-liberte-economique
3) http://www.ehijournal.it/articoli/economiamondo/marocco-finanza-in-chiave-africana
4) http://europa.eu/rapid/press-release_SPEECH-02-619_it.htm
5) Le Maroc obtient le “statut avancè” auprès de L’UE, L’Express.
6) Fimatari UE, Marocco, Francia, Spagna, Italia, Belgio, Germania, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna e Svezia.
7) Conversazione privata con il Governatore di Tarfaya.
8) Un terzo sorgerà a Boujdour ma è ancora in costruzione.
9) Conversazione con le autoità portuali di El-Marsa.
10) Conversazione con le autorità comunali di El-Marsa.
11) Conversazione con Yachid Bouchaab.
12) Conversazione con il pacha di Tarfaya.
13) Oltre ai porti che servono le vie marittime, per le regione sahariane di rilevante importanza è l’aeroporto internazionale Hassan I di Laayoune: inaugurato nel 1985 dal Re Hassan II, questo scalo aeroportuale è una arteria vitale, risorsa e ricchezza per la regione, oltre ai voli regionali che legano la città di Laâyoune a tutte le altre città marocchine, i viaggiatori possono prendere anche dei voli diretti verso le Isole Canarie.

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G. A. ZJUGANOV, STATO E POTENZA, A CURA DI M. MONTANARI, EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO, PARMA 1999

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Nella convulsa fase della storia russa compresa tra l’inizio della perestrojka gorbacioviana e l’accordo di Belaveža del 8 dicembre 1991 si verificò sul piano storico-geopolitico la dissoluzione dell’ultima metamorfosi dell’impero multietnico eurasiatico guidato dalla Russia: quello sorto dalla Rivoluzione d’Ottobre e consolidatosi nell’URSS. Cause endogene ed esogene della dissoluzione del sistema federato dell’Unione sovietica imposero una revisione ideologica, politica e storiografica sulla storia dell’esperienza socialista, sull’identità del PCUS, e sul destino di entrambe. Già dagli inizi della Rivoluzione d’Ottobre tra le file dei suoi protagonisti era iniziata una revisione storica ed ideologica sulla stessa impresa storica bolscevica. Con il trotzkismo e l’ala radicale più internazionalista in seno al partito comunista tale revisione assunse i toni antipatriottici ostili alle sfide che si imponevano alla pars construens del movimento rivoluzionario in Russia al punto che, come sostiene acutamente Domenico Losurdo: «il motivo della rivoluzione tradita accompagna come un’ombra la storia iniziata con l’ascesa al potere dei bolscevichi». (1) Negli anni 90’ la Russia conobbe in seno al suo Partito Comunista l’esigenza di una revisione della storia russa in senso opposto alla litania funebre cantata dal trotzkismo prima e dagli ambienti liberali ed occidentalisti dell’era eltsiniana poi. Tra i protagonisti di questa reazione allo smantellamento dell’eredità storica e geopolitica sovietica, Gennadij Andreevič Zjuganov rappresentò certamente una posizione eminente.

Andrea Panaccione nella sua postfazione all’edizione italiana dell’opera Stalin sconosciuto (2004) dei fratelli Medvedev, rilevava: «già nell’opera del 1994, Deržava (trad. it. G. A. Zjuganov, Stato e potenza, a cura di M. Montanari, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999) l’esperienza dell’Unione Sovietica, dopo il trauma della rivoluzione e della guerra civile, veniva letta come lo scontro tra un principio di costruzione della potenza statale e nazionale e un principio rivoluzionario-avventuristico di carattere internazionalistico e “cosmopolitico”. La piena ascrizione di Stalin alla prima tendenza può essere considerata compiuta con la pubblicazione del saggio di Zjuganov Stroitel’ deržavy [Il costruttore di potenza] Nas sovremennik, n. 6, 2005, pp. 170-187, secondo il quale la visione geopolitica di Stalin, sintesi della visione imperiale (l’autosufficienza dello stato) e di quella panslavista (il “Grande spazio slavo”) avrebbe prodotto tra il 1944 e il 1953 “un cambiamento dell’ideologia di stato” e la piena affermazione dell’”ideologia del patriottismo”». (2)

Il trapasso del marxismo dalla riflessione sul piano sociologico classista al piano geopolitico interstatale costituisce uno dei cardini della revisione ideologica zjuganoviana fondata sulla rilettura dello Stalin teorico e protagonista storico del State building sovietico. Come ha riconosciuto lo stesso Žores Medvedev, i successori di Stalin non aggiunsero nulla all’edificio statale sovietico eretto nella trentennale esperienza politica del georgiano, lungimirante nella scelta di tutelare l’URSS dai rischi di forze centrifughe con un forte potere centrale.(3) La rappresentazione dei due orientamenti delineati da Panaccione trova un preciso riferimento nella ricostruzione storica proposta da Zjuganov dei “due partiti” in lotta durante il periodo sovietico. Da un lato egli individuava un partito «del nostro Paese» che combatteva per la formazione di un unico fronte patriottico, abbandonando il frazionismo classista per la creazione di stabili condizioni economico-politiche. Dall’altro, stava un «partito di “questo Paese”» (4) che riduceva le vittorie bolsceviche ad un mero successo tattico entro una più ampia strategia internazionalista orientata a sacrificare la patria «sull’altare di Moloch della rivoluzione mondiale».(5) La valorizzazione dell’«eredità culturale presovietica» (6) da parte del PCFR (Kommunistìčeskaja Pàrtija Rossìjskoj Federàcii, 1993) guidato da Zjuganov, e saldamente configuratosi dal 1996 ad oggi come secondo partito della Federazione Russa, poggia sulla rivendicazione di un autonomo spazio storico-culturale della civiltà russa entro una prospettiva geopoliticamente fondata sul suo secolare carattere plurietnico e plurireligioso. Il recupero di una coscienza geopolitica quale condizione per lo sviluppo sociale ed economico indipendente dello spazio post-sovietico costituisce un caposaldo dell’orientamento zjuganoviano: «l’impero è la forma di sviluppo dello stato russo storicamente e geopoliticamente obbligata». (7) Ben lungi dal rappresentare un programma anacronistico, il riconoscimento di una dimensione imperiale per la configurazione giuridico-territoriale della civiltà russa costituisce da un lato un momento strategicamente decisivo per le sfide poste dall’attuale sistema internazionale nella fase di decomposizione dell’unipolarismo, dall’altro una risposta adeguata alla teoria geopolitica classica anglosassone, che già agli inizi del XX secolo elaborò la sua strategia di contenimento dello spazio eurasiatico. L’idea di una continuità geopolitica nella discontinuità ideologica di tale spazio politico era stata già polemicamente espressa da Sir Halford Mackinder: «la nostra vecchia concezione inglese di federazione di comuni e comunità, la concezione americana di federazione di stati e provincie, e il nuovo ideale della Lega delle Nazioni sono tutti loro opposti alle caste politiche nelle formazioni tiranniche dell’est Europa e dell’Heartland, siano esse dinastiche o bolsceviche. […] Contro quest’aquila a due teste del potere continentale gli occidentali e gli isolani devono lottare». (8)

La strategia del PCFR vede dunque arricchita la sua strategia ed il suo programma di sviluppo per la Federazione Russa con l’apporto di un paradigma geopolitico classico rovesciato rispetto all’orientamento mackinderiano.
L’idea di una ricostituzione dell’Unione su una «nuova base volontaria» (9) a partire dall’intimo legame storico-culturale «dei Grandi-russi, dei Piccolorussi e dei Bielorussi», (10) converge con il programma dell’Unione Economica Eurasiatica (ufficializzata dal 1 gennaio di quest’anno) e con la prassi della politica estera del partito in carica “Russia Unita”, come riconosciuto esplicitamente da Zjuganov in una recente intervista concessa all’emittente russa “LifeNews”.(11) Marcatamente geopolitico, infatti, era l’orientamento perorato dal leader del PCFR nel suo saggio Deržava, in cui propugnava di elevare la Russia a principale soggetto storico in grado di esercitare un’«opposizione alla monopolizzazione della geopolitica» (12) perseguita dal blocco BAO. (13) L’originalità della proposta zjuganoviana è attestata dalla convergenza della lettura geopolitica delle relazioni internazionali del tardo stalinismo, con la linea di pensiero della scuola eurasiatista, che avrebbe visto il filosofo Aleksandr Dugin impegnato nella collaborazione diretta alla stesura del saggio qui presentato. (14)

L’interesse mostrato per la costruzione di solide relazioni interstatali come quelle della Federazione Russa con la Repubblica Popolare Cinese, progetto oggi decollato più che mai con la creazione del gasdotto “Power of Siberia” nel quadro degli storici accordi sino-russi di approvvigionamento energetico trentennale e di incremento delle relazioni commerciali in rubli-yuan, si colloca in una visione geopolitica complessiva nota ad alcuni analisti occidentali come «dottrina Primakov». (15) Il consolidamento di un tale blocco continentale all’interno delle relazioni internazionali del XXI secolo costituirebbe l’evoluzione di quell’«erede storico e geopolitico dell’Impero Russo» (16) smantellato da Eltsin, e rifondato su nuove basi con la politica “continentalista” già impostata dal presidente kazako Nursultan Nazarbayev negli anni 90’ e perorata dal presidente russo Vladimir Putin.

All’interno della presente raccolta di saggi degli anni 90’, il leader del PCFR individuava alcuni fattori disgreganti ed ostativi alla formazione di una coscienza patriottica in grado di consolidare l’unificazione dello spazio eurasiatico. Oggi la presenza di questi elementi di disunione strumentalizzati da forze apertamente ostili ad una simile integrazione economica, culturale e geopolitica sullo “scacchiere eurasiatico” attesta la preveggenza e la lucidità dell’analisi zjuganoviana. In primo luogo la disgregazione dello stato russo ha determinato la rottura della sua tradizionale continuità geopolitica, con i conseguenti appelli occidentalisti alla “derussificazione” e alla frammentazione nazionalistica della complessa entità plurinazionale della Russia federata. (17) In secondo luogo la propaganda piccolo-nazionalista ha ostacolato l’unificazione dei popoli fratelli (18) e creato quindi le condizioni per l’appello internazionale alla legittimazione formale di una congerie di rivendicazioni separatiste. In terzo luogo l’incitamento alla russofobia ha assunto direttrici ideologiche e mediatiche eterogenee (dal radical-liberalismo dei diritti civili al neo-banderismo ucraino) ma convergenti nella loro comune matrice occidentalista. Infine, all’«aggressione spirituale» (19) alle basi della cultura tradizionale e religiosa russa si è aggiunta una silenziosa aggressione psicologica allo stato russo concertata dai soci più aggressivi dell’alleanza atlantica, che minacciano la sua politica di sicurezza con una politica estensiva verso est.
Ben lungi dal costituire un mero revival neo-sovietico, i contributi di Zjuganov indicano, all’interno di una prospettiva complessiva di “cambio delle pietre miliari della storia” del Partito Comunista, soluzioni geopolitiche e valoriali da seguire mediante un appello alla «lezione della continuità storica»,(20) fondamentale per la palingenesi della stato e della società russa nell’attuale fase delle relazioni internazionali.

Davide Ragnolini

 

NOTE
1) D. LOSURDO, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008, p. 48.
2) A. PANACCIONE, Stalin e i suoi interpreti: un percorso di letture, postfazione a ROJ A. MEDVEDEV – ŽORES MEDVEDEV, Stalin sconosciuto. Alla luce degli archivi segreti sovietici, Feltrinelli, Milano 2006, p. 389.
3) Ivi, p. 294.
4) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, a cura di M. Montanari, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, p. 104.
5) Ivi, p. 168.
6) A. FAIS, L’idea geopolitica dei comunisti russi, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 7 marzo 2013, http://www.eurasia-rivista.org/lidea-geopolitica-dei-comunisti-russi/18823/.
7) Ivi, p. 51.
8) H.J. MACKINDER, Democratic ideals and reality, National Defense University Press, Washington 1996, p. 144.
9) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, op. cit., p. 118.
10) Ivi, p. 106.
11) Zjuganov commenta l’anno che è appena trascorso, “Associazione Marx XXI”, 9 gennaio 2015, http://www.marx21.it/comunisti-oggi/nel-mondo/24963-zyuganov-commenta-gli-avvenimenti-dellanno-che-e-trascorso.html#.
12) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, op. cit., p. 62.
13) Sulla categoria geopolitica designata dall’acronico “BAO” si confronti la voce all’interno del glossario del sito di analisi strategica belga “Dedefensa”: http://www.dedefensa.org/article-glossairedde_bloc_bao_10_12_2012.html.
14) M. MONTANARI, Il rosso e il nero: Zjuganov tra i nazisti e Huntington, “Limes” n. 4/1998, p. 163.
15) Un breve panorama della strade percorribili dalla politica estera da un punto di vista euratlantista è offerto da C. JEAN, Prospettive geopolitiche della Russia, in ID., Geopolitica del caos. Attualità e prospettive, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 154-169.
16) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, op. cit., p. 95.
17) Ivi, p. 65.
18) Ivi, p. 66.
19) Ivi, p. 68.
20) Ivi, p. 79.

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VASILE LOVINESCU, GEOGRAFIA SACRĂ ŞI IDEEA DE IMPERIU

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Singurul scriitor român citat de Jean Parvulesco printre cei treizeci şi şase care, cum ne declară el însuşi, “ont le plus compté pour [lui et] ont souterrainement nourri [son] oeuvre” (1), adică “au contat cel mai mult pentru [el şi] au nutrit subteran opera [sa]”, este Vasile Lovinescu.

