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CLAUDIO MOFFA, ROMPERE LA GABBIA. SOVRANITÀ MONETARIA E RINEGOZIAZIONE DEL DEBITO CONTRO LA CRISI, ARIANNA EDITRICE, BOLOGNA 2014

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La “gabbia” che Claudio Moffa col suo saggio pubblicato da Arianna Editrice invita a “rompere” non è quella dell’euro, se con ciò s’intende una ‘romantica’ operazione di “ritorno alla lira”.
Come recita il sottotitolo nella copertina di Rompere la gabbia, la questione cruciale è quella della sovranità monetaria, che il docente di Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici all’Università di Teramo auspica venga ristabilita al più presto, in Italia e negli altri Paesi occidentali, per uscire dall’attuale “crisi”.

Esiste tuttavia un ostacolo insormontabile: la mancanza di volontà da parte di un ceto politico ed una classe dirigente che nel migliore dei casi, quando non si tratta di personaggi collusi e a libro paga, s’illudono che l’attuale abnorme finanziarizzazione dell’economia e della vita degli Stati nel suo complesso possa durare ancora a lungo senza ridurre la stragrande maggioranza nelle persone in una schiavitù che la ‘gabbia’ del titolo di quest’opera evoca al meglio.

Per procrastinare quest’inevitabile esito, già in parte realizzatosi, questi cosiddetti politici delle moderne “democrazie”, su imbeccata dei loro padroni e dei media di loro proprietà, si sono inventati l’ondata di “antipolitica” e la “crisi”.
Ma la “crisi” non è il risultato di “sprechi” e “ruberie” (che pure ci sono), come vorrebbe farci intendere anche tutta una saggistica interessata che ha preso a bersaglio l’ormai celebre “casta” e non il mondo della grande finanza speculativa.
Perché se di “casta” si deve parlare, essa va cercata tra quell’élite, invero ristretta e potentissima, dei “signori del denaro”. Di coloro che detengono – dopo averlo servizievolmente ricevuto “a termini di legge” – il potere di emissione, vera chiave di volta dell’intera economia moderna (ma a ben considerare dell’economia d’ogni tempo e luogo, tant’è che l’Autore passa in rassegna – cap. 4 – alcuni esempi storici che ben mostrano l’attenzione che i governanti hanno sempre dedicato a tale problematica).

La domanda che nessun grande “esperto” dei media e dell’università (peraltro sempre più sotto il controllo del capitale finanziario stesso) osa mai porre è infatti la seguente: “Di chi è la moneta?”. E, nello specifico di noi italiani ed “europei” dopo oltre dieci anni di “moneta unica”: “Di chi è l’Euro”?
A questa fondamentale domanda, dopo l’eccezione in ambito accademico del defunto prof. Giacinto Auriti, il saggio di Claudio Moffa (http://www.claudiomoffa.it/), che riunisce anche alcuni suoi interventi preparati per le varie edizioni del “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente” (http://www.masteruniteramo.it/), offre una chiara ed esaustiva risposta. L’Euro, tanto per cominciare, non è degli Stati che vi aderiscono, ovvero dei cittadini che da quelli dovrebbero essere rappresentati e difesi, bensì di una ristretta cricca di banchieri privati che controllano il cartello di banche “nazionali” denominato BCE.

Attraverso spiegazioni lineari che hanno anche il pregio di una provvidenziale ripetitività (importante per chi è a digiuno di tali argomenti), l’Autore giunge ad una sconcertante verità: l’Euro è di fatto una moneta straniera!
Che conseguentemente gli Stati (o quel che ne resta una volta spogliati della sovranità monetaria) dell’Unione Europea che l’hanno sottoscritto devono letteralmente acquistare a fronte dell’emissione di titoli del “debito pubblico” gravati da interesse. Come non può aumentare il “debito” in simili condizioni (p. 110)? E come non possono aumentare, in simili condizioni, le famigerate tasse?

Ma la BCE – che è il coronamento di una manovra che parte da lontano e che per quanto riguarda l’Italia consiste in una successione di eventi che questo libro ripercorre nella loro perfidia – crea denaro dal nulla (M. Allais), nel senso che per essa il denaro, offerto come una vera e propria “merce”, ha praticamente un costo irrisorio, sebbene la differenza tra quello ed il valore facciale impresso (da 5 a 500 euro) garantisca il famoso reddito da signoraggio.

Ora, su quest’ultimo termine (come su tutto ciò che si discosta dalla versione ufficiale ammessa dal sistema vigente politico-mediatico-culturale) è stata fatta scendere una coltre di discredito e di dileggio, ma se solo si presta attenzione alle dichiarazioni di alcuni protagonisti delle manovre che hanno prodotto l’attuale indecente ed immorale stato di cose (per esempio Andreatta o Soros), ci si rende conto che sono gli stessi “signori del denaro” ed i loro incaricati a riconoscere l’esistenza – e la redditività! – del signoraggio.

Il libro del prof. Claudio Moffa (che non a caso ha sempre invitato a collaborare “al di fuori degli schemi”) è anche un appello appassionato (e sicuramente inascoltato) alla cosiddetta “sinistra” affinché prenda atto che la battaglia per la sovranità monetaria non ha “colore”. Essa, anzi, è oggi “la” battaglia per antonomasia, in una situazione nella quale ogni “manovra” ed ogni provvedimento economico di qualsiasi governo che abbia aderito all’euro è destinato all’inevitabile fallimento poiché lo strumento monetario è completamente fuori dal suo controllo.
Né ha alcun senso vedere ancora, come se ci trovassimo cinquant’anni fa, sedersi al “tavolo delle trattative” sindacati e “datori di lavoro”, quando la proporzione tra capitale finanziario-speculativo e capitale produttivo è passata, dal 3% che era nel 1973, ad un inaccettabile 2000% nel 2010 (cioè, un rapporto di 20 a 1!).

Eppure, non è sempre andata così. Ci si è arrivati un po’ per volta. Ma se dobbiamo individuale una sorta di “big bang” lo si può fissare al 1694, con la creazione della Banca d’Inghilterra, che già Marx (al quale Moffa dedica un capitolo per mostrare come i suoi scritti giovanili tenessero nel debito conto il peso del capitale finanziario nella spirale di alienazione e sfruttamento delle classi lavoratrici) aveva indicato come una truffa ai danni dello Stato, di lì in poi “mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta”, il “debito” contratto coi banchieri privati crescendo indefinitamente (cap. 5).

L’eterno conflitto tra “produttori” (insomma, chi lavora e perciò produce ricchezza) e “speculatori” non era dunque ignoto ad un pensatore ed agitatore che ha condizionato generazioni di politici e studiosi, i quali però – complice anche una successiva svalutazione del fenomeno usurario dello stesso Marx, denunciata da Moffa – si sono incartocciati nelle varie “scuole” del Marxismo, che hanno focalizzato l’attenzione su un conflitto – quello tra “padroni” e “proletari” – che obiettivamente non spiega se non solo alcuni aspetti marginali delle moderne dinamiche economiche (e politiche).

Il libro, tra le altre cose, invita a riflettere sul fatto che esiste una notevole differenza, anche etica, tra capitale produttivo, destinato agli investimenti (ed ai rischi ad essi connessi), e capitale finanziario-speculativo.
Così si spiega la fondamentale convergenza di Cristianesimo ed Islam, uniti nella condanna del prestito ad interesse, mentre proprio l’usurocrazia apolide punta a fomentare lo scontro tra queste due tradizioni religiose.
E così trova un suo perché “un’imprenditoria etica, animata dall’obiettivo di costruire il benessere del popolo italiano”, in opposizione ai “capifila del non ancora maturo e ‘libero’ (meglio sarebbe dire ‘eversivo’) mondo bancario” (p. 127), che vide protagonista Enrico Mattei. Il quale poté svolgere la sua azione nazionale ed internazionale, ispirata ai suoi ideali cattolici (e, perché no, alla sua giovanile formazione fascista), grazie a alla presenza di un capitale produttivo ancora nettamente preponderante rispetto a quello finanziario-speculativo e, soprattutto, nelle salde mani dello Stato italiano.

Oggi, invece, dopo il suo assassinio (e quello, altrettanto significativo dal punto di vista che stiamo trattando, di Aldo Moro), lo Stato è stato assaltato, conquistato e svuotato da una banda di “camerieri dei banchieri” (per dirla con Ezra Pound) che in Italia, giusto per riassumere le date salienti, hanno agito nel modo che andiamo ad esporre.
Premesso che l’Italia, seppur sconfitta militarmente e perciò occupata, aveva mantenuto una sua sovranità monetaria (legge fascista del 1936 che definiva la Banca d’Italia, monopolista dell’emissione, un “istituto di diritto pubblico”; 1945-1948: sostanziale “continuità” rispetto al Ventennio; fino a tutti gli anni Settanta: emissione di biglietti di Stato a corso legale, quindi reddito da signoraggio nelle casse dello Stato), questi sono i momenti cruciali di quello che solo un osservatore prevenuto non può riconoscere come un complotto ordito ai danni della Nazione:
– 1981: “divorzio” del Tesoro dalla Banca d’Italia (sulla base di un mero scambio di lettere!), preceduto da un tam tam mediatico sulla necessità della “autonomia della Bd’I”. Si noti per inciso che più è aumentata la “autonomia” della Bd’I, più il cosiddetto “debito pubblico” è cresciuto…

– Il 1992 – che è quello di “Mani Pulite” – è l’anno del golpe: in rapida successione avvengono la privatizzazione della Bd’I (che sancisce la fine della nostra sovranità monetaria); il perfezionamento del suddetto “divorzio” da parte del ministro Guido Carli; le privatizzazioni del governo Amato previa trasformazione degli Enti pubblici in S.p.A.; senza contare la svalutazione della lira (governatore Carlo Azeglio Ciampi) ed il famoso ‘seminario’ sul panfilo della regina d’Inghilterra “Britannia”.

– 1993: abolizione del Ministero delle Partecipazioni Statali (i famosi “carrozzoni”…), mentre lo ‘spettacolo’ degli avvisi di garanzia veniva proiettato nelle case degli italiani.

È facile (ed irritante) osservare la rapida successione temporale di questi eventi rispetto all’accelerazione del processo di “integrazione europea” (trattati di Maastricht e Lisbona, opportunamente citati in appendice per sottolinearne l’assoluta obbedienza ai diktat della finanza speculativa a tutto danno del “lavoro”, che evidentemente non interessa affatto ai fautori della UE).
Una volta infilatisi nei gangli dello Stato, i suddetti “camerieri” traditori hanno svenduto, in nome del “libero mercato” (ma ai loro amici), l’industria pubblica strategica italiana, come ha scritto ed argomentato magistralmente Antonio Venier in un altro libro che tutti – specialmente chi ha ancora un residuo amor di Patria – dovrebbero leggere e meditare: Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione (Edizioni di Ar, 1999, con presentazione di Bettino Craxi).

Ma a proposito di “libero mercato” c’è da ricordare ai suoi indefettibili ammiratori che l’esperienza di questi ultimi vent’anni ha evidenziato come la “libera impresa”, che è senz’altro un valore da tutelare ed incoraggiare, non ha alcuna speranza di sopravvivere in un regime di “libera speculazione”.

Per questo, il saggio di Claudio Moffa, che dovrebbe finire sul tavolo di tutti i politici assieme a quello di Venier se questi non fossero intenti da mane a sera a venderci ai loro padroni, si conclude idealmente con una dichiarazione che è una sorta di parola d’ordine: “Libera impresa in libero Stato padrone dell’emissione monetaria” (p. 159).
La “autonomia” dell’istituto di emissione (prima la Bd’I ed ora la BCE) ha solo posto le premesse della “crisi”, di una crisi finanziaria che a sua volta, poiché i ‘rubinetti’ della cosiddetta “liquidità” sono in mani private che li aprono discrezionalmente per ottenere risultati politici, è con ogni evidenza una crisi produttiva, tra le cui concause, stabilito che la prima è l’assenza di sovranità monetaria, possiamo annoverare la “libera circolazione di merci e uomini” e le purtroppo celebri “delocalizzazioni”.

In questo quadro che ha bisogno solo di una salutare scossa, ogni misura presa dai vari governicchi che si succedono, dagli “interventi correttivi” agli “aggiustamenti fiscali”, dalle “detrazioni” agli “incentivi”, è pura fuffa, perché rebus sic stantibus questa situazione – che genera solo povertà ed insicurezza (Moffa parla di “via giudiziaria al pauperismo” opposta ad un ragionevole “progresso” sociale ed economico) non può che riprodursi all’infinito, stringendo sempre più il cappio dell’usura attorno al collo di imprese e famiglie.

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ANDREJ KORTUNOV: DUE LEZIONI CINESI PER LA RUSSIA

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In Russia è di moda vedere il modello di sviluppo cinese come una success story di modernizzazione “non occidentale”. E la crisi ucraina e la guerra delle sanzioni con l’America e l’Europa non fanno che stimolare l’interesse per questa esperienza ricca ed istruttiva. Ma quanto appropriate sono le nostre conclusioni sull’esperienza cinese? Siamo realmente in grado di comprendere le cause dei successi e degli insuccessi della modernizzazione cinese? Su questo proposito non mancano i dubbi. Analizziamo, pertanto, due momenti chiave della storia cinese.

A cavallo tra i secoli XVII e XVIII, mentre la Russia era governata dai Romanov, in Cina imperava la dinastia mancese dei Qing. In quegli anni, quasi in contemporanea, sedevano al trono due dei più grandi rappresentanti di queste dinastie: in Russia lo Zar Pietro il Grande (durata del regno 1682-1725), e in Cina l’Imperatore Kangxi (durata del regno 1662-1722). I due regnanti avevano molti lati in comune. Entrambi furono dei governanti forti e autoritari, lottarono con successo contro la vecchia aristocrazia, divennero celebri come saggi amministratori e infaticabili riformatori, furono assorbiti da grandi progetti edilizi ed allargarono in modo significativo i confini dei loro Paesi.

Tra i due, però, c’era una sostanziale differenza. Pietro I fu un deciso sostenitore dell’europeizzazione della Russia, dello sviluppo dei rapporti commerciali con i vicini occidentali e dell’introduzione nella vita sociale russa di tradizioni, costumi e persino mode provenienti dall’Occidente. Kangxi, al contrario, pur interessandosi alle scienze straniere, non solo mantenne l’isolamento cinese nei confronti del resto del mondo, ma ufficializzò questo status, e, quando nel 1793 il diplomatico britannico Lord George McCartney giunse in Cina per aprire il Paese al commercio con l’Europa, la risposta fu che “il Celeste Impero è sufficientemente ricco e autosufficiente e pertanto non ha bisogno di commerciare con l’estero”. Alla politica della “sostituzione delle importazioni” si aggiunsero, alla fine dell’impero di Kangxi, le aggressioni ai danni dei missionari occidentali. Questo isolazionismo incontrò il pieno sostegno sia della nobiltà mancese sia degli intellettuali di etnia Han.