Vasile Lovinescu se naşte pe 17 (30) decembrie 1905 la Fălticeni, în nordul Moldovei. “Tata, om de carte, călător impenitent, care simţea Europa ca o singură ţară” (2), se trage dintr-o familie făcută ilustră de magistraţi şi ofiţeri, ca şi de intelectuali renumiţi, precum criticul literar Eugen Lovinescu (1881-1943); iar mama îşi are originea într-o ramură aristocratică transilvană. Unul dintre cei doi fraţi ai lui Vasile, Horia Lovinescu (1917-1983), a devenit celebru ca dramaturg; o verişoară, Monica Lovinescu (1923-2008), a fost jurnalistă şi critic literar la Paris.

După războiul european, adolescentul Vasile se mută cu părinţii la Bucureşti, unde îşi continuă studiile secundare la Liceul “Sfântul Sava”. Odată terminată Facultatea de Drept (în 1929), profesează avocatura, îndeplinind funcţia de avocat al municipiului Bucureşti şi, din 1942, de consilier juridic la Uzinele Siderurgice din Reşiţa. Publică în diferite reviste (“Viaţa literară”, “Viaţa românească”, “Adevărul literar şi artistic”, “Credinţa”, “Familia”, “Azi”, “Vremea” etc.), arătând interes pentru folclorul românesc şi tradiţiile orientale.

Aflând, în 1932, de cartea lui René Guénon Le Roi du Monde (Regele lumii), începe cu autorul ei o corespondenţă epistolară care va dura din 1934 până la începutul anului 1940.

La sfatul lui Guénon, în martie 1936, Lovinescu se duce în Franţa şi în Elveţia pentru a obţine iniţierea în sufism şi este introdus de Frithjof Schuon în tariqah alawiyyah.
Întors la Bucureşti, începe să publice în revista franceză “Études Traditionnelles” seria de articole intitulată La Dacie hyperboréenne, semnată cu pseudonimul “Géticus”.

Acest lucru va avea răsunet doar cincizeci de ani mai târziu. Ediţia italiană îngrijită de mine în 1984 (apărută chiar în luna Iulie, când Vasile Lovinescu se stingea din viaţă) şi ediţia franceză din 1987 i-au dat posibilitatea lui Vintilă Horia să vorbească cu admiraţie despre Lovinescu în Spania, pe când în România academicianul Virgil Cândea a atras atenţia asupra imaginii Daciei arhaice realizate de Lovinescu şi de alţi intelectuali români.

În particular, ediţia franceză din 1987 a trezit interesul unor cercetători precum Charles Ridoux sau Paul Georges Sansonetti; acesta din urmă, elev al lui Henry Corbin şi Gilbert Durant, a ţinut la Sorbona un curs despre “Dacia hiperboreană”.

Prin studiul acesta, ce în România a văzut lumina tiparului doar în 1994, dar a apărut iniţial în limbă franceză în anii 1936-1937, Vasile Lovinescu a aplicat acele principii de simbolism istoric şi geografic pe care René Guénon le-a expus zece ani mai târziu, în 1945, în cartea Le règne de la quantité et les signes des temps (Domnia cantităţii şi semnele vremurilor).
“Or, există într-adevăr – scrie René Guénon în această carte – o ‘geografie sacră’ sau tradiţională, pe care modernii o ignoră la fel de total ca şi pe celelalte cunoştinţe de acelaşi gen; există, de asemenea, un simbolism geografic, ca şi un simbolism istoric, şi ceea ce le dă semnificaţia lor profundă este valoarea simbolică a lucrurilor, pentru că prin aceasta se stabileşte corespondenţa lor cu realităţi de ordin superior; dar, pentru a determina în mod efectiv această corespondenţă, trebuie să fii în stare, într-un fel sau altul, să percepi în lucrurile însele reflexul acestor realităţi. Astfel, există lucruri care sînt îndeosebi apte să slujească drept ‘suport’ pentru acţiunea ‘influenţelor spirituale’, şi pe acest fapt s-a întemeiat totdeauna stabilirea unor ‘centre’ tradiţionale, principale sau secundare, printre care ‘oracolele’ Antichităţii sau locurile de pelerinaj sînt exemplele exterioare cele mai evidente; există apoi alte locuri care nu sînt mai puţin favorabile manifestării unor ‘influenţe’ cu un caracter cu totul opus, aparţinînd celor mai joase regiuni ale domeniului subtil” (3).

În La Dacie hyperboréenne Vasile Lovinescu spune de la început că migraţia popoarelor hiperboreene dinspre nordul Eurasiei spre sud a fost un fel de pelerinaj, “o migraţie sacră, cu ai săi sacerdoţi-regi, purtând din etapă în etapă, fără nici o improvizaţie şi după o ştiinţă geografică precisă, ‘penaţii’ săi, altarele sale, suporturile sale spirituale” (4).

Această migraţie, declară el, nu trebuie să ne intereseze din punctul de vedere al istoriei profane, ci din cel al simbolismului.
Iar simbolismul migraţiei hiperboreene se leagă – continuă el, folosindu-se de o terminologie hindusă şi de sintagme guénoniene – de manifestarea lui Prakriti, adică a substanţei primordiale. De fapt, etapele migraţiei hiperboreene corespund cu fazele lui Prakriti: fazei iniţiale de indistincţie polară îi urmează ruptura de echilibru a celor trei gunas (adică a celor trei condiţii ale existenţei universale, condiţii la care sunt supuse toate fiinţele manifestate), ruptură impusă de necesara manifestare a posibilităţilor totale ale ciclului; urmează apoi o coborâre “tamasică” de la nord spre sud, întreruptă uneori de etape şi de proiecţii “rajasice” la est şi vest.

Cele două extreme ale acestei coborâri sunt Polul Nord şi Grecia; adică, itinerariul migraţiei hiperboreene este verticala Nord-Sud care leagă aceste două puncte.
Coborând pe această verticală, migraţia hiperboreană a întâlnit paralela 45°, la jumătatea distanţei dintre Pol şi Ecuator; aici migraţia s-a bifurcat în ramuri orizontale, pe când o altă parte din ea a urmat verticala până în Grecia. “Şi crucea – scrie Lovinescu – a fost astfel desăvârşită” (5).

El mai observă că, dacă verticala se prelungeşte, ea traversează Egiptul, Etiopia şi ţara lui Kush, încât, scrie, “dacă ar mai fi încă o geografie sacră tradiţională, acesta ar fi primul Meridian” (6).

Ubicată în centrul ideal al crucii descrise de migraţiunea hiperboreană, Dacia ocupă o poziţie eminent crucială. “Geografia Daciei – scrie Lovinescu – (…) este dominată de o realitate centrală: podişul Transilvaniei, încercuit de lanţul Carpaţilor şi de Munţii Apuseni, cei mai sălbatici şi cei mai nepătrunşi din Europa. În jurul acestei formidabile cetăţi naturale, sunt întinsele câmpii ale Nistrului, ale Tisei şi ale Dunării. (…) De la Rin şi Alpi până la marele zid chinezesc, indefinitul domneşte stăpân: pământuri nemărginite, ţinuturi care încep nu se ştie unde şi sfârşesc nu se ştie unde. În acest ocean de posibilităţi, Dacia este singura ţară caracteristică, definită, formând o unitate geografică” (7).

Dacă cineva ar obiecta că reprezentarea geografică lovinesciană este una fantezistă, Mircea Eliade i-ar răspunde că aici “nous sommes en présence d’une géographie sacrée et mythique, seule effectivement réelle, et non pas d’une géographie profane, ‘objective’, en quelque sorte abstraite et non essentielle” (8); adică: “noi suntem în prezenţa unei geografii sacre şi mitice, singura efectiv reală, nu a unei geografii profane, ‘obiective’, într-un anumit fel abstracte şi neesenţiale”.

Dar nu este vorba numai de “geografia sacră şi mitică” a lui Lovinescu. Dacă analizăm datele provenite de la ceea ce Eliade cheamă “geografie obiectivă”, putem observa uşor acei factori naturali şi culturali care, în decursul istoriei, au determinat caracterul “central” al spaţiului românesc.

Principalele elemente naturale ale geografiei române sunt Munţii Carpaţi, Dunărea şi Marea Neagră. Carpaţii, Corona montium, închid într-un inel Transilvania, care, în perspectiva geopoliticienilor români, reprezintă pentru România acel Kernland (“ţinutul sâmbure”) şi acel Mittelpunkt (“punctul central”) de care vorbesc respectiv Rudolf Kjellén şi Friedrich Ratzel.

Factorii culturali caracteristici sunt identitatea neolatină, prin care poporul român aparţine unei familii lingvistice care din Europa a ajuns până la America Centrală şi Meridională, şi confesiunea ortodoxă, prin care România face parte dintr-o arie cu dimensiuni euroasiatice, care se întinde de la Belgrad până la Vladivostok. Simultana apartenenţă la familia neolatină şi la familia ortodoxă face din România un punct de junctură între Apusul european şi Orientul creştin.

Centralitatea României iese ulterior în relief dacă considerăm că Transilvania este o regiune mediană din mai multe perspective. Această regiune, care, după bătălia de la Mohács, a jucat rolul de Stat cuzinet între imperiul habsburgic şi imperiul otoman, din perspectiva lingvistică este zona spre care s-au îndreptat sectoarele neolatin, germanic şi ugrofinic, pe când din perspectiva confesională ea a reprezintat punctul de convergenţă al ortodoxiei, al catolicismului şi al cultului protestant.

Încă o dată îl putem cita pe Mircea Eliade, care îi mărturisea lui Claude-Henri Rocquet: “Vous le savez, la culture roumaine constitue une sorte de ‚pont’ entre l’Occident et Byzance, d’une part, et, d’autre part, le monde slave, le monde oriental et le monde méditerranéen (…) Je me sentais le descendant et l’héritier d’une culture intéressante parce que située entre deux mondes: l’occidental, purement européen, et l’oriental. Occidental, par la langue, latine, et l’héritage de Rome, par les moeurs. Mais je participais aussi à une culture influencée par l’Orient et enracinée dans le néolithique” [Mă simţeam descendentul şi moştenitorul unei culturi interesante, deoarece e situată între două lumi: lumea occidentală, pur europeană, şi lumea orientală. Eu mă trăgeam deopotrivă din aceste două universuri. Cel occidental, prin limba latină şi prin moştenirea romană în obiceiuri. Dar mă trăgeam şi dintr-o cultură influenţată de Orient şi înrădăcinată în neolitic”] (8bis).

Într-adevăr, “sunt evidenţe geografice care se impun şi ca evidenţe spirituale” (9), notează Lovinescu în 1934, comentând o întâlnire între ziariştii români şi confraţii lor sârbi şi cehi. “Aruncaţi-vă ochii pe hartă – scrie cu această ocazie în paginile din “Vremea” – şi vi se va părea evident, limpede, fără discuţie, că în jurul acestei bătrâne Dunăre popoarele formează un bloc, un complex divers dar unitar lăuntric, o unitate care există latent, providenţial, şi pe care e de datoria noastră s-o scoatem din domeniul latenţelor, din blocul său de marmură, şi să o perfectăm, să-i înfiripăm viaţă” (10).

Când scrie aceste rânduri, Lovinescu nu regretă imperiul dunărean al Habsburgilor, căci el judecă Austro-Ungaria “o eroare psihologică”, cu toate că a fost, scrie, “o mare realizare economică” (11).

Ani mai târziu, în scrierea O icoană creştină pe Columna Traiană Lovinescu îşi exprimă despre imperiul Habsburgilor o opinie mai netă şi categorică, considerând Hofburgul din Viena ca “centrul ultimei rămăşiţe a Imperiului roman, distrus în 1918, spre nenorocirea lumii” (12).

Dar ideea imperială reprezentată de dinastia catolică a Habsburgilor, observă Lovinescu, “nu izvorăşte din creştinism (…) Este precreştină şi a fost instituită pentru Europa de doi eroi solari, Julius Caesar şi Octavian August, amândoi a sole missi, trimişi de soare, Monarhi şi Pontifici [sic] Maximi” (13).

Citind un pasaj din Virgiliu (Georgice, I, 24-42), Lovinescu deduce că August “se identifică cu semnul zodiacal al Balanţei, în realitate devenind astfel un rege de Justiţie, ca Melchisedec, Traian şi l’alto Arrigo, cu toţii emanaţi din Tula” (14) şi că instituirea Imperiului echivalează cu “o înfrîngere a forţelor infernale” (15).

De fapt, însuşi Lovinescu ne aminteşte că vechii Părinţi ai Bisericii, când încercau să interpreteze enigmaticul pasaj din Epistola a doua către Tesaloniceni a Sfântului Apostol Pavel, unde este vorba de katéchon-ul (adică “acela care reţine”), ei “gîndeau în mod obişnuit că obstacolul la venirea Anticristului era Imperiul roman” (16). Cu alte cuvinte, Anticristul se va manifesta atunci când Imperiul roman se va prăbuşi.

În Occident, Imperiul roman s-a prăbuşit în 476, pe când în Orient a dispărut o mie de ani mai târziu, în 1453.

Totuşi, în Occident, Imperiul roman a înviat în anul 800, ca Sfântul Imperiu, şi, scrie Lovinescu, el “a avut clipe frumoase” (17), cu toate că nu poate fi comparat “cu ce fusese Imperiul roman ca putere, măreţie, organizaţie, continuitate, pace înăuntru şi în afară, forţă militară” (18).

Dar şi în Orient Imperiul roman a continuat să existe într-o formă diferită după prăbuşire. Cum scrie Nicolae Iorga, “Après plus de mille ans le Sultan turc refaisait l’oeuvre de Constantin le Grand” (19), adică: “După mai mult decât o mie de ani, Sultanul turc refăcea opera lui Constantin cel Mare”, aşa încât “la domination ottomane ne signifiait qu’une nouvelle Byzance, d’un caractère religieux pour la dynastie et l’armée” (20), adică: “stăpânirea otomană nu însemna decât un nou Bizanţ, cu un caracter religios pentru dinastie şi armată”. Deci, în viziunea lui Iorga (21), Imperiul otoman a fost – citez încă o dată cuvintele lui – “ultima ipostază a Romei, (…) Roma musulmană a turcilor” (22).