Il seguito è ben noto. La storia di questi due grandi imperi prese due strade completamente differenti. Nel corso dei secoli XVIII e XIX la Russia visse una fase di rapido sviluppo ed entrò prima nel novero delle grandi potenze europee e poi nell’empireo di quelle mondiali, riuscendo con successo ad accorciare il divario che la separava dai Paesi più sviluppati. E questo fino alla catastrofe della Prima Guerra Mondiale. La Cina dei Qing, al contrario, col passare del tempo si trasformò in un Paese arretrato e perse il suo tradizionale status nelle relazioni internazionali. Quando alla fine Pechino fu costretta ad aprire i suoi confini agli stranieri, lo fece in condizioni per essa sfavorevoli e umilianti. Nell’arco di un secolo e mezzo-due, a causa dell’isolazionismo, la Cina si sarebbe trovata sull’orlo di una catastrofe nazionale.

Ora spostiamoci verso un passato non molto lontano. Il 4 giugno 1989, nella piazza pechinese di Tienanmen, le proteste degli studenti di opposizione furono represse nel sangue, provocando centinaia di morti. Il G7, guidato dagli Stati Uniti, introdusse una serie di dure sanzioni contro Pechino. I contatti ad alto livello e la cooperazione in ambito militare furono interrotti, e una serie di relazioni economiche e di investimenti vitali per la Repubblica Popolare fu congelata. La maggior parte dei politici e degli ufficiali della Cina popolare non celò il proprio turbamento e la propria indignazione nei confronti dell’Occidente, e a Pechino si diffuse la convinzione che le riforme economiche andassero immediatamente sospese, che alle sanzioni bisognasse rispondere con altre sanzioni e che la politica delle “porte aperte” fosse stata un errore, se non addirittura un danno per il Paese. Il Segretario Generale del Partito Comunista Cinese Zhao Ziyang fu sollevato dal suo incarico e posto agli arresti domiciliari per il suo eccessivo liberalismo. E i conservatori assaporarono quella vittoria sui riformisti da tanto attesa.

Tuttavia Deng Xiaoping, il grande artefice delle riforme cinesi, pur abbandonando ogni incarico ufficiale, riuscì a ottenere il mantenimento della sua linea politica. E questo malgrado le pressioni provenienti da militari, funzionari di partito e ideologi di orientamento conservatore. Malgrado le umilianti sanzioni occidentali e la campagna anticinese senza precedenti orchestrata dai mezzi di comunicazione europei e nordamericani. Malgrado i rischi sociali e politici connessi alla prosecuzione del cammino delle riforme. Le frange conservatrici del governo cinese ottennero alcune vittorie tattiche, ma non riuscirono a ricondurre il Paese verso una nuova fase di autoisolamento, e in generale Pechino non si lasciò trascinare dalle emozioni dell’epoca: non furono adottate sanzioni di risposta contro l’Occidente, non si tornò agli anni delle grandi mobilizzazioni (come il celebre Grande Balzo in Avanti, nda), e la politica delle “porte aperte” fu mantenuta.
Gli esiti di questa scelta fanno ormai parte della storia. La Cina è ormai diventata la seconda economia mondiale, e già oggi il Paese supera gli Stati Uniti per volume di scambi con l’estero. Nel contempo, però, la Cina non ha perso né il suo carattere nazionale, né la sua identità culturale, né le peculiarità del suo sistema politico. E sono in pochi, oggi, a ricordare le sanzioni del 1989.

Pur tenendo presenti le differenze tra i nostri Paesi e le nostre società, queste due lezioni di storia cinese restano molto importanti per la Russia di oggi. La Russia si trova attualmente dinanzi ad un bivio storico tra il cammino dell’Imperatore Kangxi e quello del comunista riformatore Deng Xiaoping. La linea dell’imperatore è maggiormente comprensibile e foriera di speranze per l’attuale gruppo dirigente russo e per la maggior parte della popolazione del Paese. Il percorso del riformatore presenta invece una serie di rischi tattici e non mancherà di incontrare oppositori. Arroccarsi sulle proprie ragioni e nell’orgoglio della propria preminenza storica è sempre più semplice che adattarsi a una realtà difficile e spesso ingiusta, e quindi alle ostilità del mondo esterno. Ma la storia della Cina consente di comprendere chiaramente qual è il percorso che conduce alla leadership mondiale e quale a un vicolo cieco di proporzioni storiche.

Traduzione a cura di Giuseppe Cappelluti.

*Andrej Kortunov è il Direttore Generale del Consiglio Russo per gli Affari Internazionali (RCMD).

Fonte: http://www.vedomosti.ru/opinion/news/33279931/dva-kitajskih-uroka-dlyarossii?full#cut

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SCANDALO INTERNAZIONALE? DISCRIMINAZIONE PER GLI ABKHAZI

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Scandalo internazionale? Sì, uno scandalo internazionale che coinvolge la città della Pace di Assisi ed anche lo storico Convitto Nazionale “Principe di Napoli”. Uno  scandalo organizzato dal Consolato d’Italia a Mosca e dalla nostra Farnesina, con il rifiuto della concessione dei visti per studio a sette studenti provenienti dalla Repubblica della Abkhazia, che si erano iscritti al Convitto Nazionale per seguire corsi di letteratura italiana e direzione aziendale per il turismo. Con pretesti spesso grotteschi e futili il consolato italiano a Mosca ha rifiutato i visti, pur in presenza di una documentazione precisa e chiara. Gli studenti non sarebbero venuti in Italia per iscriversi all’università o ad istituti superiori, in quanto non in possesso delle dichiarazioni di valore per i propri diplomi, ma per frequentare corsi ad hoc organizzati dal convitto. Gli studenti, in possesso di legale passaporto russo, hanno ottenuto il rifiuto in quanto Abkhazi. Si tratta quindi di una discriminazione razziale e politica a scapito di giovani studenti colpevoli solo di essere Abkhazi. Una vergogna assoluta, alla quale va sommata l’altra vergogna delle pressioni rivolte dalla Farnesina, dalla Presidenza del Consiglio, affari regionali ecc. verso l’amministrazione della città di Assisi, rea di aver sottoscritto un protocollo di amicizia con una città abkhaza, Gagra. Questo protocollo, uno tra i tanti già sottoscritti da altre città italiane, andava verso l’amicizia, la tolleranza ed il rapporto tra le genti; fatto particolarmente rilevante, era stato firmato dalla città di San Francesco, emblema mondiale della pace e della convivenza religiosa e civile. Non si può e non si deve stare in silenzio davanti a questa barbarie politica del nostro Ministero degli Esteri e del Consolato italiano a Mosca. Se si pensa che, per la prima volta dopo cento anni, il Convitto avrebbe ospitato delle ragazze, si può ben comprendere l’offesa subita dalla città di Assisi.
Per questo e su questi temi, alle ore 12,00 di venerdi 19 settembre, ad Assisi, presso la sala conferenze dell’Hotel Cristallo, avrà luogo una conferenza stampa organizzata dalla rappresentanza ufficiale in Italia della Repubblica della Abkhazia, con la partecipazione di esponenti politici e della società civile di Assisi.

Mauro Murgia
Rappresentante ufficiale in Italia per la Repubblica della Abkhazia.

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PANORAMICA DELL’AREA DANUBIANA

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La crisi ucraina è l’ennesimo banco di prova per l’Unione Europea. Nell’Europa centrale, le nazioni più vicine all’Ucraina si sono ritrovate in bilico tra l’Unione Europea e il versante russo. Diverse nazioni hanno assunto diversi approcci alla questione ucraina, allineandosi più o meno alle direttive dell’Unione Europea di cui fanno parte. Il seguente elaborato prende in analisi l’appoggio dato dalla Romania alla Nato, il dibattito interno alla Repubblica Ceca e la natura dei legami che vincolano l’Ungheria e la Russia, soprattutto sul piano energetico.

UNGHERIA
In Ungheria è attualmente presente una sola centrale elettronucleare la quale dispone di quattro reattori presso la città di Paks. Non ne sono presenti altre, nemmeno di dismesse, e non ne sono state previste altre da costruire per il futuro. Quest’unica centrale arriva a produrre tra il 35% e il 45% dell’energia elettrica di tutto il paese (1). L’impianto è gestito dalla Paks Nuclear Power Plant LDT, filiale della società elettrica di stato Magyar Villamos Művek.

Si tratta una centrale nucleare vecchia: ha più di trent’anni, ha completato il suo ciclo vitale e sarebbe stata già dismessa nel 2012 se non si fosse deciso di rinnovarla per allungare la sua durata di vita di altri vent’anni. Non tutte le parti sono state modificate ma quelle insostituibili sono state dichiarate ancora correttamente funzionanti e sono state mantenute. Il Parlamento, con schiacciante maggioranza, si è dimostrato favorevole all’estensione delle durata del suo funzionamento e anche l’opinione pubblica, stando ai sondaggi, è stata favorevole in larga misura.

Oltre ad allungarle la vita, nel 2010 è stato deciso di ampliare la centrale nucleare costruendo nuovi reattori, scelta che nel 2012 il governo ungherese ha compattamente definito “un progetto di alta priorità per l’economia nazionale”2. Una commissione tenuta dallo stesso capo del governo Viktor Orban, dal ministro dell’Economia e dal ministro dello Sviluppo si sta occupando di tutte le scelte necessarie a riguardo.
E’ stato proprio il ministro dello Sviluppo Zsuzsanna Németh a firmare lo scorso 14 gennaio un accordo con la compagnia di stato russa Rosatom che finanzierà l’80% del progetto stanziando 10 miliardi di euro. L’ampliamento avrà luogo a partire dal 2015 e si concluderà otto anni dopo con la costruzione di due ulteriori reattori (3)(4)(5)(6).

Se dal versante del nucleare il governo ungherese si sta impegnando in prima persona stringendo accordi con compagnie di stato russe, sul versante delle altre forme di energia la situazione non è molto diversa: tutto il combustibile usato è fornito dalla società russa TVEL e l’Ungheria è dipendente per il 70 % dal gas naturale russo. Gli accordi attuali, promette il premier Orban, permetteranno di abbassare il costo dell’energia mentre l’opposizione accusa che l’Ungheria si svenderà diventando del tutto dipendente da Mosca.

Al fine di inglobare l’Ucraina nella sfera d’influenza atlantica, l’Unione Europea ha sanzionato economicamente la Russia. Tale scelta però non è stata approvata dall’Ungheria e da diverse altre nazioni. La dipendenza energetica dalla Russia non fa che aumentare le distanze tra Orban e il resto d’Europa, ma la discrepanza ha origini probabilmente più profonde.

Viktor Orban, cinquantun anni, è il Primo Ministro dell’Ungheria dal 2010 quando ha ottenuto la maggioranza parlamentare più solida affermatasi in Ungheria dalla caduta del Comunismo. Già nel 2011, il suo governo ha riformato la costituzione ungherese. La nuova costituzione è entrata in vigore a partire dal 2012 ed è stata subito definita “un golpe bianco”, una sfida provocatoria nei confronti dell’Unione Europea. Il nuovo testo costituzionale pone il cristianesimo come elemento cardine della nazione. Nel rispetto delle restanti “diverse tradizioni religiose”, afferma di tutelare la vita umana “fin dal concepimento” e l’istituto del matrimonio “quale unione volontaria di vita tra l’uomo e la donna, nonché la famiglia come base di sopravvivenza della Nazione”.

In campo economico Orban, abbandonate le politiche liberiste dei primi anni, ha portato a un rafforzamento del settore pubblico e una maggiore tassazione del privato (7). I primi attriti con l’Unione Europea sono nati in questo campo. Le banche presenti nel paese erano in maggior parte straniere (come anche le aziende di telecomunicazioni e del settore energetico). Orban è l’uomo che “ha tolto i soldi alle banche per darli al popolo”, aumentando la tassazione a carico degli istituti finanziari stranieri entrando in confitto con l’Unione Europea. Orban ha promesso di eliminare le ipoteche in valuta straniera ed ora si temono ulteriori ripercussioni sulle banche straniere presenti nel territorio ungherese. Inoltre, il governo Orban ha messo in discussione l’indipendenza della banca centrale ungherese e ne ha sostituito il direttore con uno di nomina governativa. Infine è stata riaffermata la volontà di non voler entrare a far parte della moneta unica europea.

Il governo Orban ha anche troncato ogni rapporto con il Fondo Monetario Internazionale, riuscendo ad estinguere con due anni di anticipo tutti i debiti. Gli Ungheresi hanno confermato Orban al governo anche grazie alla riduzione delle tasse sul reddito e della disoccupazione, che è scesa dall’11% all’8%. I prezzi di consumo sono stati abbassati e sono stati tagliati i prezzi dell’energia del 20%. Le pensioni sono state aumentate (8).

 

ROMANIA

Se il governo e la politica economica dell’Ungheria mostrano sempre più insofferenza nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, la Romania sembra essere molto più propensa ad operare di comune accordo con queste ultime. La scelta della Crimea di slacciarsi dall’Ucraina per entrare volontariamente a far parte del territorio gestito da Vladimir Putin sembra dare di nuovo alla NATO uno scopo. Il governo statunitense ha chiesto di aumentare il numero di truppe e di aerei che stazionano nella base NATO in Romania in previsione di ulteriori tensioni relative al territorio della Crimea (9) e il governo rumeno ha prontamente accettato.

La base in questione, l’aeroporto militare e civile Mihail Kogalniceanu, posto nella Romania orientale sulle rive del Mar Nero, è operativo ai fini della strategia statunitense fin dal 1999. Data la sua vicinanza con la Crimea, ora potrebbe tornare utile, ammette lo stesso presidente Traian Basescu.

La base in effetti ha già giocato un ruolo chiave nella guerra in Afghanistan e nel 2003, durante i tre mesi dell’invasione in Iraq, l’aeroporto fu transitato da 1300 cargo e altri mezzi di trasporto, 6200 uomini e circa 11,100 tonnellate di equipaggiamenti (10). Date queste sue potenzialità, la base tende ad essere considerata una delle più importanti basi operative della joint task-Force tra il governo statunitense e quello dell’Unione Europea. Non a caso, verso la fine del 2009, il governo statunitense ha speso quasi cinquanta milioni di dollari per aggiornare la base. Da allora lì opera il Permanent Forward Operating Site.