Când Lovinescu scrie că în 1918 a fost distrusă “ultima rămăşiţă a Imperiului roman”, prin această definiţie el înţelege, cum am văzut, Austro-Ungaria, fără să ţină seama de faptul că moştenirea Imperiului roman a fost revendicată de sultanii otomani, în mod special de Mehmed al II-lea şi de Soliman Magnificul.

Dar moştenirea romană nu a fost revendicată numai de Otomani. Si Rusia a fost identificată cu Roma, după ce călugărul Filofei din Pskov a scris, în scrisoarea-panegiric adresată în 1510 marelui cneaz Vasili al III-lea: “Două Rome au căzut. A treia rezistă. Şi nu va mai exista a patra”.

Dacă ar fi avut în vedere revendicările otomană şi rusească, Lovinescu ar fi avut o altă confirmare despre natura crucială a României, constatând că această ţară ocupă un spaţiu central între teritoriile celor trei Rome.

Pe de altă parte, geopoliticienii români din perioada interbelică au insistat asupra acestei poziţii centrale, arătând cum “geografia obiectivă” nu contrazice deloc “geografia sacră şi mitică”, cel puţin în cazul României.

Dacă Gheorghe Brătianu a afirmat “Noi trăim aici la o răspântie de drumuri, la o intersecţie de culturi şi, din păcate, la o intersecţie de invazii şi de imperialisme” (23), geopoliticianul Vintilă Mihăilescu (1890-1978), punând în evidenţă poziţia de răscruce geografică şi geopolitică a României, a considerat că această ţară se află în punctul în care converg liniile de tendinţă provenite din Europa centrală, din Balcani şi Turcia şi din Rusia (24). Simion Mehedinţi (1869-1962), în ce-l priveşte, a scris că România, aflându-se de-a lungul diagonalei dunărene, este predestinată prin însăşi poziţia sa geografică să stabilească relaţii între ţările Europei apusene şi ţările din Orientul Apropiat (25).

Dacă Europa, mai devreme sau mai târziu, îşi va recâştiga suveranitatea, atunci România va putea împlini rolul care îi este destinat de însăşi poziţia ei geografică: adică, nu un rol de avangardă al Occidentului atlantic, ci o funcţiune de pod în continentul euroasiatic.

Claudio Mutti

NOTE

1. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, “Éléments”, 126, Automne 2007, pp. 54-57.
2. Vasile Lovinescu, Folticenii de vis, “Pagini bucovinene”, a. II, nr. 15, Martie 1983.
3. René Guénon, Domnia cantităţii şi semnele vremurilor, Humanitas, Bucureşti 1995, pp. 139.
4. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, Editura Rosmarin, Bucureşti 1994, p. 15.
5. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, cit., pp. 43-44.
6. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, cit., p. 44, nota 17. Cu aceste preocupări are legătură o întrebare adresată de Lovinescu lui René Guénon, o întrebare ce acesta din urmă a găsit-o fără de rost: “vous dites – i-a răspuns Guénon – qu’il vous est très utile de savoir le méridien du Caire; moi qui y habite, je ne le sais pas et je m’en passe très bien…” (“Dumneavoastră spuneţi că v-ar fi de mare folos să ştiţi care este meridianul din Cairo; eu, care trăiesc la Cairo, nu ştiu şi nu mă interesează deloc…”) (René Guénon, Scrisoare către Vasile Lovinescu din 16 Decembrie 1934).
7. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, cit., p. 23.
8. Mircea Eliade, Images et symboles, I, 3, Gallimard, Paris 1988, p. 50.
8bis. Mircea Eliade, L’épreuve du Labyrinthe, Entrétiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris, 1978, pp. 26, 116.
9. Vasile Lovinescu, Sensul unei conferinţe, “Vremea”, nr. 344, 24 Iunie 1934.
10. Vasile Lovinescu, Sensul unei conferinţe, cit.
11. Vasile Lovinescu, Sensul unei conferinţe, cit.
12. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), Cartea Românească, Bucureşti 1996, p. 172.
13. Vasile Lovinescu, Note de lectură. La romanul lui Gustav Meyrink, Der Engel von westlichen Fenster, în Incantaţia sîngelui, Institutul European, Iaşi 1993, p. 190.
14. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), Cartea Românească, Bucureşti 1996, p. 172.
15. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., ibidem.
16. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., p. 188.
17. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., p. 154.
18. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., p. 154.
19. Nicolas Iorga, Byzance après Byzance, Paris 1992, p. 48.
20. Nicolas Iorga, Formes byzantines et réalités balkaniques, Paris-Bucarest 1922, p. 189.
21. Care este aceeaşi cu viziunea lui Arnold Toynbee: “The Greek Christian Roman Empire fell to rise again in the shape of a Turkish Muslim Roman Empire” (Arnold Toynbee, A Study of History, ed. a doua, London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158).
22. Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, Cleveland, 17 Febr. 1930, cit. de Ioan Buga, Calea Regelui, Bucureşti 1998, p. 138.
23. Gheorghe I. Brătianu, Chestiunea Mării Negre, Curs 1941-1942, Universitatea Bucureşti, Facultatea de Filozofie şi Litere, ed. Ioan Vernescu, p. 11.
24. Vintilă Mihăilescu, Unitatea şi funcţiunile pământului şi poporului românesc, Bucureşti 1943, p. 73. Pasajul din care am citat a apărut în “Geopolitica” (Bucureşti), a. VII, nr. 31 (3/2009), p. 35.
25. Simion Mehedinţi, Le pays et le people roumain: considérations de géographie physique et de géographie humaine, Bucureşti 1937, pp. 99-100.

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L’ISIS IN BOSNIA? NIENTE DI NUOVO…

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La Bosnia è il più grande centro di reclutamento in Europa dei combattenti del cosiddetto “Stato islamico”; non si tratta solo di bosniaci, ma anche di individui di cittadinanza tedesca, austriaca o serba.

Lo ha scritto alcuni giorni fa il Jutarnji List di Zagabria, riprendendo il reportage di un gruppo di giornalisti tedeschi che di recente hanno visitato il villaggio di Gornja Maoca, nel nord-est della Bosnia, che ha una forte concentrazione di settari wahhabiti e viene considerato un campo di addestramento per i futuri guerriglieri diretti in Siria e in Iraq.

“Appena ci hanno visti si sono messi in tutta fretta a nascondere bandiere nere dell’Isis”, raccontano i giornalisti tedeschi. A loro si è poi rivolto Edis Bosnic, secondo la stampa leader del movimento wahhabita locale. “Se cercate terroristi, qui non li troverete di sicuro, noi conduciamo una vita tranquilla, secondo le regole dell’islam e non vogliamo giornalisti in giro”, ha detto Bosnic, affermando di essere contrario alla violenza. Ma, prosegue il giornale, questo non si direbbe a giudicare dal suo profilo Twitter, dal quale è evidente il suo appoggio per l’Isis.

Non ci sarebbe da sorprendersi se il radicalismo dell’autoproclamato “Stato Islamico” si fosse diffuso anche in Bosnia-Erzegovina, dove hanno trovato rifugio molti miliziani – reclutati in funzione antiserba negli anni Novanta dagli stessi paesi che oggi finanziano l’Isis.

Sorprende piuttosto che i media croati debbano attendere un “servizio” di giornalisti tedeschi per apprendere la notizia, vista l’eccellente tradizione dei loro servizi di sicurezza e il forte interesse del Governo di Zagabria per quanto avviene nella vicina Bosnia e visto che la Croazia è da anni un affidabile alleato degli Stati Uniti d’America nella “lotta al terrorismo”, come dimostrano le coperture fornite negli anni all’attività spionistica della NSA nei Balcani. “Questa Agenzia ha fornito le attrezzature migliori che esistano, questa Agenzia croata ha fornito i mezzi, hanno addestrato dei croati, delle persone in America e attraverso la N.S.E.I. croata gli americani controllano tutto il territorio: dalle quattro posizioni dove hanno l’attrezzattura hanno una serie di postazioni, quattro posizioni da dove intercettano, collocate nei pressi dei confini della Serbia e del Montenegro e attraverso questa cosa viene controllato tutto il traffico telefonico nella ex Jugoslavia, ha la capacità di intercettare 40mila conversazioni contemporaneamente! …” (1).

Strano che con un apparato simile a disposizione, gli alfieri della “guerra al terrorismo” si siano lasciati sfuggire la crescita esponenziale di un movimento come l’Isis … ma si sa che gli “americani sono un po’ ingenui”.

Stefano Vernole

NOTE
1) La dichiarazione resa dal giornalista croato Ivo Pukanic agli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia di Bari nel 2002 è citata nel mio Ex Jugoslavia: gioco sporco nei Balcani, Anteo, Cavriago, 2013, pp. 188-189.

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DANTE E IL SUFISMO

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Dante e il Sufismo è un evento che si terrà venerdì 20 marzo alle ore 15 presso la Sala Leopoldine, Piazza Tasso, 7 a Firenze.

Dante e il Sufismo è un progetto culturale e di pace a cura della Dottoressa Amal Oursana, in collaborazione con la Fondazione Camelot e con il contributo della Regione Toscana che ha l’obiettivo di diffondere la conoscenza sufica in Italia, in particolare in Toscana e nella città di Firenze.

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KOSOVO, PUNTO DI NON RITORNO

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I pericoli delle profondità della miniera di Trepça, luogo simbolo di uno degli scioperi più duri nella Jugoslavia del 1989, rappresentano più che l’importante complesso industriale di Mitrovica la metafora dell’attuale crisi politica in cui versa il Kosovo. Divisa dalla parte sud del fiume Ibar in cui lavorano anche minatori albanesi e quella a nord nella zona di Zvečan a maggioranza serba, le cavità minerarie hanno in ogni loro ingresso la scritta “Me Fat”, ossia “buona fortuna”. Fortuna, che da molti mesi sembra aver abbandonato le istituzioni di Priština.
Proprio durante le commemorazioni per il settimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza da Belgrado, l’inizio dello sciopero dei minatori di Mitrovica, sede del principale pozzo della Trepça, ha coinciso con l’acuirsi dell’ennesimo stallo politico.

Alla base dello stato di allarme vi è l’alto numero di cittadini kosovari che stanno spopolando interi quartieri della stessa città di Mitrovica, come di Drenica, Shala, Drenas, Skenderaj e Vushtrri, per iniziare il loro cammino verso altri Paesi europei. Diretti prima a Belgrado e subito dopo verso la città di Subotica in terra ungherese, vero trampolino di lancio per l’arrivo in Germania, Francia o Svizzera, migliaia di famiglie stanno abbandonando il Kosovo poiché esasperate dalle tragiche condizioni di povertà dettate dalla crisi economica e dall’alto livello di disoccupazione. Ad emigrare verso i Paesi dell’Unione Europea non sono soltanto giovani e disoccupati, ma anche tutti coloro i quali hanno lasciato un lavoro retribuito con un media di un paio di euro al giorno.
Quello che appare evidente oramai da tempo è come gli obiettivi prefissati da Priština nel 2008 stiano lentamente diventando quasi irraggiungibili. La comunità internazionale inoltre, insieme all’Unione Europea, dopo aver legittimato e riconosciuto la Dichiarazione d’Indipendenza dalla Serbia, rimane inerte dinnanzi i drammatici scenari che stanno destabilizzando l’intero Kosovo.

Dopo il blocco delle attività parlamentari durato oltre cinque mesi dovuto all’incapacità politica del neo-governo di eleggere il proprio Presidente dell’Assemblea, le critiche dichiarazioni nei confronti della comunità albanese rilasciate dal Ministro delle Comunità e dei Ritorni, Aleksander Jablanovic, hanno scatenato a Priština una vera e propria guerriglia urbana.
L’arresto di Shpend Ahmeti, sindaco della capitale kosovara e leader del partito Vetëvendosje, insieme ad un centinaio di manifestanti albanesi, dimostra come le più elementari regole di sicurezza siano completamente inosservate anche da figure istituzionali e politiche. Realtà che ha già caratterizzato il Kosovo nello scandalo di traffici illeciti e crimini contro la comunità serba che videro coinvolti gli ex primi ministri Ramush Haradinaj e Hashim Thaçi.

Più paradossale appare l’atteggiamento della comunità kosovara di etnia non albanese che negli ultimi giorni ha chiesto un intervento risolutore da parte di Belgrado; i kosovari-albanesi, invece, continuano a vedere qualsiasi forma di dialogo proprio con la Serbia come una reale minaccia alla sovranità statale del Kosovo.
Momentaneamente la Serbia coopera come sempre fatto nell’attuazione delle basilari misure di sicurezza al confine con la regione Nord del Kosovo, dialogando con le autorità di polizia ungherese per raggiungere una migliore unità d’intenti nel controllo del flusso di migranti e criticando Priština quando ritenuto opportuno.
L’accusa incassata dalla autorità albanofone direttamente dall’Ufficio Governativo serbo per il Kosovo, a causa della profanazione di diversi luoghi di culto ortodossi a Obilic e Gnjilane, palesa la rilevante posizione di Belgrado nei rapporti bilaterali.
Dinnanzi all’attuale scenario, l’ultimo accordo raggiunto tra il Premier serbo Aleksander Vučić e il suo alter ego kosovaro Isa Mustafa sul tema giustizia e immigrazione illegale, pone proprio la Serbia come possibile partner strategico per un ritorno alla normalità. Infatti, come evidenza la Risoluzione n.1244 dell’Onu, ufficialmente il Kosovo rimane ancora legato alla sovranità di Belgrado che ne riconosce solo l’autonomia della regione. I poteri di veto al Consiglio di Sicurezza Onu di Russia e Cina, contrari da sempre all’indipendenza kosovara, potrebbero giocare un ruolo fondamentale in futuro se lo scenario di crisi dovesse richiedere un nuovo intervento delle autorità internazionali.

La situazione in Kosovo è stata infatti sottolineata in una delle ultime assemblee generali delle Nazioni Unite direttamente dal Segretario Ban Ki-moon. Quest’ultimo ha espresso le sue più serie preoccupazioni non solo per il fenomeno migratorio in fieri, ma per gli illeciti che tale scenario potrebbe nascondere e sviluppare in futuro.
Da un paio di mesi molti mass media, sia serbi che kosovari, hanno sottolineato possibili illeciti derivanti dall’esodo di massa nato in Kosovo.
Le prime accuse sembrano ricadere su un presunto racket di etnia albanese in grado di trovare spazi incontrollati presso la frontiera serbo-ungherese e aiutare soprattutto cittadini albanesi residenti in Kosovo a raggiungere altre parti d’Europa.
Le statistiche redatte dall’Ufficio Immigrazione di Belgrado confermano che circa ventiseimila albanesi hanno ricevuto il passaporto serbo ma, visti i report pubblicati da giornali sulla quantità di persone che giornalmente abbandona il Kosovo, potrebbe essere facilmente confermata l’idea che vi sia un illecito giro d’affari nel rilascio di documenti biometrici a cittadini kosovari capaci così di lasciare il Paese.

Al di là delle forti manifestazioni dei partiti filo-albanesi Vetëvendosje e Aleanca për Ardhmërinë e Kosovës, è proprio la cooperazione tra Priština e Tirana che è stata criticata dalle stesse autorità serbe e ungheresi.
La recente inaugurazione del “Corridoio di Transito Comune” voluto dalla Direzione Generale delle Dogane di Albania e Kosovo, se da una parte consentirà ai cittadini di entrambi i Paesi un rapido attraversamento della frontiera, per Serbia e Ungheria rappresenta il rischio di creare un passaggio legalizzato, difficile dunque da controllare, che dai “Balcani occidentali” conduce facilmente verso l’Unione Europea. Inoltre, l’atteggiamento passivo di Priština al confine con la Serbia, spaventa ancor di più Vučić per un possibile incremento dello stato di insicurezza ed il conseguente rallentamento del percorso di avvicinamento e integrazione nell’Unione Europea.
Il pericolo di realizzare una “zona franca” non spaventa solo Belgrado. Quasi tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, specialmente Germania, Austria, Francia e Svezia, hanno constatato con preoccupazione che la partecipazione di molti albanesi all’interno del fenomeno dell’Islamic State rappresenta un possibile pericolo dopo i fatti di Parigi.

Mentre la rappresentanza Ue a Priština ha garantito che tutte le prossime domande di asilo presentate verranno regolarmente respinte per mancanza delle condizioni giuridiche di rilascio (persecuzioni, guerre, calamità di vario genere), Berlino ha dichiarato di aiutare nell’umano rimpatrio i migranti arrivati negli ultimi giorni dal Kosovo.
La mossa tedesca, simile a quella ungherese che ha rispedito indietro i rifugiati, arriva dopo l’accordo bilaterale siglato nel 2004 che favoriva l’occupazione stagionale di cittadini proveniente dal Kosovo in Germania. Dal Ministero degli Affari Esteri per i Balcani, Turchia e Paesi dell’European Free Trade Association, è stato emanato un comunicato ufficiale dove Berlino garantisce il suo impegno nella cooperazione con il Kosovo nel ripristino della vicenda riguardante l’immigrazione illegale.
Il rappresentante ufficiale del Ministero degli Esteri tedesco, incontrando la presidente della Repubblica di Kosovo, Atifete Jahjaga, ha visitato la parte meridionale di Mitrovica. Entrambi hanno chiaramente detto alla cittadinanza di non tentare di lasciare il Paese perché non sarà più possibile farlo.

Dopo i traffici illegali di organi, armi e droga, il Kosovo si candidata a divenire il nuovo “buco nero d’Europa” detenuto in passato dall’Albania. Tutto ciò continua ad evolversi intorno ad una continua erosione della legittima autorità politica messa a dura prova dall’etnia albanese, da un insufficiente controllo del territorio nella parte Nord, dalle palesi incapacità di fornire servizi pubblici come il lavoro ed una sempre maggiore difficoltà di interagire con l’estero.
Che sia il Kosovo il prossimo “Stato fallito” generato dalla comunità internazionale?

Francesco Trupia

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LA “NUOVA OSTPOLITIK” TEDESCA NEL CONTESTO MULTIPOLARE

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Un recente articolo su “Foreign Affairs” paventa l’avvento di una “politica estera della Germania post-occidentale”. L’autore, Hans Kundnani, membro dell’European Council on Foreign Relations, presenta uno scenario futuribile in cui la Germania, sempre più legata alle esportazioni asiatiche, complice anche la situazione storica segnata dalle sanzioni contro Mosca, che la indurrebbe a riconsiderare il suo legame con l’occidente, possa scegliere di volgere ad Est e abbandonare i propri storici legami con l’Ovest. (1)

Kundnani ricorda prima di tutto che tale messa a repentaglio della politica occidentale della Germania (Westbindung), non è nuova. Sebbene la Germania sia diventata centrale all’interno del contesto europeo e sia stata anche una delle patrie dell’illuminismo, essa ha vissuto, a seguito dell’impatto col mondo anglosassone dopo la prima guerra mondiale (e in generale durante la “guerra dei trent’anni europea”, per dirla con Arno J. Mayer), un’emergente nazionalismo e il sorgere di una identità in opposizione ai valori dell’occidente anglosassone liberale, da cui si distinguerebbe per propria stessa natura secondo Thomas Mann, come si legge in “Considerazioni di un impolitico”. Rifiuto dei valori occidentali che sarebbe culminato nel nazismo e che troverebbe solo in parte le proprie premesse in quella “rivoluzione conservatrice” maturata tra le due guerre mondiali. Ernst Nolte sottolinea infatti che “non pochi rappresentanti della rivoluzione conservatrice dopo il 1933, e anche prima, furono trai più decisi oppositori del nazionalsocialismo”. (2) Secondo Heinrich August Winkler, il nazismo sarebbe stato invece “il climax del rifiuto tedesco del mondo occidentale“.

Il recente avvicinamento alla Cina della Germania e il rinnovato clima di Ostpolitik tedesca, risale secondo Kundnani già alle guerre di Bush. Sebbene nel 2001 Gerhard Schroder garantì appoggio incondizionato agli USA per l’invasione dell’Afghanistan, lo stesso non avvenne per l’Iraq, quando il cancelliere tedesco scelse una “via tedesca” in contrasto con i progetti americani di rovesciamento di Saddam Hussein. A partire da questi eventi la Germania avrebbe assunto sempre più una “politica di pace” come proprio faro nelle relazioni internazionali, definendo se stessa come una Friedensmacht, “forza di pace”. E ciò si sarebbe manifestato nella politica di spesa militare inferiore al 2% del PIL, che è il livello di accordo sancito trai membri della NATO. Si ricordano di recente la riluttanza tedesca a sostenere l’intervento francese in Mali e nella Repubblica Centrafricana, l’astensione sulla mozione sull’intervento in Libia nel 2011 contro la Francia, la Gran Bretagna e gli USA e accanto a Russia e Cina. Se si aggiunge il clima di “sentimenti anti-americani” suscitato dallo scandalo dello spionaggio della National Security Agency a danno della stessa cancelliera Merkel e di alti funzionari tedeschi, fatto che suscitò una netta reazione della Germania, il quadro di divisione dagli indirizzi occidentali apparirebbe ancora più chiaro.

Contestualmente a questo profilo “morbido” e poco incisivo militarmente sul piano internazionale, a livello europeo la Germania ha visto crescere la quota di esportazioni sul PIL, secondo stime della Banca Mondiale citate da Kundnani, dal 33% del 2000 al 48% del 2010, principalmente a causa del ruolo esercitato dal cambio fisso dell’euro. Il fattore del transito di importazioni tedesche da paesi extra-Ue attraverso i porti olandesi e belgi dovrebbe indurre cautele però sull’effettivo surplus extra-UE della Germania verso i BRIC, in quanto molto dell’import di materie prime dall’Olanda sarebbe in realtà import da paesi extra UE. (3) La Germania ha comunque operato la scelta, a fronte della posizione di preminenza in Europa, “di fondare la propria politica estera sui propri interessi economici e, in particolare, sulla necessità delle esportazioni”, che si rivolgono in particolare all’Europa. Tale politica ha incontrato la contrarietà degli americani e del FMI ed è stata attuata peraltro in violazione delle stesse regole europee (Macroeconomic imbalance procedure), che prevedono che il surplus delle partite correnti di un Paese europeo non possa superare il 6% del PIL. (4) La precisa responsabilità della Germania nella crisi europea, ormai riconosciuta anche negli USA, con l’imposizione dell’austerity ai danni dei paesi meridionali del continente come metodo di aggiustamento degli squilibri commerciali (il surplus tedesco nel 2007, pari a 195 miliardi di euro, trovava sblocco per 3/5 nella stessa Eurozona ricorda Kundnani), ha fatto proporre a Patrick Chovanec, della Columbia University, che una buona risposta alla situazione di stallo dell’Europa sarebbe l’uscita (anzi l’espulsione) della Germania dall’euro.(5) Prosegue Chovanec rilevando che, in un regime di cambi flessibili, gli aggiustamenti di cambio avrebbero consentito di spostare la localizzazione della domanda dai paesi in deficit a quelli in surplus di domanda, mentre nella situazione attuale dell’eurozona i debitori europei sono stati costretti a ridurre drasticamente la domanda, “attraverso una combinazione di austerità fiscale e rientro dal debito”. Ciò, se ha consentito di ridurre i disavanzi commerciali verso la Germania, ha però provocato uno squilibrio non solo nel surplus verso l’Europa, ma anche verso i paesi emergenti, complice anche l’euro debole (i deficit verso Cina e Giappone si sono rapidamente erosi). La crescita export led della Germania a danno dei paesi periferici e verso il resto del mondo ha però avuto un’altra conseguenza drammatica, cioè quella di rendere l’Europa il buco nero della domanda globale, determinando un impatto deflativo sull’economia mondiale, come su quella europea.(6)

Il crescente peso delle esportazioni asiatiche, in conseguenza dell’esaurimento del serbatoio di domanda europeo, fa pensare a Kundnani che la Germania stia volgendo ad est e stia elaborando una propria nuova Ostpolitik.(7) Ciò sembrerebbe confermato dalla difficoltà della posizione tedesca rispetto alle sanzioni attuate contro la Federazione Russa e dal ruolo di mediatore assunto da Berlino a Minsk giorni addietro. La volontà di non rompere il cordone con Mosca servirebbe anche a tutelare le grandi imprese tedesche con affari in Russia e a garantire gli approvvigionamenti di gas russo di cui la Germania abbisogna grandemente. Sembrerebbe inoltre che la Merkel si sia espressa criticamente durante il summit della NATO a Wales nel settembre scorso, rispetto ai progetti di allargamento dell’alleanza atlantica verso i paesi dell’ex blocco comunista, cosa che violerebbe il Founding Act del 1997 stipulato tra la NATO e la Russia. (8)

Ma ciò che teme più Kundnani è una strategia di “pivot to Asia” (verso la Cina in particolar modo) da parte della Germania. Le esportazioni tedesche verso la Cina sono il doppio del valore di quelle verso la Russia e la Cina è il principale mercato per Volkswagen. L’intesa sarebbe anche di principio trai due paesi, soprattutto sugli squilibri di un capitalismo anglosassone finanziarizzato, che ha prodotto la crisi innescata nel 2008, e sul tema del quantitative easing, criticato per i suoi effetti inflazionistici. I due paesi hanno avviato poi nel 2011 consultazioni annuali bilaterali che ne rafforzano ulteriormente i legami diplomatici. Il rischio per la supremazia dell’Occidente, secondo Kundnani, è che qualora la Germania trovasse inaccettabili ulteriori sanzioni contro la Russia, ciò potrebbe creare crepe ancora maggiori dentro l’Europa e tra questa e gli USA. Tale paura di una più stretta intesa con l’Oriente della Germania come sineddoche dell’Europa, ricorda l’autore, era già stata espressa da Henry Kissinger, quando vedeva nell’Ostpolitik di Willy Brandt un pericolo per l’unità transatlantica. Conclude infine – con una nota di timore – riflettendo sul fatto che nell’ipotesi di una uscita della Gran Bretagna dall’UE, l’Europa potrebbe seguire la Germania nella sua spinta verso l’est, acuendo i contrasti con gli USA e producendo uno “scisma da cui l’Occidente potrebbe non risollevarsi”. I disegni quindi una unione UE-NAFTA, già auspicati da Huntington, a quel punto naufragherebbero definitivamente. (9)

Con maggiore prosaicità, la politica estera della Germania appare più di piccolo cabotaggio di quanto non si affanni a pontificare Kundnani. Intrappolata nella sindrome del “piccolo paese” essa non riesce a darsi un proprio disegno in vista di una collocazione matura sullo scenario globale, puntando a riscuotere il dividendo di una crescita guidata dalle esportazioni nel breve periodo (tipica di un paese mercantilista richiuso su se stesso), ma non fondando un modello duraturo in un’ottica di lungo periodo.(10) La revisione della politica economica neoclassica solo concepita sul lato dell’offerta e ostile a sostenere la domanda, sebbene possa consentire all’Europa unita di conseguire benefici, non eliminerebbe tuttavia il problema di un continente dominato da un solo paese (la Germania) e per di più legato in maniera sostanzialmente supina alle direttive di Washington. Gli USA concepiscono il Vecchio continente ancora come propria “testa di ponte” in tutti sensi, con finalità strumentali e funzionali alle proprie logiche unipolari, mentre la Germania non è chiaro se possa assolvere al ruolo di potenza che riesca a controbilanciare l’ipoteca statunitense. Tale quadro non lascia spazio a ottimismi sul futuro di un’Europa che, quandanche dovesse raggiungere la completa unificazione politica, lascerebbe in secondo piano i paesi “cicala”, per quanto cari al modello export led tedesco, senza toccare il predominio strategico degli USA.