Attualmente, la base consta di un’ottantina circa di edifici. Il presidente Traian Basescu afferma di avere avuto una richiesta di lasciar aumentare da 1000 a 1700 il numero di militari americani impegnati nella base (che potrebbe ospitarne fino a 2000 (11)). Secondo lo United States Global Leadership Report del 2012, il 43% dei Rumeni approva la leadership degli Stati Uniti, il 45% non ne risulta sicuro e solo il 12% la disapprova.

L’aumento delle truppe sarà probabilmente solo il primo passo. Dal 2015 sarà operativa la base americana Deveselu nel sud della Romania (12). La base, dismessa nel 2003, è stata ora selezionata per il sistema balistico di difesa “Aegis”, e sarà armata di intercettatori SM-3, cioè dei missili antiaerei, oltre che degli equipaggiamenti radar e duecento uomini a disposizione (13). In altre parole, questa base dovrebbe avere solo la possibilità di difendersi e non di attaccare.
Il ministro della Difesa rumeno Mircea Dusa ha affermato che la preparazione della base avvierà “una partnership molto seria con gli Stati Uniti”. Una seconda base di questo tipo sarà operativa anche in Polonia a partire dal 2018 (14).

 

REPUBLICA CECA

Infine, relativamente a quale delle strade fosse meglio seguire, se quella voluta dalla Russia o quella tracciata dall’Unione Europea, un dibattito interno al governo della Repubblica Ceca si è sviluppato negli ultimi mesi.

A fine febbraio, il presidente della repubblica Miloš Zeman ha dichiarato al Parlamento Europeo di Strasburgo di essere un “fervente europeista” e desideroso di entrare a far parte della moneta unica europea. Afferma anche di essere orgoglioso di appartenere alla “famiglia culturale europea”, si definisce “tollerante nei confronti di altre religioni (15)” ma si rivolge al mondo islamico definendolo “il nemico” e paragonandolo al nazismo.

All’Unione Europea ha però criticato l’eccesso di burocrazia, la mancanza di regole e procedure condivise, “l’assenza di una disciplina comune”, le “regole troppo diverse da paese a paese” e infine una politica di difesa troppo timida: “devono essere studiate politiche comuni in ambito di politica estera, di difesa, di fiscalità, di energia e di ambiente”.

Il leader ceco, parlando durante una trasmissione radiofonica, ha recentemente affermato che se la Russia dovesse espandere il proprio territorio annettendo le regioni orientali dell’Ucraina, la risposta dell’occidente non dovrebbe limitarsi nell’imporre sanzioni economiche contro Mosca ma dovrebbe comprendere il dispiegamento di truppe NATO all’interno dei confini ucraini. “Nel momento in cui la Russia decida di allargare la sua espansione territoriale all’Ucraina, il divertimento finirà. Non consiglierei solo le sanzioni europee ma anche una reazione militare degli alleati nord atlantici come ad esempio delle forze militari Nato che entrino in Ucraina”.

Zeman è una figura molto controversa; è stato accusato di alcolismo e sospettato di essere ubriaco durante diverse cerimonie ed interviste (16). Il primo ministro Bohuslav Sobotka, 42 anni, circa trent’anni più giovane e notoriamente inviso al capo dello stato Milos Zeman, è di altre idee. Ha contrastato con forza le sanzioni europee contro la Russia dopo la sua annessione della Crimea adducendo che ciò avrebbe avuto un impatto assai negativo sull’economia (17). Sobotka si dichiara anche contrario all’invio di soldati in Crimea (18). “Russia e Ucraina dovrebbero sedersi insieme al tavolo dei negoziati”, semplicemente.

Sobotka critica aspramente l’Unione Europea che, dichiara, dovrebbe reagire con prudenza, “compatta e unita ma con gentilezza” mentre il suo modo di agire attuale “sembra in preda all’isteria (19)”.
Meno critico nei confronti dell’Unione Europea sembra essere Andrej Babis, 59 anni, che raccoglie il 18,7% delle preferenze (solo l’1,8% in meno dei vincenti socialdemocratici di Sobotka) sottolineando nel programma elettorale la necessità di un legame affidabile con Bruxelles e proponendo di rafforzare la partecipazione ceca in seno dell’Unione Europea. Al tempo stesso, sul piano economico, aggiunge che “il fiscal-compact danneggia la sovranità nazionale … il sistema unico di sorveglianza bancaria non serve perché gli istituti di credito cechi funzionano correttamente … E di euro da noi non se ne parla nemmeno … so quello che dico, perché io, con il mio gruppo di aziende, sono il quarto esportatore del paese e mi occupo di commercio con l’estero da una vita. La corona ceca è uno strumento indispensabile per stimolare e difendere la nostra economia (20)”.

Infine, Tomáš Prouza, 41 anni, nominato all’indomani dell’insediamento del governo Sobotka e Segretario di Stato per gli Affari Europei, già vice ministro delle finanze, ha sostenuto da sempre il processo di adozione della moneta unica: “non ci possiamo permettere il lusso di restare spettatori né semplici osservatori fuori del campo di gioco … Se guardiamo i paesi in cui gli euroscettici hanno conquistato posizioni, ci rendiamo conto che sono paesi che hanno problemi interni. L’euroscetticismo non è un programma politico, ma un voto di protesta” (21).

NOTE
1 http://www.iaea.org/pris/WorldStatistics/NuclearShareofElectricityGeneration.aspx
2 http://www.napi.hu/magyar_gazdasag/kulonos_sietseg_kiemelt_beruhazas_lett_a_paksi_bovites.522760.html
3 http://www.bbj.hu/business/its-official-rosatom-backs-plans-to-double-paks-capacity_74439
4 http://www.bbj.hu/politics/varga-cheapest-credit-line-for-paks-necessary_74438
5 http://www.politics.hu/20140114/hungary-russia-sign-agreement-on-nuclear-power-plant-expansion/
6 http://www.reuters.com/article/2014/01/14/russia-hungary-idUSL6N0KO28L20140114
7 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-06/l-ungheria-conferma-viktor-orban-jobbik-estrema-destra-r razzista-18percento-195510.shtml?uuid=ABI2ro8
8 http://www.repubblica.it/esteri/2013/03/17/news/decorati_orban-54775715/
9 http://www.reuters.com/article/2014/04/01/us-ukraine-crisis-usa-romania-idUSBREA3012J20140401
10 http://www.romanialibera.ro/actualitate/proiecte-locale/zece-ani-cu-us-army–cu-ce-s-au-ales-romanii-294115
11 http://guardianlv.com/2014/04/us-offers-troops-to-romania-following-crimea-fallout/
12 http://www.bbc.com/news/world-europe-24705739
13 http://www.state.gov/t/avc/rls/162446.htm
14 http://www.theguardian.com/world/2014/may/22/us-test-fires-aegis-missile-defence-system-destined-for-europe
15 http://www.krestandnes.cz/article/milos-zeman-jsem-tolerantni-ateista/21707.htm
16 http://www.washingtonpost.com/blogs/worldviews/wp/2013/05/13/video-of-czech-president-staggering-through-ce remony-has-many-wondering-if-he-was-drunk/
17 http://www.reuters.com/article/2014/04/06/us-ukraine-crisis-nato-czech-idUSBREA350LY20140406
18 http://www.praguepost.com/the-big-story/38296-sobotka-nato-should-not-send-soldiers-to-ukraine
19 http://www.praguepost.com/eu-news/37810-sobotka-calls-for-prudent-eu-stance-on-crimea
20 http://temi.repubblica.it/limes/il-governo-della-repubblica-ceca-dipende-da-un-miliardario/53805
21 http://www.czechtrade-italia.it/eventi/intensificare-i-rapporti-tra-repubblica-ceca-e/

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LA GEOPOLITICA DELLE RELIGIONI

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La geopolitica come metodo d’indagine non si limita a lavorare sulle relazioni internazionali e sui fatti militari. Tra i fattori che essa si sforza di identificare e comprendere, bisogna includere anche il fattore religioso.

Se nell’Ottocento ed ancora nella prima metà del Novecento l’intelligencija laicista dell’Occidente aveva vaticinato la progressiva ed inevitabile scomparsa della religione come risultato finale della modernizzazione economica e sociale, la seconda metà del XX secolo si è incaricata di mostrare l’infondatezza di una tale aspettativa. Infatti, benché la modernizzazione abbia raggiunto dimensioni mondiali, da alcuni decenni diverse aree del pianeta sono interessate da un fenomeno di ripresa religiosa che, definito enfaticamente da Gilles Kepel come “rivincita di Dio”(1), ha indotto alcuni osservatori a parlare addirittura di “desecolarizzazione del mondo” (2).

Le implicazioni geopolitiche di tale fenomeno divengono evidenti allorché si consideri che in genere l’appartenenza religiosa contribuisce in maniera decisiva a rafforzare il senso di identità di un popolo o di una comunità di popoli o perfino, in certi casi, a riconfigurarne l’identità stessa. Nel mondo musulmano, ad esempio, si è manifestata spesso la tendenza, “in momenti di emergenza, a individuare la propria fonte principale di identità e di fedeltà nella comunità religiosa, cioè in un’identità definita non da criteri etnici o geografici, ma dall’Islam”(3). In India, “una nuova identità indù è in via di costituzione come risposta alle tensioni ed all’alienazione create dalla modernizzazione”(4). In Russia, la rinascita religiosa è il prodotto di “uno strenuo desiderio di trovare un’identità che può essere offerta soltanto dalla Chiesa ortodossa, unico legame ancora non reciso con il passato millenario della nazione”(5).

Così, una ventina d’anni fa gli studiosi di geopolitica dovettero prendere atto dell’aumentato peso geopolitico delle religioni, che per certi versi avevano sostituito le ideologie del mondo bipolare. Le religioni, scriveva il generale Jean, “svolgono una funzione in taluni casi unificatrice e di identificazione collettiva, in rafforzamento di quella nazionale, come in Polonia, ma in altri divisiva, come in Bosnia o in Cecoslovacchia e come potrebbe capitare in Ucraina e nello stesso Occidente fra i Paesi protestanti e quelli cattolici, fra questi ultimi due e quelli ortodossi, nonché fra la Cristianità e l’Islam, fra l’Islam e l’Induismo, e così via”(6). Per quanto riguarda in particolare i Paesi cattolici come l’Italia, il generale indicava l’importanza della dottrina sociale della Chiesa in relazione ad un fenomeno quale l’immigrazione ed alla stessa collocazione politica dell’Italia nell’Occidente.

Il fattore religioso riconferma il suo aspetto di parametro fondamentale della geopolitica quando si osservano i “paesaggi” confessionali corrispondenti ad aree di crisi e di conflitto quali l’Ucraina, l’Iraq e la Palestina.

L’Ucraina è parte di un’area pluriconfessionale, abitata prevalentemente da popolazioni di fede ortodossa e cattolica; il suo territorio stesso è attraversato dal limes che separa il Cattolicesimo dall’Ortodossia, sicché la parte occidentale, di confessione greco-cattolica (“uniate”), guarda verso l’Europa, mentre quella orientale, ortodossa, si rivolge verso la Russia. Si tratta perciò di un tipico “paese diviso”, se vogliamo riproporre la categoria stabilita dal teorico dello “scontro delle civiltà”, il quale, sottolineando la “profonda cesura culturale che divide l’Ucraina orientale ortodossa e l’Ucraina occidentale uniate”(7), identifica la bipartizione culturale dell’Ucraina con la sua divaricazione confessionale. “La linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa – scrive Huntington – attraversa infatti il cuore del paese (…) Un’ampia parte della sua popolazione aderisce alla Chiesa uniate, che segue il rito ortodosso ma riconosce l’autorità del Papa. (…) La popolazione dell’Ucraina orientale, viceversa, è sempre stata in forte prevalenza di religione ortodossa e parla russo”(8).

Anche in Iraq la situazione di instabilità politica è legata alla distribuzione della popolazione in diversi gruppi etno-religiosi. In seguito alla distruzione dello Stato baathista, la divisione in tre distinte entità (sciita, sunnita e curda) è stata sancita da una Carta costituzionale che statuisce la forma federale, indebolendo il governo centrale e riservandogli solamente le decisioni concernenti la difesa e la politica estera. In una situazione di questo genere, non è stato difficile per le bande terroriste sostenute dagli USA e dai loro alleati del Golfo instaurare sui territori sunniti dell’Iraq un preteso “califfato”. Ma anche questo grottesco e caricaturale fenomeno costituisce un oggetto della “geopolitica delle religioni”, poiché il sedicente “califfato” del sedicente “Stato Islamico in Iraq e in Siria” (ISIS) si ispira ad un’ideologia settaria avente la propria origine nella matrice wahhabita-salafita, della quale ci siamo già occupati in un altro numero di “Eurasia”(9).

Quanto alla Palestina, l’autentica natura del regime sionista non può essere semplicisticamente risolta nei termini di un’usurpazione territoriale ispirata da un’ideologia nazionalista, né tanto meno può essere ridotta al tentativo criminale di sottoporre la Palestina a pulizia etnica attraverso lo sterminio e l’espulsione della popolazione autoctona. Infatti, per quanto il progetto sionista sia il prodotto di un pensiero ebraico laico e secolarizzato, nondimeno le sue radici affondano in un messianismo deviato, cosicché diventa lecito ritenere “che lo Stato ebraico non sia uno Stato nazionalista ‘che utilizza la religione’ per realizzare i propri disegni, ma, al contrario, che sia uno Stato apparentemente laico utilizzato dalla controiniziazione per la realizzazione dei suoi piani: una contraffazione della teocrazia ebraica e una restaurazione sacrilega della sovranità spirituale e temporale del popolo ebraico”(10). Una tale prospettiva induce a ritenere che la resistenza palestinese non esaurisca il proprio significato nella dimensione tragica ed eroica di una lotta per la sopravvivenza, ma che il popolo palestinese stia svolgendo la funzione di un vero e proprio katéchon, trovandosi collocato a presidio della Terrasanta per impedirvi la distruzione di quei Luoghi Santi che ostacolano la ricostruzione del Tempio progettata dai “fanatici dell’Apocalisse”.