Domenico Caldaralo

 

Note

(1) “Leaving the West Behind. Germany looks east”, in Foreign Affairs, January/February 2015 Issue http://www.foreignaffairs.com/articles/142492/hans-kundnani/leaving-the-west-behind
(2) Ernst Nolte, La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, p. 4.
(3) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-18/senza-ue-surplus-si-sgonfia-063854.shtml?uuid=ABRes8BB
(4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-01-19/la-germania-esporta-go-go-e-viola-8-anni-trattati-europei-se-non-cambia-rotta-sara-l-eutanasia-dell-euro-102152.shtml?uuid=ABRJb8fC&fromSearch
(5) http://foreignpolicy.com/2015/02/20/its-time-to-kick-germany-out-of-the-eurozone/
(6) http://www.eunews.it/2014/12/10/leuropa-germanizzata/26945
(7) http://www.ilfoglio.it/articoli/v/125161/rubriche/merkel-torna-all-ostpolitik.htm
(8) http://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_25468.htm
(9) S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997, p. 459
(10) http://www.ft.com/intl/cms/s/0/faf48600-7e43-11e4-87d9-00144feabdc0.html#axzz3T9JG2b73

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L’ATTENTATO DI TUNISI E UNA MAGRA CONSOLAZIONE

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I fatti li conosciamo. Più di venti morti al museo del Bardo, tra cui alcuni turisti italiani. Un paese, la Tunisia, che fino alla cosiddetta “Primavera araba” era un capolavoro di “sicurezza” per tutti.

Lo posso dire per diretta esperienza, avendovi soggiornato per due volte, un mese intero, per studiare Arabo. Non fiatava una mosca e nessuno rischiava nulla. Come dovrebbe essere dappertutto.

Poi ci son tornato a Capodanno, visitando tra le altre cose anche il museo del Bardo, ma l’aria era cambiata. Era arrivata la “primavera”, appunto. E con quella, la prospettiva di veder trasformata la Tunisia in una nuova Algeria, o in una Libia, se preferite.

Italiani che avevano aperto delle attività hanno chiuso baracca e burattini, vedendosi saccheggiare tutto nei giorni del sacro fuoco “rivoluzionario”. Altri, che c’erano tornati prima di me, facendosi una passeggiata nell’oasi di Tozeur, invece dei treni cantati da Battiato avevano trovato una banda di scugnizzi che ti mette le mani addosso. Certo “canagliume” capisce subito quando può allargarsi senza temere più il bastone del potere.

Intanto, non potendo operare alla luce del giorno coi bulldozer come in Libia, una manina fanatica appiccava il fuoco, nottetempo, al mausoleo di Sidi Bou Said, che sarebbe come dar fuoco a Sant’Antonio a Padova eccetera.

I tunisini non stanno affatto meglio di prima. Il turismo – una voce molto importante per l’economia del paese – è sempre più in sofferenza e, per quanto riguarda questa stagione, il discorso è chiuso. Ma che importa: i tunisini mangeranno “la democrazia”.

Gruppuscoli disseminati qua e là provano a giocare alla guerra (“jihadista”), trovando riparo nelle regioni orientali, adiacenti all’Algeria, e nell’estremo sud. Ma questi “ratti” (mai definizione fu più azzeccata) si annidano anche nei sobborghi delle città. Quelli della famosa miseria e disperazione che giustificherebbero, secondo i soliti sociologi, anche i furti e le rapine.

Quando sul finire del 2010 il mitico Bou Azizi si dette fuoco, fui tra i pochi, assieme agli amici di “Eurasia” e pochi altri, a mettere sul chi va là dai facili ed ingenui entusiasmi. La malafede, poi, non la prendo nemmeno in considerazione, anche se so benissimo che molti degli “esperti” che fanno “opinione” in merito avevano il compito di cantare le magnifiche sorti e progressive del mondo arabo-musulmano che finalmente avrebbe trovato “libertà” e “democrazia”: i due feticci dell’uomo moderno.

In quei primi mesi di rivoluzioni colorate eterodirette, provammo, coi nostri risicati mezzi, a far ragionare un po’. A mettere insieme i classici “pezzi del discorso” (perché l’abitudine dei più è quella di tenere separate tutte le “questioni”). Niente da fare: giornali e tv, all’unisono, andavano in brodo di giuggiole per i “ribelli siriani”, con piazza Tahrir elevata al rango di una Woodstock mediorientale.

Le università, poi, erano gli ambienti più blindati in tal senso. Tutti in preda a un delirium tremens, e basta andare a rivedersi le locandine dei “dibattiti” (?) di quei giorni, che ritraggono “giovani” arabi di belle speranze e folle in delirio sventolanti i vessilli nuovi di zecca delle loro nazioni direttamente forniti dalle sartorie di Sua Maestà britannica.

Noi, intanto, pochi pazzi “visionari” sospettati o tacciati di ogni sorta d’infamia perché non ne volevamo saperne d’accodarci all’unanime esaltazione, continuavamo a scrivere e a parlare.

Scrivevamo (e le date fanno fede) che dopo il ‘capolavoro’ della distruzione della Jamahiriyya, in Africa (non solo del Nord) ne avremmo viste di tutti i colori, e che nulla sarebbe stato più come prima, specialmente per l’Italia, contro la quale l’attacco alla Libia era stato condotto in maniera indiretta.

Scrivevamo – noi che ci beccavamo le accuse di connivenza coi “sanguinari dittatori”, quando invece c’interessava far capire qualcosa che andasse oltre la solita pappardella ottimistica – che in Siria, se mai c’era stata una protesta, non era in corso alcuna “ribellione”, bensì trattavasi di macchinazione bella e buona. Macché, non ci ascoltava nessuno, se per “nessuno” intendiamo i famosi quanto ignavi “decisori”, che trovano senz’altro più consono con la loro missione dare ascolto ad altri “analisti” ben pagati per stendere spesse coltri di disinformazione.

Ora, al punto in cui siamo arrivati, sembrerà indelicato, ma possiamo non solo affermare, bensì gridare a squarciagola, che non ci eravamo sbagliati.

Anzi, che avevamo ragione noi.

Ergo: vergogna su chi, nei giorni della “rivolta libica”, metteva in galera un rappresentante degli studenti libici in Italia con assurdi pretesti mentre altri, poi rivelatisi tagliagole professionisti, assaltavano impunemente l’ambasciata siriana.

Vergogna su tutti quelli che, fin dall’inizio, dalle università alle pagine culturali dei quotidiani, passando per gli “approfondimenti” televisivi, l’hanno messa solo e sempre sul piano della “libertà” contro la “dittatura”, della “pace” contro la “violenza”, della “tolleranza” contro il “fanatismo” e altre mammolette arcobaleniste.

Il sangue delle vittime di Tunisi è ancora caldo e c’è chi vaneggia di “nazismo islamico” e “totalitarismo”, invocando una necessaria “riforma” dell’Islam. O sono o ci fanno: appena c’è un problema lo inquadrano nei rassicuranti parametri dell’eterno “Nazifascismo” e del “medio evo” alle porte.

Attacco all’Eurasia? Geopolitica del caos? Fabbricazione del “nemico islamico”? Retroscena della genesi del cosiddetto “fondamentalismo islamico”? Venivi guardato come un eretico che si rifiuta di tributare rispetto alle sacre narrazioni provenienti dal Cairo, Tunisi, Damasco…

Vergogna anche su certi ipocriti e falsisissimi “rappresentanti dell’Islam” in Italia e in Europa, che all’inizio soffiavano sul fuoco vedendo arrivato il loro momento agognato, ed ora fanno gli “scandalizzati”. Non erano credibili allora, per chi conosce un minimo cosa sia la tradizione con la “T” maiuscola, né lo sono oggi, quando – ormai screditatissimi – propongono ancora le loro facce ad un pubblico di boccaloni per il quale “Islam” equivale a qualsiasi individuo riesca ad accreditarsi (tramite le “istituzioni” nazionali compiacenti) come suo “rappresentante”.

Vergogna anche su quei pagliaccetti caricati a molla che non hanno mai smesso di insultare l’Islam nel suo complesso, parando malamente la loro ostilità a Dio e alla religione col “laicismo”. Erano estremamente “laici” anche certi regimi crollati con le “primavere”, ma i risultati si sono visti, perché quando fai tabula rasa della religione quella al momento buono ritorna, ma fondamentalmente incompresa. Mica è un caso che la Tunisia fornisca uno dei più alti contingenti di mercenari in Siria.

Parliamo volutamente di mercenari, perché tra chi si deve vergognare, e chissà mai se lo farà, si annoverano anche gli scendiletto dell’America e dei loro vassalli “occidentali”, che utilizzano i cosiddetti “jihadisti” per tutta una serie di operazioni sia militari sia “di intelligence”, come quelle eseguite in territorio europeo ed attribuite a fantomatiche “cellule” di un ‘terrorismo in franchising’.

Ma anche queste cose le avevamo abbondantemente scritte e dette. Che dopo la fase di “Enduring Freedom” la “democrazia” sarebbe stata esportata anche con sistemi meno grossolani, mentre all’interno delle nazioni inserite nell’alveo filo-americano sarebbe stato sviluppato, a livelli parossistici, il terrore delle “quinte colonne di al-Qa’ida”, complice l’insensata politica adottata in materia di immigrazione.

E avevamo anche aggiunto, sempre prima dei fatti giunti puntualmente a confermare la bontà dell’analisi, che questa nuova maschera del “fondamentalismo islamico” fabbricato a Londra, cioè l’ISIS, avrebbe cominciato a “minacciare” l’Italia.

Ma se “nessuno” ci vuole ascoltare, che colpa ne abbiamo? Noi, quello che la nostra coscienza ci dettava l’abbiamo fatto. Si pentano, quindi, e si vergognino pure, tutti quelli che finora o non avevano capito un accidente o, molto più probabilmente, facevano finta di non capire perché gli faceva comodo fare così.

Sia chiaro: non c’illudiamo che adesso “capiranno”. No, andranno avanti diritti per la loro strada, che deve portare alla “guerra finale contro l’Islam” (per colpire l’Eurasia, ovvero il “vecchio mondo” e quindi la naturale integrazione dell’Europa occidentale col resto, in primis la Russia) e, nello specifico di questa povera Patria che non merita simili felloni al comando, la fine pura e semplice dell’Italia, sommersa da “rifugiati” delle “rivolte” che essi stessi alimentano e ridotta ad un ruolo inesistente nella politica che conta.

Enrico Galoppini

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IDEOLOGIA “GENDER” E GLOBALIZZAZIONE

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font size=”2″>L’ideologia del “genere” è funzionale alla globalizzazione. I diritti degli omosessuali sono un’arma di “distrazione di massa”.

Quest’articolo è nato dall’incontro con Pro Vita, un associazione che promuove iniziative in difesa della famiglia naturale e della vita. Relatori dell’incontro: l’ambasciatore russo Aleksej Komov, del Congresso Mondiale delle Famiglie presso l’ONU e Antonio Brandi, Presidente di Pro Vita. (1)
Per famiglia naturale s’intende l’unione stabile di un uomo e di una donna, destinata alla procreazione e alla cura della prole. L’essenza demoniaca e socialmente distruttiva dell’ideologia gender si manifesta nella negazione della famiglia. Aristotele insegna che la famiglia è la base della società umana, perché è la prima forma di comunità che l’uomo ha costituito per poter sopravvivere; seguono poi comunità più grandi, come la città e lo Stato. L’uomo è quindi un animale politico (zoon politikon) un essere “sociale” destinato a vivere in comunità.
Nella nostra società liberista e libertaria, la famiglia naturale è minacciata da condizioni socio – economiche e da modelli culturali ostili, che ne impediscono la formazione e la sopravvivenza: ideologia di genere, femminismo, consumismo, precarizzazione del lavoro, bassi salari, ritmi di vita incompatibili con le esigenze famigliari, taglio dei servizi pubblici (asili, assegni familiari, alloggi per le giovani coppie, ecc).
Una concezione anarcoide e iconoclasta della libertà è il male dell’Occidente, il cancro che lentamente consuma la nostra decadente civiltà. Satana non è omosessuale ma libertario e liberista, induce l’uomo a ribellarsi a ogni legge e limite, al fine di soddisfare i propri desideri e deliri di onnipotenza. Il demonio ci sussurra con tono mellifluo: «Dio non esiste, tu sei il vero Dio, tutto ti è permesso». «Vietato vietare» era lo slogan sessantottino che ha minato la base morale e politica della nostra società: aborto, eutanasia, manipolazioni del corredo genetico e mercificazione della gravidanza, liberalizzazione delle droghe, contestazione globale. Nulla è assoluto tutto è relativo (famiglia, sesso, nazione). Il neoliberismo, farà propria questa concezione anarcoide e iconoclasta di libertà applicandola all’economia. Non esistono comunità e doveri sociali, ma solo individui che agiscono in funzione dei propri interessi e desideri, mossi da una mano invisibile che alla fine realizza il bene comune (la somma degli interessi e desideri individuali), il mercato è la divinità alla quale immolare le nostre esistenze.

La bestia dell’Apocalisse mostra il suo vero volto, creare il caos: sovvertendo le leggi di natura, espressione della volontà divina e le basi della civiltà umana.