*Direttore di “Eurasia”

NOTE
1. Gilles Kepel, La revanche de Dieu, Seuil, Paris 1991.
2. George Weigel, Religion and Peace: An Argument Complexified, “Washington Quarterly”, 14 (Primavera 1991), p. 27.
3. Bernard Lewis, Islamic Revolution, “New York Review of Books”, 21 gennaio 1988, p. 47.
4. Sudhir Kakar, The Colors of Violence: Cultural Identities, Religion, and Conflict, cit. in: Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 135.
5. Suzanne Massie, Back to the Future, “Boston Globe”, 28 marzo 1993, p. 72.
6. Carlo Jean, Geopolitica, Editori Laterza, Roma-Bari 1995, p. 77.
7. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, cit., pp. 38-39.
8. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, cit., p. 239.
9. Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia”, 4, 2012, pp. 5-11.
10. Abd ar-Razzâq Yahyâ (Charles-André Gilis), La profanation d’Israël selon le Droit sacré, Le Turban Noir, Paris s. d., p. 58.

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La geopolitica delle religioni

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SOMMARIO

Editoriale

Claudio Mutti, La geopolitica delle religioni

Dossario – La geopolitica delle religioni

Marco Costa, La tradizione confuciana nella Cina socialista

Parama Karuna Devi, Narendra Modi e il Risorgimento induista

Ermanno Visintainer, Religioni in Asia centrale

Carmela Crescenti, Geopolitica del sufismo

Ali Reza Jalali, Geopolitica dell’Islam sciita

Giuseppe Cappelluti, L’Islam russo: il Tatarstan

Vittoria Squillacioti, Le confraternite sufiche in Senegal

Ivelina Dimitrova, Il pilastro ortodosso dello Stato russo

Leonid Savin, Chiesa ortodossa russa, Stato e società

Stefano Vernole, L’influenza dell’Ortodossia sulla geopolitica serba

Andrea Turi, Docete omnes gentes. La geopolitica del Vaticano

Mahdi D. Nazemroaya, La persecuzione dei cristiani in Siria e in Iraq

Aldo Braccio, Protestantesimo e Occidente

Alessandra Colla, Deus vult. Sette protestanti e imperialismo statunitense

Kevin Barrett, L’Islam come controcultura americana

Gian Pio Mattogno, I fondamenti teologici dell’imperialismo sionista

Ábel Stamler, Una setta sionista in Ungheria

Interviste

Intervista a Guglielmo Duccoli (a cura di Aldo Braccio)

Recensioni

Aleksandr Dugin e Alain de Benoist, Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.

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LA GEOPOLITICA DELLE RELIGIONI

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LA GEOPOLITICA DELLE RELIGIONI

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi

EDITORIALE
Claudio Mutti, La geopolitica delle religioni

LA TRADIZIONE CONFUCIANA NELLA CINA SOCIALISTA
di Marco Costa

Nella storia della Cina moderna, nata dalla lotta rivoluzionaria culminata con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese del 1949, confucianesimo e socialismo hanno vissuto, un rapporto tanto controverso quanto originale. Se in epoca maoista – ed in particolare nella fase della Rivoluzione Culturale alla metà degli anni Sessanta – le due filosofie parevano porsi su orizzonti culturali ed ideologici antitetici, con l’affermarsi della linea riformatrice in seno al PCC si è assistito ad un recupero parziale e corretto di alcuni elementi del confucianesimo. Basti pensare a concetti quali “sobrietà”, “armonia”, “unità”, ai quali la quinta generazione di dirigenti del PCC sembra affidarsi per governare la complessità sociale di una Cina sempre più proiettata verso un ruolo da protagonista sullo scenario globale.

 

NARENDRA MODI E IL RISORGIMENTO INDUISTA
di Parama Karuna Devi

La salita al potere di Narendra Modi, oggi a capo del governo indiano come Primo Ministro, è il risultato di un’evoluzione culturale e politica della maggioranza indù della popolazione che è iniziata negli anni Ottanta. Dopo aver ottenuto l’indipendenza dal regime coloniale britannico, l’India ha iniziato un lungo percorso di recupero e integrazione della propria identità nazionale, ma solo in tempi relativamente recenti si è arrivati alla consapevolezza della necessità di una radicale decolonizzazione della mentalità popolare. Il Risorgimento induista ha dovuto e dovrà ancora superare grandi difficoltà interne ed esterne, nonché momenti di violenza e di tensione, anche a causa della mancanza di informazione adeguata e addirittura della propaganda ostile degli schieramenti politici convenzionali e del negazionismo storico e religioso delle istituzioni accademiche. Ma se l’esperimento riuscisse, come sembra probabile, sarebbe una svolta epocale, non solo per l’India ma anche per il resto del mondo.

 

RELIGIONI IN ASIA CENTRALE
di Ermanno Visintainer

Parlando di religione in Asia centrale è importante evitare il fraintendimento che, quasi automaticamente, scaturisce dall’apparente sinonimia di Islam e islamismo. Il primo termine si riferisce alle modalità in cui questa religione si è manifestata nella storia, il secondo alla sua reificazione in feticcio da parte delle moderne categorie di pensiero. Col passaggio di consegne dalle antiche credenze dei Turchi preislamici alla sintesi rappresentata dal sufismo di Ahmed Yassawi, l’Islam ha assunto una sua forma specifica e caratteristica della regione centroasiatica. L’odierno Kazakhstan, con le iniziative fautrici del dialogo interreligioso e interculturale volute dal presidente Nursultan Nazarbayev, intende essere un modello per l’intera regione.

 

GEOPOLITICA DELL’ISLAM SCIITA
di Ali Reza Jalali

Dopo alcuni secoli di oblio politico, preceduti però dallo splendore dell’epoca safavide e non solo, l’Islam sciita è tornato alla ribalta, prima grazie alla rivoluzione iraniana del 1979, poi per via di una rete di alleanze regionali con movimenti e paesi guidati dalla componente sciita. La diffusa presenza sciita è quindi la principale risorsa cui può ricorrere, per esercitare la propria influenza, una nazione come quella iraniana, volenterosa di riprendere il suo storico ruolo imperiale. Il principale concorrente geopolitico dell’Iran nel mondo musulmano è il governo neoottomano di Ankara, determinato anch’esso a svolgere di nuovo, come in passato, un ruolo centrale nella regione che fu culla della religione islamica.

 

L’ISLAM RUSSO: IL TATARSTAN
di Giuseppe Cappelluti

“Gratta un Russo e troverai un Tataro”, dice un proverbio russo. Sovente descritto come un luogo di convivenza pacifica tra Cristiani e Musulmani, il Tatarstan sembra smentire i paradigmi sullo “scontro di civiltà” e sull’indigeribilità dei Musulmani. Va però detto che il clima di tolleranza che caratterizza il Tatarstan odierno è il frutto di secoli di convivenza e talora di contrasti fra Russi e Tatari.

 

LE CONFRATERNITE SUFICHE IN SENEGAL
di Vittoria Squillacioti

Gli ordini sufici Tijaniyya e Muridiyya hanno svolto in Senegal un ruolo molto importante, non solo nell’ambito propriamente religioso, ma anche come mediatrici nei rapporti con il potere politico, prima con quello coloniale e poi con quello instaurato dopo l’indipendenza (1960). I discepoli di queste confraternite dedicano la loro vita alla comunità religiosa prendendo come punto di riferimento spirituale il capo religioso, chiamato serign, shaykh o marabut. I discepoli credono che solo attraverso il rispetto delle regole della confraternita impartite dal Serign sarà possibile ottenere il perdono di Dio e di conseguenza il Paradiso. L’influenza della Muridiyya, in particolare, è vasta e si estende ad ogni campo della vita di chi ne fa parte e in alcuni casi la parola del Marabut arriva ad essere legge indiscutibile.

 

IL PILASTRO ORTODOSSO DELLO STATO RUSSO
di Ivelina Dimitrova

La plurisecolare storia russa, che trae origine dalla trasformazione dei principati russi nel grande impero zarista, evidenzia l’importanza dell’Ortodossia come pilastro dell’identità nazionale e culturale. Pur tuttavia, da sole la crescita economica russa e la dirigenza politica russa non sono sufficienti per riaffermare una comune identità per le popolazioni slave ed ex comuniste, un tempo riconducibili all’ideologia sovietica ed oggi attratte dalle sirene del capitalismo occidentale e dalla globalizzazione atlantica. Il recupero della centralità dell’Ortodossia assume quindi fondamentale importanza per la rinascita russa, oggetto di continui attacchi identitari e socioculturali fin dal disfacimento dell’Unione Sovietica.

 

CHIESA ORTODOSSA RUSSA, STATO E SOCIETÁ
di Leonid Savin

In Russia la salvaguardia dei fondamenti delle religioni tradizionali e il sostegno governativo alle istituzioni ecclesiastiche hanno una stretta relazione con la stabilità politica e sociale. Studiosi di dottrina dello Stato, teologi ed esperti di relazioni internazionali negli ultimi tempi dibattono sul tema del rapporto fra le autorità dello Stato russo e la Chiesa Ortodossa Russa. Il presente articolo prende in esame l’interazione tra le istituzioni della Chiesa Ortodossa, il governo dello Stato e la società russa.

 

L’INFLUENZA DELL’ORTODOSSIA SULLA GEOPOLITICA SERBA
di Stefano Vernole

Che l’Ortodossia rimanga oggi un fattore geopolitico di primaria importanza lo si constata facilmente nell’ambito geopolitico della Serbia. Nella stessa ultima Costituzione di quella nazione, promulgata il 15 giugno 2008, si afferma che il Kosovo e Metohija è parte integrante della Serbia e non se ne riconosce l’indipendenza. Le ragioni di questa “ostinazione” si spiegano con la storia secolare di quel popolo, per il quale le radici cristiano-ortodosse e i relativi riferimenti simbolici rimangono un fattore identitario ineludibile.

 

DOCETE OMNES GENTES. LA GEOPOLITICA DEL VATICANO
di Andrea Turi

Il ritorno del fattore religioso sulla scena internazionale ha portato al ripensamento delle relazioni tra Stati sulla base dell’inserimento dell’azione – morale e politica – esercitata dalle istituzioni religiose quale variabile primaria. Per il Cattolicesimo, l’elezione di Papa Francesco ha rinnovato l’interesse per gli affari vaticani e spinto a interrogarsi sul ruolo (geo)politico della Chiesa di Roma, che in questo scritto (breve e senza presunzione di essere esaustivo) viene trattato in una prospettiva storica: partendo dalle origini sino ad arrivare ai recenti sviluppi, analizziamo i ripetuti spostamenti spaziali, geografici e politici che hanno caratterizzato l’evoluzione della Chiesa Cattolica.

 

LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI IN SIRIA E IN IRAQ
di Mahdi Darius Nazemroaya

Le linee di confine di quelle che vengono percepite e presentate come aree di diverse civiltà sono spesso artificiali. La persecuzione dei cristiani della Siria e dell’Iraq è finalizzata ad eliminare la funzione dell’Asia sudoccidentale quale ponte fra diverse civiltà e a tracciare una invalicabile linea di frontiera tra il mondo islamico e quello cristiano, nel quadro della strategia statunitense dello “scontro delle civiltà”.

 

PROTESTANTESIMO E OCCIDENTE
di Aldo Braccio

La rappresentazione dell’Occidente imposta dall’egemonia statunitense e supinamente accettata dall’Europa prevede generalmente l’adozione di una mentalità laica e secolarizzata, alla cui formazione hanno però contribuito l’etica protestante e particolarmente la dottrina delle chiese riformate di impronta calvinista e puritana. Si tratta di una contraddizione solo apparente, perché tali disposizioni di carattere religioso hanno determinato l’adozione di comportamenti e di stili di vita contraddistinti dall’affermazione del primato dell’economia e dalla ricerca del successo mondano, nonché da quella “autonomizzazione dell’individuo” che è alla base dell’individualismo moderno. Indipendentemente dal giudizio che si voglia dare complessivamente sulla Riforma luterana e singolarmente sulle diverse declinazioni del protestantesimo, l’importanza degli apporti considerati ci sembra costituisca un tratto caratteristico di quella entità geopolitica strumentale e ambigua denominata Occidente.

 

DEUS VULT. SETTE PROTESTANTI E IMPERIALISMO STATUNITENSE
di Alessandra Colla

La particolare aggressività dell’imperialismo statunitense è sempre stata una caratteristica della “Nazione sotto Dio”, a partire da quando i primi emigranti inglesi sbarcarono sulla costa atlantica dell’America settentrionale per impiantarvi quelle che sarebbero poi divenute le Tredici Colonie. Motivato da solidi agganci nella tradizione veterotestamentaria, riportata in auge dalle sette protestanti e in particolare dal Puritanesimo, l’espansionismo americano ha assunto ben presto caratteri messianici che nel corso del tempo l’hanno reso, più che una minaccia, un pericolo concreto per il mondo libero.

 

L’ISLAM COME CONTROCULTURA AMERICANA
di Kevin Barrett

Mentre la maggior parte dei musulmani americani è costituita di immigrati di prima, seconda o terza generazione, in America c’è una comunità islamica vecchia di secoli, quella afroamericana, che si ritiene rappresenti un terzo o anche una metà della popolazione musulmana d’America. Di solito questa comunità viene trascurata da chi si occupa dell’Islam americano: o per motivi d’ordine razziale o per la volontà di presentare l’Islam come un fenomeno straniero e non americano. Eppure nell’Islam statunitense i musulmani afroamericani costituiscono il gruppo di gran lunga più numeroso.

 

I FONDAMENTI TEOLOGICI DELL’IMPERIALISMO SIONISTA
di Gian Pio Mattogno

Il Sionismo non è solo “nazionalismo ebraico”. Ridurre l’ideologia sionista ad una mera questione di politica territoriale è un errore politico, storico e storiografico. Anche se il Sionismo è un fenomeno moderno, le sue radici più autentiche vanno rinvenute nella Bibbia ebraica, nel Talmud e nella letteratura rabbinica. L’imperialismo sionista è una conseguenza dei principi fondamentali della religione giudaica e delle aspirazioni messianico-imperialistiche di Israele. Il suo obbiettivo specifico immediato è la pulizia etnica della Palestina (imperialismo regionale), ma esso mira soprattutto a spianare la strada all’avvento del “Messia” e all’impero universale di Israele.

 

UNA SETTA SIONISTA IN UNGHERIA
di Ábel Stamler

A partire dagli anni Duemila, la setta neoprotestante “Chiesa della Fede” (Hit Gyülekezete) esercita sulla vita politica ungherese una tale influenza che, senza una conoscenza dei suoi orientamenti fondamentali, la politica interna ed estera dell’Ungheria sarebbe alquanto incomprensibile. La setta, dichiaratamente sionista, esercita sui governi ungheresi una pressione univoca a favore di una sempre più stretta dipendenza da Israele e dagli Stati Uniti. La Chiesa della Fede, che agisce dal 1979, in seguito all’approvazione della nuova legge sulle comunità religiose (2011), si è venuta a trovare sullo stesso piano della Chiesa Cattolica Ungherese, della Chiesa Riformata d’Ungheria e della Chiesa Evangelica d’Ungheria, delle quali è indiscutibile l’importanza storica nel Paese danubiano. Ciò è dovuto ad un parlamento in cui è largamente maggioritario il Fidesz, un partito conosciuto come conservatore e di destra.

 

INTERVISTA A GUGLIELMO DUCCOLI
a cura di Aldo Braccio

Esperto in materie storiche, Guglielmo Duccoli ha legato il suo nome alla direzione editoriale di riviste quali “Civiltà” e “L’Illustrazione Italiana”, di cui ha anche curato la ricerca e la digitalizzazione della collezione storica completa. Attualmente collabora al “Progetto Sinapsi” del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale digitale delle biblioteche e degli archivi italiani.

 

RECENSIONE di Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica, di Aleksandr Dugin e Alain de Benoist
a cura di Giacomo Gabellini

Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica è un saggio di grande spessore sia sotto il profilo filosofico-culturale che sotto quello geopolitico-strategico, perché spiega in maniera piuttosto esauriente i presupposti, i contenuti e le finalità che l’eurasiatismo si propone di ottenere, smontando un pezzo alla volta le teorie statunitensi riguardo alla cosiddetta “fine della storia”, che secondo i suoi promotori avrebbe inesorabilmente fatto scivolare il pianeta verso un ordine mondiale democratico e liberale.

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VERSO UNA GEOPOLITICA ITALIANA: IL PENSIERO EUROMEDITERRANEO E LA LEZIONE EURASIATICA

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Dove nasce la geopolitica

Il percorso storico, politico e strategico che lega quanto avevamo detto nei precedenti studi sui popoli arabi e sugli altri “popoli-ponte” della geopolitica eurasiatica(1) – turchi, iranici e slavo-russi – non può che concludersi nel cuore del bacino mediterraneo, sulla dorsale della Penisola Italiana. Una proposta di idea geopolitica e di visione strategica del ruolo del nostro paese non può che prendere le mosse da una presa di coscienza della sua natura e della sua storia in quanto definitiva cerniera non solo tra Oriente ed Occidente ma anche tra Nord e Sud. Abbracciando i quattro punti cardinali il nostro paese si trova nella posizione di poter scegliere se elevare il proprio ruolo oppure lasciarsi trascinare in uno e uno solo dei molteplici schieramenti di conflitto tra potenze, riducendosi a mera pedina. Una dottrina ed una strategia delle relazioni internazionali non può prescindere da una visione geopolitica organica che a propria volta non può che derivare dall’autocoscienza della propria storia e della propria cultura. Le più grandi potenze hanno avuto modo di compiere questo percorso: l’Inghilterra vedendosi come l’Isola per eccellenza, base di partenza di mercanti e centro finanziario del mondo, la Germania come potenza continentale e industriale che ha nell’essere il cuore della mitteleuropa la propria essenza di Stato di terraferma, così come la Russia è il grande ponte dell’Eurasia ed uno degli alvei privilegiati delle nuove ed antiche rotte transcontinentali. L’Italia? E’ marittima o terrestre? Siamo mercanti o produttori? Dobbiamo valicare i monti o attraversare il mare? Siamo solo latini e greci o il nord ha vissuto un apporto germanico e celtico così come il sud quello arabo? Con chi tessere relazioni e dove commerciare? Quali le nostre aree di sviluppo?

L’Italia euromediterranea

Se dal punto di vista geografico i governi Crispi e Mussolini intuirono le potenzialità mediterranee del paese – e non solo sul piano coloniale e militare – i governi democristiani e socialisti e della Seconda Repubblica non hanno mai trascurato di tutelare l’interesse nazionale nel Mare Nostrum senza appiattirsi sul comodo atlantismo, sul banale occidentalismo. Per descrivere gli interessi italiani esterni allo spazio immediatamente occidentale basta un solo dato: il 17,6 % di tutto il gas acquistato nel 2012 dall’ENI da società consolidate proveniva da Algeria e Libia, quota seconda solo al 34,5% proveniente proprio dalla Russia (2). Quando l’Italia ha avuto coscienza della propria natura euromediterranea ha trovato la via della prosperità. Quando ha scelto di guardare solo ad un’Europa continentale della quale non può geograficamente far parte in modo esclusivo ecco che ha subito la sudditanza di attori più forti e più radicati in quel contesto – non solo la Francia ma soprattutto la Germania. La Roma che dominò il Mare Nostrum venne sconfitta a Teutoburgo, il Duce che imbracciò in Libia la spada dell’Islam commise l’errore – partendo da essere mediatore autorevole tra Churchill e Hitler – di unirsi alla sola Germania, nazione che per semplice posizione dominerà come ha sempre dominato il Nord delle Alpi. Nondimeno l’Italia commercia massicciamente con la Germania, la Francia e il Benelux. Nondimeno essa non solo è terra europea: ha fondato l’Europa – e non parlo della sovrastruttura burocratica dell’UE, ma dell’Europa come civiltà, da Roma al Barocco passando per San Benedetto al Rinascimento. Siamo la culla dell’Occidente cattolico, ma siamo stati, da Venezia alle odierne relazioni con la Russia, una porta verso l’Oriente. Economicamente, politicamente e culturalmente il peggior sbaglio che possiamo compiere è quello di consacrarci ad un solo campo di gioco (Nord o Sud, Est o Ovest). Prescindere da Francia e Germania ci sarebbe fatale come prescindere dal Mediterraneo e dalla Russia.

La cultura Italiana nella coscienza politica del Paese

Molto si è detto sulla necessità di “fare gli italiani”, divisi dai regionalismi per lingua e mentalità. Ebbene, per tacere del passato comune, della base neolatina dei suoi dialetti e dell’innato spirito comunitario di tutta la nostra cultura nazionale, è proprio questo regionalismo la nostra peculiarità positiva. Lo Spazio della Pianura Padana può giovarsi di una propria sottogeopolitica mitteleuropea, area della quale Genova e Trieste sono gli sbocchi sul mare (mentre i porti del sud hanno spesso natura intermodale, i porti del Nord servono un entroterra industriale)(3). Il Sud è il nostro vero braccio mediterraneo, il Centro il collo che unisce queste due teste (e in modo fertile, si pensi alla cultura toscana). L’identità regionale, se valorizzata e non vissuta come frazionismo (tutti abbastanza forti da dividere e nessuno abbastanza forte per unire penserebbe Machiavelli) è un punto di forza. L’identità territoriale italiana è data dai mille campanili – circa 8000 municipalità – diffusi nel nostro paese, un fattore identitario, forte, vitale, immediato e capace di mobilitare un volontariato che ha scarsi eguali nel resto d’Europa(4). Il localismo italiano si fa imprenditorialità – opposta all’assistenzialismo generato da stati più forti e presenti ma che rischia di inibire l’operosità dei cittadini. La vera sfida sta nel fare sistema. Anche e soprattutto al Nord, questo passaggio vantaggioso si è avuto con l’Unità Nazionale; ciò ribadito, il patriottismo laico non deve portarci a scordare la virtù che sottende al volontariato italiano: il fattore unificante del cattolicesimo. Come nella Russia di Putin avanza una lettura dell’Ortodossia come fattore identitario, in Italia dobbiamo registrare che il Cattolicesimo è uno dei ponti naturali che possono portarci a superare le differenze regionali. Il patriottismo laico ha dato tantissimo all’Unità Nazionale ma si è trattato di una costruzione calata dall’alto e dalle classi intellettuali liberali. Il fascismo ha provato a renderlo “popolare” ma non è riuscito a superare – e nemmeno ha ritenuto saggio o anche solo possibile riuscirci – lo spirito cattolico del popolo italiano. La contaminazione del pensiero sociale cristiano ha positivamente raggiunto anche i comunisti italiani, simbolicamente partendo dal voto a favore all’inserimento del riferimento al Concordato nella Costituzione voluto da Togliatti. Lo spirito cooperativista e sociale pur nelle rivalità ha costituito un comune dato culturale tra comunisti e cattolici. La sintesi di questa dottrina è un originale “socialismo cristiano” popolare che non è estraneo all’eredità e alle migliori intuizioni del corporativismo e della programmazione economica del Ventennio. Questa vera e propria “ideologia nazionale implicita” – che qui proviamo a sintetizzare – costituisce l’originalità dell’Italia. Tramontata nel pragmatismo togliattiano l’idea di una rivoluzione proletaria, il PCI ha intrapreso la ricerca di una via al socialismo che sposasse il carattere nazionale del paese – felice idea già di Stalin, di Mao e dei terzomondisti come Che Guevara e Castro, tutti estranei all’astrattismo e all’avventurismo trotzkista. Lo spirito cooperativo, sociale e comunitario, la massiccia presenza delle istituzioni cattoliche nel tessuto sociale, unitamente alla forza delle comunità locali è fattore premiante anche nell’integrazione degli stranieri: in contesti umani costituiti da piccoli centri e non dalle alienanti periferie (di metropoli alienate), l’assimilazione e l’integrazione divengono processo lento ma umano. Il ritorno di fiamma del gihadismo nelle seconde e terze generazioni di immigrati musulmani in Europa pone il tema della ricerca di un’identità e di una missione di vita per la persona che la liberaldemocrazia occidentalista, distruttrice delle identità e della socialità e teorizzatrice dell’individualismo, non saprà mai dare, come invece può un’italianità gelosamente attaccata a radici tradizionali dal volto umano e non esclusivo. Il miope attacco laicista, liberaldemocratico e capitalista, politicamente corretto ed occidentalista all’Italia popolare è diretto quindi al suo cuore: il cattolicesimo nazionale. Si attacca la Chiesa asserendo l’insostenibilità per lo Stato delle sovvenzioni alle strutture cattoliche o delle esenzioni fiscali. Nessuno indica la positiva ricaduta – anche immediatamente “monetaria” e quantificabile – per la socialità della fonte di aggregazione che chiese, studentati, ospedali, scuole e oratori costituiscono nelle periferie e nei piccoli centri, fornendo servizi e integrando anche giovani stranieri di differente religione. Sapere che ad esempio il 25% dei ragazzi frequentanti gli oratori milanesi è di fede islamica (5) può suggerire una fertile riflessione sull’integrazione degli immigrati musulmani e la loro apparente minore sensibilità alle sirene fondamentaliste. Chiude il cerchio sapere che sempre in prima file negli attacchi e nelle campagne anticattoliche vi è il Partito Radicale, pacifista tranne quando si tratta di sganciare bombe sui nemici dell’America, atlantista fino al midollo e molto probabilmente collegato al magnate americano Soros (6), grande sponsor delle Rivoluzioni Colorate nello spazio russo.

 

Conclusioni: il metodo geopolitico

Questo tentativo di delineare nel modo più breve possibile un’ organica ”ideologia italiana” è la base per riflettere sull’identità nazionale e sulla geopolitica del nostro paese per delinearne la strategia. Solo una volta individuate le specificità storiche, geografiche, politiche e culturali dell’Italia potremo ambire a idearne una visione. Tale è la lezione metodologica di Aleksandr Dugin: prima la cultura e la storia, poi la geopolitica e la strategia. Una riflessione strategica completa ed organica, scevra da pregiudizi: valorizzare quanto di positivo vi era nelle intuizioni mediterranee di Mussolini non può e non deve scandalizzare così come non può e non deve scandalizzare l’accostamento alle intuizioni strategiche di Togliatti, a quelle tradizionali, contadine ed anticonsumistiche di Pasolini, a quelle culturali di Gramsci, a quelle geoeconomiche di Enrico Mattei, a quelle sociali del mondo cattolico. La lezione di Dugin e dell’eurasiatismo deve essere appresa fino in fondo: a Mosca il riconoscimento – pur nella critica – dei meriti di Lenin e Stalin va di pari passo con la tutela dell’eredità culturale dell’Ortodossia. La russità è la sintesi di questi opposti così come l’italianità la sintesi di quelli. Da ciò è derivata l’autocoscienza eurasiatica della Russia, da ciò potrà derivare quella euromediterranea dell’Italia.

Note

1. http://www.eurasia-rivista.org/le-nazioni-ponte-dello-spazio-eurasiatico/19870/
2. http://www.eni.com/it_IT/azienda/attivita-strategie/gas-power/approvvigionamenti-gas/approvigionamenti.shtml. Sui rapporti tra ENI e Russia http://www.eni.com/it_IT/eni-mondo/pdf/federazione-russa-attivita.pdf.
3. Paolo Sellari, “Geopolitica dei trasporti”, 2013 Laterza
4. Francesco Billari e Gianpiero della Zuanna, “La rivoluzione nella culla”, 2008 Università Bocconi
5. http://www.lastampa.it/2014/01/18/blogs/san-pietro-e-dintorni/milano-oratori-islamici-dxBsa1B48SoWNvIRuLm0KL/pagina.html
6. http://radicali.it/rassegna-stampa/pannella-assolda-persino-soros-pianta-cannabis-alla-camera

Bibliografia
Aleksandr Dugin, “Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia”, 2004, Nuove Idee
AA.VV. Eurasia, rivista di studi geopolitici. Anno 2012 Vol.2: “Italia: 150 di una piccola grande potenza”
AA.VV. Limes, rivista italiana di geopolitica. Anno 2013 Vol.4: “L’Italia di nessuno”
Carlo Jean, “Geopolitica del mondo contemporaneo, 2012 Laterza
Costanzo Preve, “Elogio del Comunitarismo”, 2006, Controcorrente
Filippo Pederzini, “Aleksandr Dugin in Italia”, 2005, Online su Eurasia ( http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EEEZuZkZFkGkDmlpnh.shtml )

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BRASILE, UN’ELEZIONE CRUCIALE

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L’ascesa al potere di Hugo Chavez in Venezuela nel 1999 apre una nuova fase storica in America Latina. Da allora, tutte le elezioni presidenziali nella regione hanno trasmesso (e ci trasmettono) lo stesso sentimento: incertezza per quanto riguarda la continuazione del progetto di unità regionale. Pertanto, molte volte siamo stati esposti a questa situazione, dove ha trionfato la conferma della scelta unitaria.
La scelta di Sebastián Piñera è stato un banco di prova. Fu una svolta a destra ma senza convincere nessuno, e oggi Michel Bachelet dirige di nuovo i destini del Cile. Sebbene abbiamo avuto altre situazioni che hanno evidenziato una resistenza al nuovo corso storico – tenere a mente il colpo di stato in Paraguay (2012) o la crisi istituzionale in Bolivia, tra le altre – nella maggior parte degli stati ancora governa una classe politica che crede nell’unità regionale.