L’ideologia di genere (in inglese gender) ideata dallo psichiatra americano John Money, sostiene che la famiglia naturale e l’identità sessuale non sono immutabili ma relative, possono essere modificate o ignorate, in base ai desideri del singolo o ai progetti di “ingegneria” sociale. Padre e madre sono parole prive di senso, esistono solo genitori A e B. Tutto questo è funzionale al progetto di omologazione imposto dalla globalizzazione che mira a cancellare ogni forma d’identità e di comunità. Un mutamento antropologico che trasformerà il genere umano in un gregge anonimo, i neoschiavi del mondo globalizzato, diafane creature: consumiste, asessuate, individualiste, competitive, apolitiche, atee, nomadi, drammaticamente sole. (2)

Per globalizzazione o mondializzazione, s’intende l’eliminazione di ogni barriera alla circolazione delle merci, dei capitali e delle persone al fine di creare un unico mercato mondiale di modello neoliberista. Per fare questo è necessario avviare un processo di omologazione diretto a cancellare ogni forma di appartenenza e identità (nazione, comunità locali, religione, ideologia politica, etnia, famiglia e sesso).

Nel nuovo ordine mondiale creato dalla globalizzazione: gli Stati nazionali e i poteri locali sono sostituiti da organismi sovranazionali legati agli Stati Uniti (la superpotenza vincitrice della guerra fredda) gli unici soggetti idonei a governare un mondo globalizzato; i popoli sono formati da masse anonime di produttori-consumatori, atomi manipolabili nel comportamento e nei valori. (3) L’incubo orwelliano diventa realtà.

Pierpaolo Pasolini, omosessuale e intellettuale di sinistra, già negli anni 70, denunciava in Scritti Corsari (1975), il processo di omologazione-degradazione indotto dalla società dei consumi: «Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro – sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta solo uscire per strada per capirlo». E continua: «Ho visto dunque con i miei sensi il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a un’irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza». (4) Chissà cosa direbbe il poeta friulano, oggi che la globalizzazione ha esteso all’intero Pianeta, il processo di omologazione-degradazione da lui denunciato.

Il legame tra ideologia di genere e globalizzazione, si manifesta non solo a livello ideologico, ma anche a livello istituzionale. L’ideologia di genere è sostenuta dalle stesse lobby e istituzioni che appoggiano la globalizzazione: politici della sinistra progressista e della destra liberista (Cameron, Obama, Hollande, Renzi, Boldrini, Scalfarotto, Vendola, Garfagna, Hillary Clinton, ecc.) giornalisti, intellettuali e artisti di fama internazionale (da Madonna a Elton John) imprese multinazionali (Ikea, le imprese legate al cambiamento del sesso, alla procreazione artificiale e all’aborto farmaceutico – pillola del giorno dopo), gli esponenti dell’alta finanza (Gates, Soros, Rockfeller), il governo degli Stati Uniti attraverso le proprie ambasciate, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, la maggioranza dei parlamenti e dei governi dell’Unione Europea, il parlamento europeo e perfino l’Unicef. (5) Quest’ultima sostiene: «la messa in atto di leggi che certifichino il riconoscimento legale dei legami familiari dei genitori LGBT e dei loro figli». (6) A benedire le unioni omosessuali sono anche le chiese cristiane: valdese, metodista, battista, luterana e parte di quella anglicana. Contrarie a dette unioni sono la chiesa cattolica e quella ortodossa, la parte tradizionalista delle chiese protestanti, l’Islam, i movimenti e i partiti tradizionalisti e identitari.

Le organizzazioni LGBT e le istituzioni che sostengono l’ideologia di genere cercano di imporla attraverso una campagna d’indottrinamento e di censura.

L’indottrinamento, prevede il controllo dei mass-media e un programma educativo rivolto a promuovere l’omosessualità nelle scuole. Al Liceo Giulio Cesare di Roma è stato dato da leggere ad adolescenti di seconda superiore il libro di Melania Mazzucco: Sei come sei che descrive nei particolari (odori, sapori, sensazioni) un rapporto orale tra due ragazzi in uno spogliatoio. Oppure i libri distribuiti negli asili del Veneto, e poi tolti per la rivolta dei genitori, i titoli si commentano da soli, “E con Tango siamo in tre”, “Perché hai due mamme” e via dicendo. (7) Oggi, come nel 68, la scuola abiura alla funzione pedagogica per assumere quella ideologica.

La censura prevede l’introduzione del reato di omofobia e il boicottaggio delle opinioni contrarie al pensiero dominante.
Il reato di omofobia punisce ogni atto di violenza e di discriminazione verso gli omosessuali e i transessuali, con pene che vanno dai sei mesi ai sei anni. Una norma che non è stata creata per tutelare gli omosessuali dalla violenza e dalle discriminazioni (a tale scopo basterebbe applicare il codice penale e l’articolo 3 della costituzione italiana che garantisce la parità dei cittadini); ma per soffocare ogni voce contraria all’ideologia di genere. Il reato di omofobia appartiene alla categoria dei reati di opinione. In Germania Eugene Martens ha scontato un giorno di prigione per essersi rifiutato di portare la figlia alle lezioni di genere. Oggi la pena è di un giorno, ma in futuro potrebbe essere di un anno, tutto dipenderà dalla forza delle lobby omosessuali. (8) Discorso analogo per le unioni di fatto, lo scopo di detto istituto è quello di introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso e non è quello di tutelare una relazione tra persone non sposate e non legate da vincolo parentale. Per quest’ultime basterebbe l’istituto giuridico della procura adattandolo alle loro esigenze affettive.

La censura non si manifesta solo la repressione, ma anche con l’esclusione. Ogni opinione contraria all’ideologia gender è tacciata di “omofobia” e come tale va bandita dai mass media, dalle istituzioni scolastiche, dai circoli culturali, o boicottata sul mercato se si tratta di un’azienda (Barilla e Dolce e Gabbana).

Si fonda sull’indottrinamento e sulla censura il DDL Scalfarotto (vicepresidente del partito democratico) che prevede l’introduzione del reato di omofobia e dell’ideologia di genere nel nostro ordinamento. Considerazioni analoghe valgono per le direttive contenuta nella Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni sul sesso (2013-2015), voluta dall’ex ministro del Welfare (con delega alle Pari opportunità) Elsa Fornero.

Le politiche a favore dell’ideologia di genere sono promosse e coordinate dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimenti Integrazione e Pari Opportunità. L’UNAR si avvale della sola consulenza delle associazioni LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali). Questa scelta esclude le famiglie degli alunni dai programmi scolastici e dimostra lo spirito totalitario della politica gender.
Si deve all’UNAR, la diffusione di una trilogia di manuali, dal titolo: Educare alla diversità a scuola. Questi testi destinati alla scuola elementare, media inferiore e superiore, col pretesto di combattere le discriminazioni e promuovere l’educazione sessuale, indottrinano bambini e adolescenti: all’ideologia di genere, all’aborto, all’attività sessuale in età precoce.

La campagna d’indottrinamento e censura è preceduta dal vittimismo, la “cultura del piagnisteo” (Robert Hughes 1994). Le organizzazioni LGBT denunciano l’esistenza di un’emergenza omofobia, segnata da frequenti violenze e discriminazioni a danno di omosessuali e transessuali. Poco importa se i dati forniti dall’organismo interforze della Polizia di Stato e dei Carabinieri, l’OSCAD (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori) smentisca detta emergenza, o la confinano al mondo della prostituzione, che spesso frequentano i transessuali autori delle denunciano. La relazione trasmessa al Parlamento dall’OSCAD, certifica che in più di tre anni di attività dell’osservatorio (settembre 2010 – dicembre 2013) sono pervenute all’OSCAD 83 segnalazioni (una media di 28 all’anno), relative complessivamente ad offese, aggressioni, lesioni, istigazione alla violenza, danneggiamenti, casi di suicidio e minacce relativi all’orientamento sessuale (un caso all’anno in media ogni 2 milioni di italiani). (9)

Solo creando una presunta emergenza “omofobia” è possibile giustificare politiche e norme degne di un regime totalitario, come lo sono le nostre sedicenti “democrazie”. Governi, che per tutelare i propri interessi conducono guerre imperialiste camuffate da crociate umanitarie (Libia, Afghanistan, Iraq, Serbia, Siria e Ucraina); che per coprire il disavanzo dei bilanci pubblici e di quelli delle banche private (frutto di politiche clientelari, irresponsabili e criminali) condannano i propri popoli a un futuro di miseria e di precariato.
Non dobbiamo odiare e discriminare gli omosessuali, hanno il diritto di vivere la loro vita come credono, chi siamo noi per giudicarli? Il nemico da combattere e da odiare è l’ideologia di genere e la canaglia giacobina che la sostiene, il loro distruttivo totalitarismo. Rendiamo onore agli omosessuali che rinnegano la follia gender. Gli stilisti Dolce e Gabbana, sono omosessuali ma hanno condannato le adozioni gay, mentre molti eterosessuali le sostengono (10).

Negli incontri tenuti da Pro Vita, la presenza dell’ambasciatore Alexey Komov non è stata casuale. La Russia di Putin ha sfidato il nuovo ordine mondiale, imposto dagli Stati Uniti e dai loro vassalli europei. Una sfida che è geopolitica e ideologica: geopolitica, il rifiuto dell’egemonia atlantica (Kosovo, Ossezia del sud, Siria e Ucraina); ideologica, la difesa dei valori tradizionali (famiglia, patria e religione). Valori che il Presidente Putin ha espresso nel discorso tenuto a Valdai (Russia) il 24 ottobre 2014. (11)

Putin difende l’identità cristiana: «In molti Paesi europei la gente ha ritegno o ha paura di manifestare la sua religione. Le festività sono abolite o chiamate con altri nomi; la loro essenza (religiosa) è nascosta, così come il loro fondamento morale. Sono convinto che questo apra una strada diretta verso il degrado e il regresso, che sbocca in una profondissima crisi demografica e morale».

Putin, difende la famiglia naturale: «Possiamo vedere come i Paesi euro-atlantici stanno ripudiando le loro radici, persino le radici cristiane che costituiscono la base della civiltà occidentale. Essi rinnegano i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionali, culturali, religiose e anche sessuali. Stanno applicando direttive che parificano le famiglie a convivenze di persone dello stesso sesso, la fede in Dio con la credenza in Satana.»

Putin difende il valore dell’identità nazionale minacciato dalla globalizzazione: «Simultaneamente, vediamo sforzi di far rivivere in qualche modo un modello standardizzato di mondo unipolare e offuscare le istituzioni di diritto internazionale e di sovranità nazionale. Questo mondo unipolare e standardizzato non richiede Stati sovrani; richiede vassalli.». E continua: «La sovranità, indipendenza e integrità territoriale della Russia sono incondizionate. Qui ci sono “linee rosse” che a nessuno è permesso scavalcare.».

L’attuale governo russo sostiene i valori tradizionali in politica interna ed estera. In politica interna, vieta la propaganda omosessualista e l’aborto dopo le 12 settimane di gravidanza, da sostegno materiale e psicologico alle donne che hanno difficoltà ad accettare la propria gravidanza, assegna un sussidio di circa 10.000 dollari per il secondo figlio, concede terreni alle famiglie con più di tre figli, stanzia fondi per la costruzione di 30.000 chiese e seicento monasteri, combatte gli oligarchi mafiosi e filoccidentali. (12) In politica estera difende la sicurezza nazionale, minacciata dall’allargamento ad est della Nato (Ossezia del Sud ed Ucraina) e dall’islamizzazione del Caucaso.

Putin non è un santo, ma uno statista razionale e consapevole del proprio ruolo. Ha ereditato una nazione prostrata da una profonda crisi politica, sociale ed economica; conseguenza del fallimento dell’ideologia comunista e della sciagurata presidenza di Boris Eltsin (1991 – 1998) un ubriacone che vendette il Paese agli oligarchi e agli interessi stranieri. Putin, ha capito che una nazione non si fonda sul mercato, o su un concetto ipocrita di democrazia; ma sui valori tradizionali. Detti valori assicurano la rinascita nazionale e un futuro di pace e di prosperità.

L’accusa di omofobia mossa alla Russia da Stati Uniti ed Europa, è ipocrita e falsa: Falsa, perché in Russia esistono centinaia di locali per omosessuali è nessuno è condannato per tale orientamento; ad essere vietata è la propaganda omosessuale tra i minori, dai gay pride, alle lezioni gender negli asili e nelle scuole. Ipocrita, perché diretta a colpire un Paese “nemico” e non a difendere i diritti degli omosessuali; non a caso tale “accusa” risparmia i Paesi mussulmani alleati dell’Occidente (Arabia Saudita, Pakistan e Qatar) che infliggono agli omosessuali pene detentive e corporali, compresa la quella capitale. (13) Discorso analogo vale per il rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa che le citate nazioni quotidianamente calpestano. Se la Russia non è democratica, che cosa sono l’Arabia Saudita e il Qatar, dispotiche teocrazie e Stati “canaglia”, sostenitori del terrorismo islamico?

La Tv russa ha dedicato un documentario all’ideologia di genere. Una serie d’interviste e di riflessioni (anche a carattere religioso) sul tale fenomeno e sugli interessi che lo sostengono (il ruolo degli Stati Uniti e delle oligarchie politico – finanziarie). Il servizio è stato tradotto in italiano e diffuso tramite un DVD dal titolo: Sodom: La rivoluzione antropologica in atto. (14)

I diritti degli omosessuali sono un’arma di “distrazione di massa”, utile a distogliere l’attenzione della gente dai reali problemi del Paese: pressione fiscale, corruzione, crisi economica, inefficienza della pubblica amministrazione, taglio dei servizi pubblici, disoccupazione giovanile, precariato, criminalità e terrorismo islamista. Questi sono i veri problemi, non le pruderie genitoriali delle lesbiche o dei sodomiti; con i quali i politici sfilano durante il gay pride; nella speranza che questo gli aiuti a mantenere la loro sudicia poltrona.

Giorgio Da Gai

Note

1) Antonio Brandi e Alexey Komov, Hotel Maggior Consiglio – Treviso 31 gennaio 2015.
2) sulla relazione tra ideologia gender e globalizzazione:
– Enrica Perucchetti e Gianluca Marletta: Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità”, Arianna editrice, Bologna 2014.
– Diego Fusaro: Ideologia gender e capitalismo. In http://www.lintellettualedissidente.it/corsivi/ideologia-gender-e-manipolazione-dellessere-umano/
3) Franco Cardini: La globalizzazione tra nuovo ordine e caos. Edizioni Il Cerchio 2005.
4) Pier Paolo Pasolini: L’articolo delle lucciole, in Scritti Corsari. Garzanti Editore 1990, p. 131.
5) Spiega Domenico Airoma, magistrato: «L’opera di demolizione della famiglia naturale è stata possibile: «con la lenta ma inesorabile erosione praticata attraverso l’interpretazione dei giudici, soprattutto quelli della Corte europea dei diritti dell’uomo, i quali hanno statuito che quell’articolo potrebbe voler dire che l’uomo e la donna hanno diritto di sposarsi non necessariamente fra loro bensì con chiunque. Poi si sono susseguite varie risoluzioni del Parlamento Europeo nella quali si è incominciato a stabilire che la priorità, l’emergenza comunitaria è l’intronizzazione del “genere” che è chiamato a sostituire il sesso in tutti i testi normativi; il “genere” come sesso desiderato, nulla di statico, quindi: ognuno è ciò che si sente. E il diritto ora deve rincorrere il sentimento, anche se la realtà continua a dire l’opposto». Leggi di Più: “Omofobia. Ideologia gender è legge del desiderio del più forte”. In: http://www.tempi.it/
6) Unicef Position Paper, 9 november 2014 : “Eliminating discrimination against children and parents based on sexual orientation and/or gender identity ”.
7) Sull’indottrinamento nelle scuole da parte delle Lobby LGBT e delle istituzioni:
– Roberta Barone Gender la “colonizzazione ideologica” nelle scuole
– Gianfranco Amato: Gender (D)istruzione: le nuove forme di indottrinamento nelle scuole. Edizioni Fede & Cultura.
8) Leone Grotti:“Io, finito in carcere perché mia figlia ha saltato due ore di ideologia gender. E ora tocca a mia moglie”. In: http://www.tempi.it/germania-io-finito-in-carcere-perche-mia-figlia-ha-saltato-due-ore-di-ideologia-gender-e-ora-tocca-a-mia-moglie#.VPSgh890weg
9) Fonte: http://www.uccronline.it/2014/04/09/i-dati-smentiscono-lomofobia/
10) Terry Marocco: Figli e famiglia la verità di Dolce e Gabbana. Panorama 16.3.2015. In: http://www.panorama.it/
11) Il Valdai International Discussion Club è un convegno internazionale (come l’atlantista Gruppo Bilderberg) dove si approntano temi di carattere geopolitico, economico e culturale. Detto convegno è promosso dalla RIIA Novosti e dal think tank governativo russo Council on Foreign and Defense Policy. Detto convegno si tiene a Valdai sul lago Valdaiskoe, nella zona di Novgorod, ricca di monasteri e memorie storiche dell’ortodossia.
Maurizio Blondet: “Che cosa ha detto Putin a Valdai”. In: http://www.comedonchisciotte.org/site/index.php
12) Antonio Brandi: “La rinascita del popolo russo”. Intervista ad Alexey Komov, Ambasciatore del Congresso Mondiale delle Famiglie presso l’ONU. Notizie Pro Vita, giugno 2014.
13) I rapporti omosessuali sono puniti con pene detentive, corporali, o con la pena di morte: Arabia Saudita, Iran, Nigeria, Mauritania, Pakistan, Sudan, Somalia, Somaliland e Yemen. In altre nazioni molte nazioni musulmane, la pena di morte è esclusa, ma sono previste pene pecuniarie, detentive e corporali: Bahrain, Qatar, Algeria e Maldive.
14) Il DVD non è commerciabile ma può essere richiesto all’associazione Pro Vita redazione@notizieprovita.it

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UNA NUOVA PERICOLOSA AVVENTURA: L’ADDESTRAMENTO DEI “RIBELLI MODERATI”

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Mentre diventa sempre più l’epicentro di molteplici tensioni (il caso più recente è costituito dal drammatico sequestro del giudice Mehmet Selim Kiraz, conclusosi con la sua morte) la Turchia si appresta a innescare un’altra situazione esplosiva: la predisposizione di una forza armata di 15.000 combattenti “anti ISIS” progettata dagli Stati Uniti in collaborazione con Arabia Saudita, Qatar, Giordania e la Turchia stessa.

In particolare lo scorso febbraio è stato firmato ad Ankara l’accordo – che diverrà operativo dal prossimo mese di maggio – fra Stati Uniti e Turchia per l’addestramento e l’equipaggiamento di non meglio precisati “ribelli moderati” in funzione anti ISIS. In territorio turco l’addestramento avverrà in una base militare ubicata nella centrale provincia di Kırşehir, e si avvarrà della presenza anche di istruttori britannici.

Quanto dichiarato in un’audizione al Senato USA dal Capo di Stato Maggiore dell’esercito statunitense, generale Martin Dempsey – quello favorevole alla consegna di “armi letali” all’Ucraina – dal Segretario alla Difesa Ashton Carter e dal Segretario di Stato, John Kerry, non lascia dubbi sulle finalità del progetto: i “ribelli moderati” dovranno essere sostenuti e militarmente protetti dagli Stati Uniti anche nei confronti del “regime di Assad”, ossia dal governo siriano.

Si sarebbe pertanto finalmente trovata “carne da macello” da impiegare nei prevedibilmente sempre più duri combattimenti in Siria e in Iraq, inserendo una forza di terra che potrà essere utilizzata in funzione di ulteriore destabilizzazione dell’area vicinoorientale, in primo luogo contro il legittimo governo siriano che si sta battendo con coraggio e determinazione contro le “brigate internazionali” per anni sostenute dall’Occidente.

La caduta di Idlib – importante città siriana situata nel nordovest del Paese – in mano ai terroristi di Al Nusra e di altri gruppi è stata salutata da esponenti governativi turchi, a quanto afferma il quotidiano Hurriyet, come “una vittoria dell’opposizione siriana”, e questo testimonia l’ambiguità e la strumentalità della considerazione delle forze in campo.

Il 7 aprile il Capo di Stato Erdogan si recherà in visita ufficiale a Teheran, e questo potrebbe essere un momento importante nella definizione degli scenari futuri; le recenti (26 marzo) dichiarazioni di Erdogan hanno ulteriormente alimentato le tensioni: “L’Iran cerca di dominare la regione – ha affermato – se forze iraniane sono dispiegate nello Yemen, in Siria e in Iraq, esse devono essere ritirate”.
Gli ha risposto con franchezza il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif: “Coloro che hanno causato danni irreparabili con i loro errori strategici farebbero bene a mostrarsi più responsabili, per favorire la stabilità della regione”.

Aldo Braccio

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L’AUT-AUT DELLA MOLDAVIA E IL FATTORE TRANSNISTRIA

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Se l’Unione Europea chiama la Moldavia all’interno della sua comunità politico-economica, gli scenari lungo il confine russo-ucraino potrebbero spingere definitivamente la Repubblica Moldava di Pridnestrov’e verso Mosca.
La vicenda sembra non più essere sottovalutata neanche dal Governo centrale di Chişinău che, soprattutto in politica estera, ha varato scelte di un’ importanza geopolitica e strategica non indifferente rispetto ai “due blocchi” oggi contrapposti.

A poco più di anno dalla decisione presa attraverso lo strumento referendario dalla popolazione di Crimea, nonostante il controllo amministrativo della regione rimanga giuridicamente conteso tra la Federazione Russa e l’Ucraina, il pericolo di un totale contagio proveniente soprattutto dalle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Doneck è palese al neoeletto governo del Primo Ministro Iurie Leancă.

Dopo aver scongiurato un nuovo ricongiungimento alla Romania, argomento in realtà ancora vivo negli ambienti diplomatici più conservatori di Bucarest, e dopo aver perso nel corso del Novecento l’attuale parte ucraina della Bessarabia e quella della Bucovina del Nord, la nuova sfida per la Moldavia rimane quella di non vedere ridotta ulteriormente la propria sovranità territoriale alla luce delle scelte sostenute in campo europeo.
L’avvicinamento a Bruxelles, sancito dall’ingresso nell’area Schengen e dalla firma dell’Accordo di Associazione in ambito commerciale, ha conseguentemente condotto la Russia ad intraprendere pesanti restrizioni varando un embargo di tutti i prodotti agricoli moldavi.
Inoltre, il continuo ostracismo moldavo nei confronti dei mezzi di informazione russi presenti nel Paese, palese nei recenti casi dei giornalisti Dmitry Kiselev e Andrei Kondrashov, hanno spinto il Cremlino a definire le decisioni di Chişinău lesive dei diritti umani e negativamente in linea con le posizioni ucraine e filo-occidentali di Poroshenko.
Come affermato dal politologo, nonché abitante della Transnistria, Andrey Safonov, i rapporti tra le varie entità statali riconosciute de iure e de facto all’interno dei “Balcani orientali” potrebbero divenire pericolose per la Moldavia.
Se il conflitto russo-ucraino condurrà Kiev ad accettare una qualsiasi intesa politica con Bucarest, nel vicendevole tentativo di ripristinare nuovi rapporti con le rispettive comunità minoritarie nel territorio moldavo, Chişinău paleserebbe tutta la sua fragilità politica non riuscendo ad autorappresentarsi come terza forza all’interno della micro-regione.
Quindi, nonostante l’impegno di integrazione voluto da Bruxelles e l’apertura delle porte del mercato unico europeo, non è solo il risentimento russo l’unico fattore descrittivo dell’attuale aut-aut geopolitico a cui la Moldavia è chiamata a rispondere.

A differenza delle rosee aspettative mostrate dai burocrati dell’Unione Europea, le ultime elezioni hanno ulteriormente confermato quel fardello storico-culturale che la Moldavia sembra non riuscire ad abbandonare.
Con una società profondamente spaccata fra quella popolazione contadina che guarda ad oriente spinta dalla lunga tradizione sovietica, e chi invece vorrebbe virare verso più salde relazioni con l’Occidente poiché spaventato proprio dalla scomoda potenza russa, la nuova compagine di governo è il risultato della paura di un popolo intimorito molto più dal conflitto in Ucraina e dal riacuirsi dell’escalation di violenza in Transnistria che dalla decennale crisi istituzionale.
La presenza dell’esercito russo a Tiraspol, capitale e centro nevralgico della de facto Repubblica Moldava di Pridnestrov’e, continua a spaventare quei cittadini andati alle urne proprio perché intimoriti dai separatisti presenti nel Paese.

Ciò che accade a pochi chilometri dalla capitale moldava, appena al di là del fiume Nistro, potrebbe giocare un ruolo fondamentale all’interno della politica nazionale.
Se la nuova maggioranza pro-Ue sembra non rischiare nessuna crisi politica al suo interno, poiché composta dai maggiori partiti del Paese e dal Partito Comunista moldavo, è l’ala socialista che spaventa non poco le istituzioni di Chişinău.
Il Partito dei Socialisti rimane infatti l’unica forza dichiaratamente filo-russa e anti-europeista, conscio di aver perso l’occasione di ribaltare l’esito delle urne a causa dell’astensionismo degli abitanti della Transnistria. Nonostante il rapporto comunisti-socialisti rimanga “dialettico”, sono proprio le posizioni prese in politica estera che dividono i due maggiori partiti della sinistra moldava.
Se il Partito Comunista ha sempre mantenuto una politica volta alla crescita nazionale, la tradizione sovietica presente nel Paese ha spinto già da un paio di anni il Partito dei Socialisti ad inaugurare una linea economica libera dai vincoli occidentali.
Oltre all’astensionismo della regione della Transinistria, la Moldavia è interessata dal nuovo fenomeno del patriottismo filo-russo capace di superare gli storici steccati ideologici all’interno dell’ormai ex territorio sovietico. Uno dei fenomeni più interessanti riguarda la crescita della formazione “Patria”, esclusa dai giochi elettorali per presunti finanziamenti esteri che in Moldavia sono giuridicamente riconosciuti illeciti. Leader nella nuova formazione è l’uomo d’affari Renato Usatîi, moldavo ma cittadino russo, fermo sostenitore dell’Unione Doganale Euroasiatica sancita da Vladimir Putin con Bielorussia, Kazakistan e Armenia. Contraria all’ideologia liberal-unionista romena, ma anche contro l’avvicinamento seppur economico-commerciale all’Unione Europea, “Patria” sembra posizionarsi sulla scia del Partito dei Socialisti.

In realtà, ancora una volta nella regione balcanica sono proprio le vecchie scelte della comunità internazionale e dell’Unione Europea che sembrano ritorcersi contro l’ordine costituito dalla diplomazia occidentale.
La Transnistria oggi potrebbe essere spinta versa la definitiva indipendenza proprio dalla decisioni prese nel 2011 a Vienna sotto la guida dell’Osce e del gruppo dei 5+2. Le istituzioni di Chișinău insieme ai separatisti di Tiraspol, ai diplomatici russi, ucraini, statunitensi ed europei, vararono il miglioramento di infrastrutture come la linea ferroviaria che collega la capitale moldava ad Odessa, nonché il ripristino delle linee di comunicazione tra la Transnistria e le due parti del fiume Dnestr. Inoltre, nessuna sanzione fu intrapresa né contro la presenza dell’esercito russo in Transnistria né per la fabbrica di munizioni nella municipalità di Tighina.
La regione che aveva rappresentato la zona cuscinetto come argine alla stessa guerra interna, oggi con la presenza di quasi ottomila soldati russi e delle brigate di fanteria di Tiraspol, Bender, Rîbniţa e Dubăsari si è trasformata nella prima preoccupazione per la Moldavia e non solo per essa.