Anche quest’anno alcuni paesi sono subordinati al processo democratico, ma soprattutto uno concentra maggiormente l’attenzione: il Brasile. Un cambiamento politico lì significherebbe un duro colpo al progetto di unità dei popoli. Le elezioni del 5 ottobre e l’eventuale ballottaggio sono cruciali non solo per i brasiliani.
Per il diplomatico brasiliano Pinheiro Guimaraes – uno dei progettisti della politica estera di Lula da Silva e Dilma Rousseff – le linee guida stabilite dalla candidata Marina Silva (Partito Socialista), principale avversario della Rousseff (Partito dei Lavoratori), implica chiaramente un cambiamento di direzione, e in termini della politica estera, intraprenderebbe una strategia vista favorevolmente dagli Stati Uniti. Il programma della Silva contiene tutte le varietà di ingredienti che Washington desidera ardentemente.

Una politica estera alla carta

Se pensiamo la politica estera schematicamente come un triangolo, nel vertice superiore e come acciarino di tutto l’universo di relazioni, per Silva sono i legami con gli Stati Uniti. Nella campagna elettorale, la candidata socialista ha detto che di essere eletta migliorerebbe le relazioni con gli Stati Uniti. Ha respinto le questioni relative lo spionaggio della National Security Agency ai cui diversi funzionari governativi sono stati sottoposti, ma senza dubbio crede che è necessario voltare pagina e sbrinare i collegamenti con il principale paese del continente. Attualmente i rapporti sono paralizzati da questo fatto, anche se è noto che l’attrito proviene dal governo di Lula quando il Brasile cessò il profilo sottomesso tipico degli anni ‘90.
Nel secondo vertice del triangolo ci sono i legami regionali. Chiaramente l’alleanza strategica con Cuba e Venezuela è incompatibile con il primo asse della politica estera. Marina è stata esplicita e su di esso ha usato le argomentazioni classiche della destra: il Brasile dovrebbe promuovere i diritti umani. Anche in relazione a Cuba ha detto che deve diventare una democrazia. La storia ci ha già dimostrato che questo stile retorico riguarda piuttosto un uso ideologico e non tanto una convinzione.

Sullo stesso livello appare il Mercosur, poco aperto al mondo secondo il suo gusto. Guimaraes afferma che un modo di indebolire lo schema sarebbe quello di rimuovere la clausola che impone agli stati parte di negoziare congiuntamente accordi di libero scambio (ALS) con altri blocchi. Così, si aprirebbe la strada per la firma di un ALS con l’Unione Europea (UE). Tuttavia, se la clausola rimane in vigore, sarebbe altrettanto negativo un accordo di libero scambio del blocco con l’UE, il quale attualmente avanza lentamente (1). Un altro correlato dei cambiamenti nella politica nei confronti del Mercosur sarebbe un avvicinamento all’Alleanza del Pacifico (Formata da Messico, Colombia, Perù e Cile) e rimane incerto il ruolo che avrebbe l’UNASUR.

Infine, l’ultimo capitolo corrisponde al blocco BRICS, il contrappeso all’unilateralismo americano e ai suoi alleati occidentali. In base al primo vertice è chiaro che dovrebbero essere riveduti tutti gli sforzi fatti da Dilma per rafforzare l’unità dello spazio. Nel programma politico Silva dedica solo minime linee al BRICS senza considerarlo come un impegno strategico. È poco probabile che sotto le bandiere della difesa dei diritti umani, liberalizzazione degli scambi, e ottimi collegamenti con gli Stati Uniti, la partecipazione del Brasile nel blocco sia per controbilanciare l’egemonia di Washington.

I risultati delle elezioni del 5 ottobre, o come molti esprimono, del ballottaggio del 26 dello stesso mese, possono danneggiare il progetto di unità regionale, ma anche lasciare impotente al Brasile. Nonostante sia una delle più grandi economie del mondo, il Brasile non è ancora un global player. È chiaro che le grandi potenze sono riluttanti all’ingresso di nuovi soci nel club ed il Brasile senza sostegno regionale avrà maggiori difficoltà. Indebolire il Mercosur (e in particolare il legame con l’Argentina), perdere l’area di influenza che proietta Unasur, ed erodere la forza che porta ai BRICS, complicherebbe non solo l’unità regionale attuale, ma anche la possibilità del Brasile di eseguire un progetto politico nazionale con autonomia. Le urne parleranno.

Maximiliano Barreto (Universidad Nacional de Rosario, Argentina)

NOTE
(1) “Marina Silva busca debilitar el Mercosur” in Página 12. 10 settembre 2014, pag. 22-23. Buenos Aires.

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QUALE FINLANDIZZAZIONE?

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La crisi ucraina ha riportato l’Europa nell’anticamera della Guerra fredda. Non siamo alle soglie della terza guerra mondiale, ma la tensione tra i Paesi della NATO, unitamente a quelli che ad essa fanno riferimento, come appunto l’Ucraina, da una parte e la Russia post-sovietica dall’altra è altissima. La Finlandia, spinta dal nuovo primo ministro Alexander Stubb, notoriamente filo-NATO, come lo è da tempo il suo partito, il Kokoomus, ha firmato il 4 settembre in Galles un accordo di collaborazione con la NATO. A Turku sono arrivate le navi delle marine atlantiche, suscitando solo una modesta, per numero di partecipanti, dimostrazione di protesta da parte della sinistra pacifista ed ex comunista. In virtù dell’accordo firmato dal governo Stubb, le esercitazioni NATO potranno avere luogo anche in Finlandia e le truppe atlantiche, ovviamente comprese quelle statunitensi, potranno entrare nel territorio finlandese in un periodo di crisi. Come ricorda un comunicato stampa a cura dell’Ambasciata di Finlandia a Roma, “La collaborazione si basa sull’intesa tra ambedue le parti. La NATO non potrà dispiegare le proprie forze in Finlandia senza una richiesta da parte del governo finlandese”, magra consolazione questa, aggiungiamo, per chi teme che la neutralità finlandese, su cui dal 1945 si è basata la politica estera di questo Paese in base alla cosiddetta “dottrina Paasikivi-Kekkonen”, sia definitivamente tramontata. In sostanza infatti ora le forze NATO potranno esercitarsi in territorio finlandese, quindi praticamente a ridosso del confine nord-orientale della Russia. La NATO, se vorrà intervenire in quella che a suo giudizio è una crisi, per farlo avrà bisogno solo di una formale autorizzazione, che non le sarà difficile ottenere dagli atlantisti di Helsinki.

L’esercito finlandese nel frattempo potrà addestrarsi insieme alle truppe NATO, come sta già facendo da tempo, e usufruire della tecnologia militare e dei materiali bellici dell’Alleanza. Non ci sarà comunque un dispiegamento permanente di basi NATO in Finlandia, come non ci sarà in Svezia, il cui governo conservatore, da poco mandato a casa dagli elettori e quindi punito per la sua politica estera, oltre ovviamente che economica, ha firmato in Galles un uguale accordo.

Che la Finlandia fosse pian piano scivolata da una neutralità benevola nei confronti del vicino sovietico e poi russo verso una sempre più attiva collaborazione con l’Alleanza atlantica non è cosa di ieri, avendo stabilito un rapporto di collaborazione che risale già al 1994 (Partnership for Peace), in base al quale la Finlandia, che in precedenza mandava le sue missioni militari all’estero solo nell’ambito di una operazione ONU, può ora partecipare alle missioni della NATO, come ha fatto in Kosovo (KFOR) e Afghanistan (ISAF). Ufficiali finlandesi hanno rivestito negli ultimi anni incarichi, anche importanti, nell’ambito dei comandi NATO.

Ma, come nelle favole, possiamo dire ”c’era una volta…”. C’era una volta che la Finlandia era una buona amica della Russia pre-Putin, cioè dell’Unione Sovietica. Un’amica così fedele e obbediente che nelle lingue d’Europa si affermò un neologismo che a questa politica faceva riferimento: “finlandizzazione”. A partire dai primi anni Sessanta nel dibattito politico il verbo “finlandizzare” prese a significare (come indica il Nykysuomen sanakirja) “finire come la Finlandia nell’area di influenza sovietica” (”joutua Suomen tavoin Neuvostoliiton vaikutuspiiriin”). Il concetto di base e il termine in cui veniva tradotto ha la sua origine nella Germania Federale. Dalla Finnlandisierung si passò a Finlandisation, Finlandizzazione, Finlandisation e così via.

Si è molto discusso sull’origine del termine. Harto Hakovirta nel 1975 pubblicò uno studio il cui titolo ”Suomettuminen. Kontrollia vai rauhanomaista rinnakkaiseloa?” (Finlandizzazione. Controllo o convivenza pacifica?”) indicava già il nucleo della problematica. Era la Finlandia sottomessa politicamente all’URSS, o andava per la propria strada di concerto con essa senza provocare occasioni di crisi? Ricordiamo che la Finlandia aveva sottoscritto con l’Unione Sovietica il patto YYA (patto di amicizia, collaborazione e di reciproco aiuto in caso di aggressione) firmato nell’aprile del 1948 da Paasikivi e Stalin, che permetteva all’URSS un intervento qualora si fosse profilata per essa una minaccia da parte della Germania Federale o di un suo alleato. In realtà, qualsiasi minaccia militare sarebbe dovuta passare attraverso le basi statunitensi in Germania, quindi l’URSS, volendo, poteva appellarsi a questo trattato per intervenire militarmente in una qualsiasi occasione.

Il concetto di finlandizzazione è più antico del termine stesso. Nacque per merito (o demerito) del ministro degli esteri Austriaco Karl Gruber, il quale, nel 1953, aveva messo in guardia il proprio governo dal seguire l’esempio finlandese allorché si dovette definire il modo più opportuno per gestire i rapporti con l’Unione Sovietica. Il lessema nacque invece nel 1961. Il primo ad usarlo fu un professore statunitense di origine tedesca che insegnava presso la Libera Università di Berlino, Richard Löwenthal. La Finnlandisierung, o per i finlandesi suomettuminen, ebbe come termine del linguaggio politico una notevole fortuna a partire dal 1969 (1). Nella lingua italiana il termine compare la prima volta in un articolo di Guido Piovene del 1973 nel senso di “sovranità limitata” e il vocabolario Zingarelli lo registrò per la prima volta nel 1983 definendo il lemma: ”Finlandizzare, da Finlandia, nazione non dipendente dall’Unione Sovietica, ma sostanzialmente soggetta ad essa”.

Con finlandizzazione si sono volute indicare le “Condizione di neutralità condizionata di un Paese, in cui, per motivi geo-politici, è sottintesa la possibilità di una soggezione nei confronti di una grande potenza, in particolare dell’Unione Sovietica”. Nel francese, Le grand Robert riporta finlandisation nel 1985, dieci anni dopo la prima registrazione lessicologica apparsa nel tedesco. Il termine è stato utilizzato anche in un senso più ampio, assumendo un significato metaforico più generale per indicare l’assimilazione senza contrasti di un concorrente, culturalmente o economicamente parlando.

Il concetto di finlandizzazione veniva guardato con interesse perché apriva nuove prospettive nei rapporti con l’URSS, in particolare a Bonn, dove Willy Brandt aveva lanciato la sua Ostpolitik, che apriva il dialogo con Mosca. Il termine assunse però presto una valenza negativa a causa dell’uso dispregiativo che ne fece Franz-Josef Strauss nella primavera del 1970 in occasione delle elezioni per il nuovo Bundenstag. Per Strauss, la Finnlandisierung non indicava soltanto una presunta politica di osservanza praticata dalla Finlandia nei confronti del vicino, ma serviva anche ad indicare la possibilità che anche altri Paesi d’Europa si prestassero alla manovra neutralista sovietica indebolendo di conseguenza la compattezza della NATO.

Il termine suomettuminen è improvvisamente tornato in uso, sempre nel significato originario, in occasione del ritiro dei Verdi dal governo Stubb a metà di settembre. In merito alla vicenda Fennovoima, riguardante la politica energetica della Finlandia, i Verdi hanno infatti tolto il loro appoggio a Stubbs accusandolo di eccessiva osservanza nei confronti della Russia di Putin a causa della partecipazione di questa alla politica energetica attuata tramite la Fennovoima, la società finlandese per lo sviluppo nucleare, che agisce con capitali anche russi. Questa rinnovata accusa di eccessivo ossequio nei confronti della Russia appare onestamente poco credibile, conoscendo le aspirazioni atlantiste del primo ministro e del suo partito, nonché di quasi tutti i suoi alleati di governo.

Abbiamo dunque due diverse possibili applicazioni della finlandizzazione: una, più recente, si riferisce al rapporto benevole nei confronti della NATO senza che la Finlandia ne faccia giuridicamente parte, e l’altra invece riguarda un comportamento eccessivamente amichevole, in epoca di crisi ucraina, con la parte opposta, la Russia. In realtà non c’è alcuna possibilità di un ritorno ad una politica compiacente nei confronti di Mosca, anche se le sanzioni promosse contro di essa da Sati Uniti e Unione Europea stanno provocando gravi danni all’economia finlandese, sia nelle esportazioni, soprattutto di prodotti alimentari, che nel turismo (i russi rappresentano il maggiore cespito di guadagno in questo settore). Per una Finlandia che sta sentendo, seppur in ritardo rispetto ai Paesi mediterranei, il peso della crisi economica, le sanzioni sono una vera iattura, come, seppur in maniera indiretta, ha testimoniato il ministro degli esteri, il socialdemocratico Erkki Tuomioja, che non ha esitato a manifestare il suo dissenso. La Russia, fino ad ora, si è comportata in maniera niente affatto minacciosa, ma qualche segno di avvertimento lo ha dato, intensificando i controlli doganali su alcuni prodotti e violando, seppur per pochi minuti, lo spazio aereo finlandese. Insomma, chi ha orecchi per intendere, intenda, è il messaggio di Putin alla vicina Finlandia.

In ogni caso non c’è alcun segno che la Russia intenda perseguire una politica aggressiva nei confronti della Finlandia, cosa purtroppo non recepita o mal recepita dalla maggioranza dei finlandesi, che nel loro DNA conservano una atavica diffidenza e paura nei confronti dei Russi, come, purtroppo, succede anche negli altri Paesi baltici. Insomma, il “caso Ucraina”, terra di riferimento per la Russia, basti pensare a Kiev, che ne fece la storia per un lungo periodo, dove vive una forte comunità russofona, non ha alcun rapporto con la Finlandia. E, sarebbe opportuno chiedere ai finlandesi, vorrebbero costoro rischiare di essere coinvolti in una guerra mondiale a causa delle intemperanze e dell’avventatezza di ucraini, baltici o polacchi che, appoggiati dagli Stati Uniti e dalla NATO, portano la provocazione militare e strategica ben oltre i confini dell’antica Unione Sovietica? Sarebbero disposti i finlandesi a morire per la Crimea, visto che nessuno è voluto morire per la Carelia?

Se ne avessi la possibilità, darei un consiglio a Vladimir Putin: perché non restituisce alla Finlandia una parte della Carelia ex finlandese, con la promessa di cedergli poi Viipuri se conserverà la sua neutralità? Sarebbe interessante vedere come, di fronte a una tale proposta, muterebbe la politica estera della Finlandia. Come potrebbe allora il governo del signor Stubb giustificare una politica filo-NATO?

I politici finlandesi si trovano in conclusione di fronte ad una scelta difficile. Coinvolti come oramai sono con la NATO. Ma farebbero bene a ricordare il saggio avvertimento dell’ex presidente finlandese Mauno Koivisto: “chi si inchina da una parte, mostra il deretano dall’altra”. Per la Suomi-neito (la “fanciulla Finlandia” come è comunemente rappresentata) si pone dunque un atroce dilemma. Ma speriamo che decida alla fine di restare eretta. Peraltro, mostrare il deretano non si addice ad una fanciulla di buone maniere.

*Luigi G. de Anna è Professore ordinario emerito di lingua e cultura italiana, università di Turku.

NOTE
1) Vedi di L. G. de Anna, Finlandizzazione. Un termine del linguaggio politico recente, Settentrio­ne, 3, 1991, pp. 30-35 e Finlandizzazione: semantica e storia di un concetto, Tras­gres­sio­ni, 14, gennaio-aprile, Firenze 1992, pp. 103-116, oltre a George Maude, The Further Shores of Finlandization, Cooperation and Conflict, 1982.

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CONSIDERAZIONI SULL’ISTITUTO DEL CALIFFATO E LA “GIUSTIZIA” NELL’ISLAM

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Alla luce dei recenti “rumori” riguardanti un “califfato” su parti dei territori di Siria ed Iraq, riteniamo utile ed interessante riproporre, anche a beneficio dei lettori del sito di “Eurasia”, l’articolo di Enrico Galoppini – redattore della rivista – Considerazioni sull’istituto del Califfato e la “Giustizia” nell’Islam, pubblicato sul numero 4/2007 (pp. 35-44).

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L’IRAN IN EUROPA

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(…) Albin Persae
Rhenumque bibunt (…)
(Seneca, Medea, 373-374)

“Sorelle di sangue, di una medesima stirpe”

Si dice che Ciro sia nato da Cambise, re dei Persiani; questo Cambise era della stirpe dei Perseidi e i Perseidi derivano questo nome da Perseo.
(Senofonte, Kyrou paideia, II, 1)

Nei Persiani di Eschilo, la regina madre Atossa racconta ai Fedeli della corte reale di aver visto in sogno suo figlio Serse che stava aggiogando ad un carro due donne in contesa tra loro, una delle quali era avvolta in panni persiani, mentre l’altra indossava l’abito dorico.

Mi parve che due donne ben vestite,
l’una abbigliata in pepli persiani
e l’altra in pepli dorici, si offrissero alla vista,
per statura assai più insigni delle donne attuali,
per bellezza irreprensibili e sorelle di sangue, di una medesima
stirpe; come patria, abitavano una l’ellenica
terra, avendola ottenuta in sorte, e l’altra quella dei barbari (vv. 181-187) (1).

La donna abbigliata in pepli dorici, che contende con quella in pepli persiani e rifiuta l’imposizione del giogo facendo cadere a terra il Gran Re, può simboleggiare Atene, vittoriosa a Salamina sulla flotta persiana. Come testimoniato da Erodoto (V, 88), il chitone dorico era diventato un abito femminile panellenico; al tempo in cui furono rappresentati I Persiani, infatti, oltre al chitone ionico (lungo fino ai piedi e fornito di maniche) le donne ateniesi indossavano anche il chitone dorico (corto e privo di maniche). Eschilo avrebbe menzionato l’abito dorico “perché le donne greche d’Asia, ma anche le persiane (…) indossavano il chitone ionico, che era pertanto inadatto a differenziare l’abito delle donne greche da quello delle donne persiane” (2). Ma la donna abbigliata in pepli dorici potrebbe benissimo indicare profeticamente “i Dori peloponnesiaci, che un anno dopo Salamina sconfiggeranno l’esercito terrestre dei Persiani” (3). In ogni caso, la visione notturna della regina allude al vano tentativo di Serse di pacificare un conflitto insorto fra due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe” (kasignéta ghénous tautoû), entrambe stanziate sulla “terra dei padri” (pátra): l’una in Grecia e l’altra in “terra barbara” (gaîa bárbaros). Questo sintagma non implica alcun giudizio negativo, ma indica semplicemente un paese in cui non si parla greco: “come fosse un poeta arcaico – come Omero – Eschilo mostra qui di non conoscere il ‘barbaro’ della propaganda nazionalista, dell’oratoria e della storiografia” (4). D’altronde, “ritenere che i normali rapporti quotidiani fra greci e persiani fossero segnati e condizionati dai luoghi comuni sui barbari che ritroviamo nella tradizione ellenica darebbe un’immagine completamente errata di quei rapporti” (5); ed anche nel 472, mentre la tragedia eschilea dei Persiani trionfava ad Atene, “i confini tra la lega navale attica e i territori persiani nell’Asia minore occidentale erano molto più permeabili di quanto spesso si è ritenuto” (6). Tuttavia, col “sorprendente riferimento di Eschilo alla Persia e alla Grecia in guerra tra di loro come (…) ‘sorelle di sangue, della medesima progenie’” (7), i Persiani ci appaiono nella prospettiva di una straordinaria familiarità col mondo ellenico; viene infatti riaffermata quella nozione dell’affinità fra Greci e Persiani che nella parodo dei Persiani è stata proposta attraverso l’indiretta evocazione della figura di Perseo, antenato comune dei due popoli:

Irruente sovrano dell’Asia popolosa,
sospinge la mandria divina su ogni regione,
per due vie, confidando in saldi e duri condottieri
di terra e di mare, l’eroe pari agli dèi disceso d’aurea progenie (vv. 73-80).

Il sovrano in argomento è Serse, la stirpe del quale è detta da Eschilo “aurea”, in quanto la famiglia degli Achemenidi indicava il proprio capostipite in Perse, figlio di Perseo e di Andromeda; e Perseo era nato da Danae, che Zeus aveva ingravidata trasformandosi in pioggia d’oro. La discendenza dei Persiani da Perse è attestata anche in Erodoto: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome” (Erod. VII, 61, 3). I nomi di Perseo e di Perse richiamano a loro volta quello di una delle ninfe che Teti partorì ad Oceano: Perseide. Esiodo la cita assieme alle sue sorelle, tra le quali troviamo Europa ed Asia (Theog., 337-361). Il vincolo che lega Greci e Persiani viene così ad inquadrarsi nel rapporto di parentela che unisce l’Europa all’Asia.
Quanto agli Achemenidi, probabilmente non è casuale l’omonimia che lega i discendenti del persiano Hakhamanish al greco Achemenide, il compagno di Odisseo che, incontrato da Enea su una spiaggia della Sicilia, prima di essere raccolto dall’eroe troiano gli si presenta con queste parole: “Sum patria ex Ithaca, comes infelicis Ulixi, – nomine Achaemenides” (Aen., III, 613-614). Ai lettori romani dell’Eneide doveva pur dire qualcosa il fatto che il pater Aeneas avesse imbarcato con sé un greco che portava lo stesso nome della dinastia fondata da Ciro il Grande.

Gli Sciti

Campestres melius Scythae,
quorum plaustra vagas rite trahunt domos, vivunt (…)
(Orazio, Carmina, III, 24, 9-11)

Nella geografia europea, uno degli elementi che più visibilmente attestano la parentela tra l’Europa e l’Asia, e in particolare tra l’Europa e il mondo iranico, è l’idronimia della regione a nord del Mar Nero. Origine iranica hanno infatti i nomi del Prut (avest. pæræthu- “ampio” e pærætu- “guado”), del Dnestr (iran. *dânu-nazdyô “fiume vicinissimo, dal di qua”), del Dnepr (iran. *dânu-apara- “fiume posteriore, dal di là” oppure âpra- “acqua profonda”), del Don e del Donec (avest. dânu-, osset. don “acqua, fiume”). Il medesimo elemento iranico dan-/don- compare negli idronimi d’origine non greca che designano il Danubio (Duna, Donau ecc.), mentre l’antico nome della Volga attestato in Tolomeo, Rha, è anch’esso di origine iranica. Ma pure la più antica denominazione greca del Mar Nero, ossia Póntos Axeinos (in cui il malaugurante áxeinos, “inospitale”, fu poi mutato in éuxeinos, “ospitale”) rinvia ad un aggettivo iranico che significa “oscuro, nero” (cfr. avest. akhshaêna-) (8). In quella stessa regione, tracce iraniche si sarebbero conservate anche in alcuni toponimi romeni come Iasi ed altri (9).

Per circa un millennio le steppe del Mar Nero e una parte dell’Europa sudorientale furono abitate da popoli di lingua iranica. Iranici, infatti, affini ai Tocari e ai Massageti, erano quei popoli che, dopo essere usciti dall’Asia centrale e dopo aver cavalcato le steppe a occidente degli Urali, tra l’VIII e il VII secolo si affacciarono sulle rive del Ponto. I Greci li chiamarono Skythai, Sciti, nome che venne usato in modo estensivo: “come quello dei Celti o degli Etiopi, e per le stesse ragioni, nell’antichità il nome Sciti è servito talora a designare una massa umana poco definita: tutto quel che viveva, stanziale o nomade, a Nord-Est dell’esperienza greca” (10). Al tempo di Augusto, la generica menzione dei “popoli della Scizia” accomuna tutte le tribù barbariche stanziate tra il Mar d’Azov e il Danubio: “qua Scythiae gentes Maeotiaque unda, – turbidus et torquens flaventis Hister harenas” (Verg., Georg., III, 349-350). Insomma, il termine “Scizia” in greco e in latino “smise di indicare un particolare ceppo linguistico di nomadi indo-iranici: si allargò fino a comprendere un’intera regione del mondo e una cultura mista irano-ellenica che includeva i Greci del Mar Nero, i Traci, gli Sciti e anche i Sarmati” (11). Nel VI secolo, il basileus bizantino Maurizio annoverava tra i popoli sciti perfino i Turchi e gli Avari (12). La Scizia fu dunque la punta avanzata di un mondo nomade che si estendeva dalla Cina all’Europa lungo le vie carovaniere dell’Eurasia, per cui la civiltà scitica non fu molto diversa da quella dei Saci, che nel I millennio a. C. avevano popolato l’attuale Kazakhstan, finché, “col passare dei secoli, probabilmente, il legame diretto fra le due ali estreme del mondo nomade perse importanza rispetto ad altri rapporti, e mentre gli Sciti d’Europa gravitavano verso la Tracia e le città greche del Ponto, i Saci erano sempre più legati alla Persia achemenide e alla Cina” (13). Sicuramente l’arte dei Traci e dei Geti rivela influenze iraniche che si spiegano col contatto diretto di questi popoli con gli Sciti d’Europa, ma non escludono nemmeno eventuali influenze provenienti dal mondo achemenide.

La regione anticamente abitata dagli Sciti corrisponde a quella vasta zona delle attuali Ucraina e Russia meridionale che nell’ampio excursus del libro IV di Erodoto viene delimitata dal Danubio ad occidente e dal Don ad oriente, dall’arco nord-occidentale del Mar Nero a sud e dalla steppa sconfinata a nord. “Essendo la Scizia un quadrato, di cui due lati si estendono fino al mare, sono perfettamente uguali il lato che porta nell’entroterra e quello lungo il mare” (Erod. IV, 101); centro di quest’ultimo, sulla riva destra del Bug, fu Olbia, la quale, fondata tra il VII e il VI secolo da coloni milesii, fiorì fino a diventare il capoluogo di una vasta e popolosa regione agricola. Nella descrizione erodotea, la Scizia è “una pianura ricca d’erba e di acque e vi scorrono fiumi in numero non inferiore ai canali dell’Egitto (…): l’Istro dalle cinque foci, e poi il Tire e l’Ipani e il Boristene e il Panticape e l’Ipaciri e il Gerro e il Tanai” (Erod. IV, 47). L’Istro (Istros) è il Danubio, il Tire (Týres) è il Dnestr, l’Ipani (Hýpanis) è il Bug (14), il Boristene (Borysthénes) è il Dnepr e il Tanai (Tánaïs) è il Don, mentre difficilmente identificabili rimangono il Panticape (Pantikápes), l’Ipaciri (Hypákyris) e il Gerro (Ghérros).

Al tempo di Erodoto, i popoli che abitano la Scizia sono diversi tra loro. Tra l’Ipani e il Boristene vivono i Callippidi e gli Alizoni, che hanno costumi simili agli Sciti; al di là degli Alizoni, gli Sciti agricoltori, e più oltre i Neuri. Gli Sciti agricoltori “abitano verso oriente per tre giorni di cammino, fino ad un fiume che ha nome Panticape, e verso nord per undici giorni di navigazione sul Boristene; la regione che sta oltre è deserta per lungo tratto. Dopo il deserto abitano gli Androfagi, che sono un popolo a sé e per nulla scitico (…) Per chi attraversa il fiume Panticape, a oriente di questi Sciti agricoltori abitano ormai gli Sciti nomadi, che non seminano né arano” (Erod. IV, 18-19). Questi Sciti nomadi vivono su un territorio che si estende verso est per due settimane di cammino, fino al fiume di incerta identificazione che Erodoto chiama Gerro. “Oltre il Gerro – egli scrive – ci sono le regioni chiamate ‘regie’ e gli Sciti più valorosi e più numerosi, i quali ritengono che gli altri Sciti siano loro servi. (…) Al di là degli Sciti regi, verso nord, abitano i Melancleni, stirpe diversa e non scitica. La regione al di là dei Melancleni è costituita da paludi ed è deserta di uomini, per quanto ne sappiamo. Per chi attraversa il fiume Tanai, non c’è più Scizia, ma il primo tratto di territorio è quello dei Sauromati” (Erod. IV, 20-21), cioè dei Sarmati (15). A est del Tanai, fra tante popolazioni che non hanno a che fare con gli Sciti, ci sono i Geloni, che secondo Erodoto sono una stirpe per metà greca e per metà scitica: “In origine, i Geloni sono Greci che, emigrati dagli empori, si sono stanziati fra i Budini; ed usano una lingua in parte scitica e in parte greca” (Erod. IV, 108). Altre tribù scitiche si trovano presso gli Urali.