Francesco Trupia

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LE APPLICAZIONI DELLA TECNICA BIOMETRICA NELL’INTELLIGENCE

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L’identificazione di John il jihadista è il prodotto ottenuto dal connubio fra tecnologia ed intelligence. Un successo raggiunto dalle indagini criminologiche classiche dell’FBI, ed il Criminal Justice Information Service, in particolare del Centro Divisione Biometrica. È una banca dati dove vengono immagazzinate le immagini di volti, voci, impronte digitali ed altro, registrate dal Next Generation Identification dell’FBI. È un servizio interoperabile sia con l’Automated Biometric Identification System militare, quanto con quello della Sicurezza Nazionale. La minaccia asimmetrica dell’eversione, ha indotto gli analisti strategici e di intelligence dei maggiori “attori” occidentali, a preconizzare una età del terrorismo, adeguata al mondo globalizzato ed iperconnesso. Questo perché si sta verificando un affinamento delle tecniche eversive, dei nuovi strumenti per attuarle ed infine dell’imprevedibilità degli obiettivi da colpire. Quello che rimane invariato è lo scopo manifesto dei terroristi: creare il timore collettivo abbattendo i confini della sicurezza individuale, porre in discussione le capacità dello Stato Sovrano di garantire l’incolumità dei propri cittadini e sminuire l’efficacia delle Forze dell’Ordine. Dunque il fallimento delle Istituzioni a cui si contrappone l’efficienza e l’organizzazione eversiva. Questo ha ingenerato una contestuale revisione delle tecniche di tutela sociale. Una metodologia di contrasto alla strategia del terrore è nell’utilizzare i dati biometrici, ossia pensare alle immagini come una risorsa per catturare la realtà ed ingenerare un deterrente all’eversione. Per ottenere la maggiore accuratezza possibile è necessario fondere alla biometria le ricerche scientifiche, la raccolta informazioni (Humint) e l’intelligenza artificiale. Un sistema che genera dal necessario ripensamento delle azioni repressive e contestualmente delle metodologie per la tutela dei cittadini a fronte dell’evoluzione globale del crimine. La biometria amalgama scienza e tecnologia applicata ed è destinata a stabilire come le caratteristiche fisiche, uniche per ciascun individuo, possano trasformarsi in uno strumento identificativo. La struttura del corpo umano solo apparentemente è uguale, ma in realtà la voce, il viso, gli atteggiamenti, la grafia, l’iride e le impronte digitali sono una uniche per ogni essere umano. Con la biometria queste peculiarità possono essere rilevate e classificate per poi essere il mezzo per l’identificazione. Dunque, la biometria si tramuta in biologia quantitativa, consentendo di stabilire la relazione fra le osservazioni e le descrizioni per l’assunzione dei principi teorici atte ad interpretarle. Le caratteristiche di un singolo essere umano, rilevate ed immagazzinate, non possono prescindere da precisi parametri: devono essere costanti nel tempo; osservate in condizioni normali; distintive per ognuno degli investigati; il grado di affidabilità deve essere elevato; non devono violare la privacy della persona. Di fatto, il peso, la struttura fisica, il colore degli occhi e dei capelli, non soddisfano i criteri di ricerca biometrici. L’impronta digitale è uno dei sistemi più datati in uso alle Forze dell’Ordine, ma alcune variabili come le escoriazioni, l’errato posizionamento delle dita sul sensore di rilevamento, variazioni di illuminazione e temperatura costringono gli investigatori ad adottare la regola di: “due caratteristiche biometriche coincidono”, dunque due o più criteri di ricerca devono giungere ad un unico risultato. Il riconoscimento facciale soddisfa tale processo, in quanto vi sono rilevabili le caratteristiche olistiche, dove ogni tratto è peculiarità dell’intero volto. Le immagini dell’individuo oggetto di indagine, sono tratte da scatti fotografici o video. Laddove quest’ultimo sia stato ripreso in luoghi affollati, il database riconosce uno o più volti immagazzinati, segmenta la scena in disordine per focalizzarli meglio ed infine estrapola le caratteristiche della regione facciale. L’Analisi in componenti principali (PCA) interpreta il viso come un punto in uno spazio n-dimensionato, lo spazio delle immagini, e la proietta in un nuovo spazio con l’ausilio di una trasformazione lineare che tende a massimizzare la cosiddetta variazione delle facce. In pratica il sistema individua e memorizza i tratti discriminanti del volto, li memorizza e li confronta con altri fino ad esprimere un giudizio di somiglianza. Il Local Component Analysys è un altro ausilio per gli investigatori ed è in grado di effettuare un riconoscimento automatico indipendentemente dalle condizioni della scena ripresa e della faccia. Gli investigatori biometrici, si concentrano principalmente sulla topografia dell’iride: l’iride è una fonte di informazioni che si diramano all’intero organismo, compresi gli aspetti psichici, patologici ed ereditari. Pertanto, disporre dei dati di un consanguineo dell’investigato, vuol significare possedere anche quelli dell’inquisito. Tale indagine consente di delineare un quadro completo del soggetto esaminato: caratteristiche e condizioni generali quali personalità, difese immunitarie, livello di stress, patologie in atto e pregresse. L’iride è lo specchio dell’individuo con tutte le sue differenze e singolarità, per questo è il metodo di analisi più accreditato fra gli investigatori. La biometria, dunque, consente l’identificazione di un quadro ben definito che poi viene commutato in un codice; in tal modo i confronti fra i dati immagazzinati e quelli rilevati successivamente avverranno tra numeri piuttosto che tra immagini, con il risultato di velocizzare l’indagine. Il codice è in un iperspazio probabilistico a dimensioni non intere, e metriche non euclidee dall’elevata complessità, così come la possibilità di rilevare velocemente le identificazioni su database molto grandi. Questo descrive l’impronta biometrica di un singolo individuo come un punto in uno spazio di probabilità. I sistemi biometrici hanno la peculiarità di poter riconoscere un essere umano, attraverso la connotazione facciale, l’analisi della gestualità e le azioni, anche in ambienti ad alta densità di popolazione. Per ottenere il record biometrico di un sospetto, è necessario, però, ricorrere ai vecchi metodi investigativi: è fondamentale la raccolta di informazioni relative ad impronte vocali, abitudini, parentele, amicizie, luoghi frequentati ed altro ancora del sospettato, per poi confrontarle con le immagini del soggetto indagato, sino a trovarne le corrispondenze. Esattamente come è acceduto per John il jihadista.

L’intelligence è comunemente riferita a quella branca delle scienze strategiche che analizza le interazioni dei soggetti con cui si è costretti a relazionarsi. Le metodologie atte a reperire informazioni sugli avversari sono molteplici, da quelle tecnologiche come la Sigint, Imint e Masint, alle Osint, che utilizza le fonti aperte, ossia gli organi di stampa, sino alla Humint, Human Intelligence. Quest’ultima è la riutilizzazione di un processo di acquisizione dati in uso quando la tecnologia non era molto avanzata, ma paradossalmente le evoluzioni degli scenari, con la loro multipolarità ed asimmetria, ha costretto gli investigatori a tornare sulla componente umana dell’intelligence. Ogni stratega ha la necessità di carpire la mentalità del suo avversario, così può tentare di ragionare come lui in modo da poterne anticipare le mosse e le decisioni. Pertanto dovrà conoscerlo e, se possibile, interagire con lui; più semplicemente ottenere un contatto diretto, visibile e colloquiale. Per tali motivi, l’operatore humint dovrà incontrare l’avversario, porgli dei quesiti, siano essi generici o specifici, ed osservare i suoi comportamenti fino a delinearne un profilo psicologico, umano, professionale e personale. Solo con l’acquisizione di questi dati, l’operatore humint sarà in grado di presagire le reazioni e decisioni del soggetto bersaglio. La Human Intelligence è la sezione dei servizi che fonda le proprie analisi ed interpretazioni sulle acquisizioni reperite sul campo, sul contatto con il nemico attraverso l’interazione con le risorse umane dell’avversario stesso. Una tecnica che prevede la capacità relazionale, l’arte di carpire informazioni, ma anche l’esperienza di estrapolare dai quesiti posti al soggetto bersaglio i significati di interesse per la sicurezza nazionale. Gli agenti humint agiscono sotto copertura infiltrandosi negli ambienti di interesse strategico ed operativo della loro nazione, ma non tutti sono in grado di svolgere il compito con la necessaria efficacia. Per ottenere risultati avranno bisogno non solo dell’addestramento, ma di una specifica attitudine alle relazioni umane, ad interagire con spontaneità e gestire la conversazione per indurre il bersaglio ad esprimersi con naturalezza e sincerità. Un bagaglio culturale che aiuterà l’agente operativo a penetrare nella forma mentis dell’avversario, calandosi nei modi, linguaggi e mentalità del soggetto bersaglio, sostenendo una parte teatrale senza logorarsi psicologicamente e sopportando alti livelli di stress. Altra condizione per ottenere le informazioni è quello di conoscere perfettamente la zona delle operazioni, nella quale l’agente dovrà muoversi senza esitazioni. Ciò gli consentirà di essere parte del territorio e questo lo agevolerà ad avvicinare più soggetti per poi mutarli nel ruolo di fonti, ossia informatori occasionali reclutati tra la popolazione. Le fonti assoldate sul campo, in base al loro status ed alla continuità della collaborazione, potranno essere anche pagate per i servizi resi, in particolare quelli consapevoli del proprio ruolo, ma questi dovranno essere poi indottrinati sulle regole di sicurezza sino a farle proprie, per la loro stessa sicurezza ed anche per quella dell’agente reclutatore. Lo humint militare può adottare anche l’interrogatorio, oppure persuasioni coatte sul soggetto bersaglio, soprattutto se il prigioniero non è un militare e quindi non vincolato alla Convenzione di Ginevra. Il riferimento a tale attività di persuasione è per i terroristi o comunque per i componenti di cellule insorgenti.

Negli interrogatori si applicano le tecniche di manipolazione, suggestione, persuasione e pressione psicologiche od anche i cosiddetti fastidi fisici. Questi ultimi sono limitati a creare bisogni fisiologici che l’interrogante utilizza per indurre alla collaborazione il prigioniero. La biometria potrebbe essere usata anche per dissimulare un agente infiltrato, pertanto le principali agenzie di sicurezza hanno sviluppato alcune contromisure a protezione del personale impiegato sul campo. I documenti della CIA svelati da WikiLeaks, raccontano parte dell’addestramento ricevuto dall’agente sotto copertura, e sono intitolati “Surviving Secondary” e “Schengen Overwiev”. Il contenuto era “NOFORN”, dunque non condivisibile, e messo a punto dalla divisione “Checkpoint” che si occupa della protezione degli humint. Principalmente si consiglia di preparare in anticipo dei profili sui social con l’identità di cui si serviranno, di non dotarsi di personal computer con dati discordanti dal personaggio che interpreteranno, di non acquistare biglietti per il trasporto in contanti, in quanto potrebbero essere rilevate le impronte digitali, conoscere quali paesi effettuano controlli biometrici alle frontiere, in modo da tenere un comportamento coerente e tranquillo per non essere bloccati e sottoposti al riconoscimento tecnico. In questo caso in particolare, è necessario che mantengano il controllo del proprio corpo, in quanto le Forze di Polizia sono addestrate ad individuare persone sospette sull’atteggiamento che palesano. Altri consigli presenti nei documenti della CIA sono definibili come ovvi, ad esempio l’abbigliamento che dovrà essere consono al personaggio che si dovrà interpretare.

Al fine di ottenere il miglior risultato possibile da una indagine biometrica, è necessario valutare il contesto ambientale dove le attrezzature verranno impiegate ed applicate. Se quest’ultime sono all’aperto potrebbero essere scoperte e danneggiate, pertanto si pone la necessità di proteggerle dissimulandole opportunamente od anche facendole sorvegliare da personale qualificato. Inoltre è necessaria la protezione da attacchi informatici, anche con l’ausilio di tecniche crittografiche e di controllo della rete. Attualmente i sistemi in uso sono: la cifratura dei dati di ogni singolo soggetto; i metodi di biohashing; trasformazioni irreversibili; tecniche di cifratura omomorfiche e di intelligenza computazionale. Il processo di riconoscimento biometrico è diviso in due fasi: la prima di “arruolamento” (enrollment) crea e memorizza le caratteristiche del soggetto; la seconda è quella del riconoscimento, ossia la verifica dell’identità dell’indagato ottenuta dal confronto con i dati memorizzati. Ma in questo processo emerge la necessità di proteggere la privacy dei soggetti sotto esame. I tratti biometrici che non subiscono mutazioni nel lungo periodo e consentono l’elevata accuratezza nel riconoscimento di un singolo essere umano, quelli su cui si basa l’indagine, devono essere usati solo per le applicazioni che richiedono elevati standard di sicurezza. Laddove questa condizione non sia soddisfatta, l’investigatore potrà disporre dei tratti maggiormente mutevoli o comunque di minore accuratezza. Tale accorgimento può garantire la necessaria riservatezza ai soggetti non direttamente coinvolti nell’indagine.

Giovanni Caprara

Bibliografia
Gianfilippo Magro, Gerardo Iovane,” La biometria e i nuovi sistemi di identificazione”. www.carabinieri.it
Patrick Tucker, “The future of biometrics”. Defense One, 2015
R. Donida, A. Genovese, F. Scotti, “Biometria: tecnologie, applicazioni e aspetty di privacy. La rivista di FormareNetwork.
Redazione, “I consigli della CIA per le sue spie”. Diritti Globali, 2015

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