Intorno al 500 a.C. cominciano gli attacchi dei cavalieri sciti contro le terre dei Traci e degli Illiri; seguendo il corso del Tibisco e del medio Danubio, arrivano nel sud della Slovacchia, da dove partono all’attacco contro le culture sedentarie della Moravia, della Slesia, del Brandeburgo, della Polonia settentrionale. “Ma si farebbe loro torto a indicare negli Sciti installatisi nell’Europa centrale dei meri distruttori; qui come nell’Europa orientale, furono il mezzo di trasmissione di apporti che avrebbero in seguito improntato le civiltà slave e celtiche (16). Verso la metà del IV sec. a. C., l’arrivo dei Sarmati nelle steppe a nord del Ponto provocò una ritirata degli Sciti: alcune tribù si rifugiarono in Crimea, dove rimasero fino alla fine del II sec. a. C. Un altro gruppo, guidato dal re Ateas (Aertes), giunse al delta del Danubio e cercò di impadronirsi della Dobrugia, ma Filippo II di Macedonia ricacciò gl’invasori con una campagna militare che si concluse nel 334 con la morte del sovrano scita ormai novantenne. A sua volta, anche Alessandro Magno inviò contro di loro una spedizione punitiva. Una nuova ondata di Sciti si abbatté sulla Dobrugia alla fine del III secolo: le numerose monete ritrovate tra Kallatis e Odessos (le attuali Mangalia e Varna) riportano effigi di sovrani dai nomi tipicamente iranici (Ailios, Kanites, Sariakes, Tanusa, Akrosas, Charaspes), i quali “avevano obbligato le città greche della regione a pagar loro, in cambio della protezione militare, un tributo” (17). Di queste dinastie sappiamo poco o nulla; quello che si può dire è che “la persistenza di gruppi scitici sull’area della Dobrugia fino agli inizi della dominazione romana è confermata dalle indicazioni dei geografi” (18) romani, i quali chiamarono Scythia minor e provincia Scythia il territorio compreso tra il Ponto e l’ultimo tratto del Danubio. Per Ovidio, esiliato a Tomis al tempo di Augusto, anche quel territorio era Scythica regio (Epistulae ex Ponto, II, 1, 3), nonostante l’elemento scitico fosse scomparso dalla Dobrugia da circa un secolo. Ancora nel Trecento, Dante chiamerà scitiche le popolazioni dell’Europa settentrionale: “… Scythas, qui extra septimum clima viventes et magnam dierum et noctium inaequalitatem patientes, intolerabili quasi algore frigoris premuntur” (De Monarchia, I, xiv, 9).

Il popolo scitico scomparve dalla storia come realtà etnica autonoma, ma non senza lasciare un’eredità all’Europa. Le tracce più consistenti della sua cultura rimasero a lungo visibili in Russia, dove il retaggio scitico si manifestò negli usi funerari degli Slavi, nell’artigianato contadino, nella decorazione delle chiese tardomedioevali. Influenze scitiche sono rintracciabili anche più ad occidente: nell’Europa centrale e nei Balcani, ma anche in Scandinavia e – attraverso i Sarmati – perfino in Britannia (19).

L’impero di Mithra

Deo Soli Invicto Mithrae fautori imperii sui
(Iscrizione votiva di Diocleziano e dei suoi colleghi a Carnuntum, anno 307)

Tra i numerosi principati e regni sorti dopo la morte di Alessandro Magno, in Europa il più importante fu il regno del Ponto, fondato sulla riva meridionale del Mar Nero da un nobile di stirpe iranica che nel 281 cominciò a regnarvi col nome di Mitridate I Ctiste. Nel 120, alla morte di Mitridate Filopatore, salì al trono Mitridate VI Eupatore, “uomo fortissimo in guerra, di valore eccezionale, grandissimo talvolta per la sua fortuna, ma sempre per il suo coraggio, un vero capo nelle decisioni e un vero soldato nell’agire” (Vell. Paterc., II, 18, 1). “Principe astuto ed ambizioso che riuniva la forza naturale del barbaro asiatico coi grandi gesti del re ellenistico, Mitridate, sulle orme del suo predecessore Farnace I, si sentiva chiamato a creare un vasto impero pontico” (20); impadronitosi ben presto della costa caucasica e della Crimea, nel 107 fu proclamato re del Bosforo Cimmerio; quindi conquistò Paflagonia, Galazia, Cappadocia e Bitinia e stabilì la propria sede a Pergamo. Intanto “uno dei suoi figli teneva sotto controllo il regno avito sul Ponto e sul Bosforo, fino ai deserti al di là della Meotide, senza nessuna opposizione; l’altro, Ariarate, con un grande esercito al suo comando, era entrato in Tracia e in Macedonia, mentre i capi degli eserciti sottomettevano altre regioni (allous topous echeirounto)” (Plutarco, Vita di Silla, xi). Venuto a scontro coi Romani nell’89, conquistò l’Asia Minore, le isole dell’Egeo (tranne Rodi) e la Grecia, ma fu sconfitto da Silla e da Fimbria nell’85. Uscì invece vittorioso dalla seconda fase del conflitto (83-81), mentre la terza fase (74-64) fu vinta da Lucullo e da Pompeo, sicché Mitridate dovette rinunciare anche al Ponto. Rifugiatosi nel regno dei Bosporani, Mitridate meditava di assalire l’Italia da nord, risalendo il Danubio; ma la malattia e la rivolta del figlio Farnace lo indussero a togliersi la vita, nel 63. Farnace regnò sul regno bosporano; ma durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo si spinse ad occupare gran parte dell’Asia Minore, finché Cesare nel 47 lo sconfisse a Zela. Sorse comunque una nuova dinastia, anche questa di origini iraniche, che accettò la sovranità romana e regnò a Panticapeo, sulla cima del monte Mitridate, fino all’arrivo degli Unni.

Il nome Mithridates o Mithradates, che ricorre con una certa frequenza nell’onomastica e nella toponomastica del Ponto, della Cappadocia, dell’Armenia e della Commagene, “mostra la devozione che questi re professavano per Mithra” (21) e ci rivela l’origine della diffusione del mithraismo nel mondo romano. Infatti “fu proprio durante le lunghe campagne in Asia Minore, contro od a favore dei vari re ellenistici, alcuni dei quali di stirpe regale iranica, come Mithridate Eupatore o Antioco II di Commagene ai tempi di Silla e Pompeo, che i Romani appresero alcuni elementi ideologici riguardanti la persona sacra del sovrano e delle supreme gerarchie dello Stato ed assaporarono pure il significato mistico e religioso che li circondava, mentre i loro ufficiali venivano iniziati ai riti, essenzialmente iranici ancorché ellenizzati, di Mithra ed Anahita” (22).

Lucio Cornelio Silla (138-68), che “passando per Delo aveva potuto leggere sulle basi di statue ritrovate da noi moderni le iscrizioni che onoravano in Mitridate un’incarnazione di Dioniso” (23), secondo Carcopino avrebbe concepito il progetto di instaurare una regalità teocratica fin dal 92 a. C., quando “un Caldeo, un uomo del seguito di Orobazo, osservato il volto di Silla e studiati attentamente i moti dell’animo e del corpo, esaminatane l’indole naturale (physis) secondo i principi della sua arte, disse essere destino ineluttabile (anankaion) che quell’uomo diventasse grandissimo” (Plutarco, Vita di Silla, v). Carcopino ipotizza che, come “i marocchini dei tempi nostri direbbero che egli possedeva la loro baraka” (24), così “i seguaci di Mitra, che popolavano gli Stati di Mitridate, ci avrebbero rivelato che egli era avvolto nel nembo del loro hvarenô” (25). Pio Filippani Ronconi, da parte sua, ha intravisto nell’episodio narrato da Plutarco la presenza di magi persiani che “dichiararono di riconoscere aleggiare sul capo del generale romano la sacra aura della regalità data da Anahita e come un re iniziato e legittimo lo riconobbero” (26); sempre secondo Filippani, l’epiteto di Felix, solennemente assunto da Silla nell’82, è un “possibile calco semantico del persiano baghô-bakhta” (27), mentre il titolo di Epaphroditos, che figura nei documenti inviati da Roma alle città greche, ricorda il vincolo che univa Silla alla “personificazione guerriera di Afrodite – la iranica Anahita, ‘l’Immacolata’ – emblema della terribile presenza dello khvarenah” (ibidem). Successivamente, Pompeo votò un tempio a Venus Victrix, “indubitabile calco di Anahita, al cui culto era stato probabilmente iniziato dal suo amico Antioco di Commagene, che (come Mithridate) pretendeva discendere dagli Achemenidi” (28), ed un altro santuario venne eretto a Venus Genetrix da Giulio Cesare, il quale rivendicava la propria discendenza dalla Dea attraverso Enea ed Ascanio, nome questo in cui riecheggerebbe il patronimico dei re parti, Ashkan. Parimenti, il titolo che il Senato conferì ad Ottaviano nel 27 a. C., Augustus, “costituisce la traduzione e perfino la trasposizione fonetica dell’avestico aojishta, che in detta lingua indica ‘possessore di energia trabordante’, qualità che si attribuiva alle Fravashi e ai geni delle personalità di rilievo” (29).

I misteri di Mithra, come è noto, si diffusero su tutti i territori dell’Impero romano, dall’Anatolia alla Spagna alla Britannia. Già nel I secolo d. C. sorgono in Italia alcuni mitrei, ma è nel II secolo che il dio iranico “comincia la marcia trionfale che lo porterà fino al Campidoglio e al Palatino” (30), fino a identificarsi, sotto Aureliano (270-275), col divino sovrano dell’Impero, Sol Invictus. Fallito il tentativo di restaurazione religiosa intrapreso da Giuliano (361-363), l’imperatore teologo che si identificò col “buon pastore al quale era imposta la morale di Mithra” (31), il mithraismo scomparve. Ambrogio, vescovo di Milano (374-397), “parla solo una volta di Mitra e pensa che si tratti di una dea” (32).

I Sarmati

At mihi Sauromatae pro Caesaris ore videndi
terraque pacis inops undaque vincta gelu.
(Ovidio, Ex Ponto, II, 93-94)

Il trattato ippocratico Delle arie, delle acque, dei luoghi ci informa sui particolari costumi delle donne dei Sauromati, le quali tirano d’arco e di giavellotto, agevolate dal fatto che sono prive del seno destro: “quando sono bambine ancora in tenera età, le loro madri arroventano un arnese di bronzo appositamente costruito e glielo pongono sulla mammella destra, che viene cauterizzata” (De aeribus, 17). Abbiamo qui un’eco della leggenda, già accolta da Erodoto, secondo la quale i Sauromati – il primo contingente di Sarmati che arrivò sul Mar Nero – avrebbero tratto origine dall’unione dei giovani Sciti con le Amazzoni; perciò usano anch’essi la lingua scitica, ma la inquinano con solecismi, dal momento che le Amazzoni non erano riuscite ad impararla per bene (Erod. IV, 110-117). Alla leggenda che fa discendere i Sarmati dalle Amazzoni corrispondono i dati forniti dall’archeologia: in una tomba del III secolo a. C., venuta alla luce a Zemo-Avchala nei pressi di Tbilisi, era stata inumata con le sue armi una donna guerriera. I Sarmati, come d’altronde anche gli Sciti, dividevano l’autorità politica e militare tra uomini e donne. “Le donne sarmate sepolte vicino al fiume Molocnaja giacciono vestite con corsaletti di armatura a piastre, accanto a lance, spade o frecce. La giovane principessa sarmata sepolta a Kobjakov col suo tesoro di monili religiosi – un intero pantheon iranico di animali e figure umane d’oro – aveva la propria ascia da guerra posata nella tomba vicino ai finimenti dei suoi cavalli” (33).

Quello che Erodoto dice circa l’uso della lingua scitica da parte dei Sauromati si spiega col fatto che i Sarmati – menzionati nell’Avesta col nome di Sairima – avevano uno stretto rapporto con gli Sciti; lo scitico e il sarmatico, due varianti di una lingua iranica più affine al sogdiano o al pashtu che non ai dialetti della Persia achemenide, sono stati continuati dall’osseto ancor oggi parlato nel Caucaso, sicché “i due dialetti dell’osseto, l’iron e il digor, un po’ più arcaico, fanno parte dello scitico allo stesso titolo per cui l’italiano e lo spagnolo fanno parte della latinità” (34). Gli odierni Osseti, presso i quali il Gunther rilevò “la presenza di tratti nordici (…) in ragione della loro altezza, dell’alta percentuale di biondi (30%) e dei loro occhi chiari” (35), sono dunque i discendenti dei Sarmati e più precisamente degli Alani, ma bisogna aggiungere che “nella composizione di questo popolo dovettero entrare anche gruppi etnici locali, genuinamente ‘caucasici’, come rivelano elementi della sua lingua e della sua cultura” (36).

Il popolo sarmatico, che tra il V e il IV secolo cominciò a muovere verso occidente e a partire dal III secolo invase l’Europa orientale, nell’epoca ellenistico-romana appare costituito di diversi raggruppamenti tribali. Sulle rive orientali del Mar d’Azov si insediarono i Siraci, i quali fornirono ventimila cavalieri quando Farnace allestì la spedizione d’Asia minore; a sudest del loro territorio presero stanza i discendenti dei Massageti, gli Alani, che erano partiti dalle steppe del Lago d’Aral; lo spazio compreso tra il basso corso della Volga, le coste nordoccidentali del Caspio e l’estuario del Don venne occupato dagli Aorsi, i quali furono in grado di fornire a Farnace duecentomila cavalieri, “e gli Aorsi dell’interno anche di più” (Strabone, XI, 5, 8); tra il Don e il Dnepr andarono ad abitare i Rossolani, che prima mossero guerra contro Mitridate il Grande, poi si allearono con lui contro i Romani e all’inizio del II secolo d. C. si allearono ai Daci contro Traiano; tra il Dnepr e il Dnestr si stabilirono gli Iazigi, che verso il 20 d. C. ricevettero da Roma il permesso di insediarsi nella pianura del Tibisco, “se non furono addirittura spinti a farlo dai Romani” (37), dei quali divennero alleati contro i Daci. Secondo alcuni autori, gli Iazigi avrebbero assoggettato la tribù autoctona dei Limiganti (38); in ogni caso, alla fine del IV secolo la tempesta unna fece sparire gli Iazigi dalla Dacia. Nella regione del Ponto sorse così una confederazione di tribù sarmatiche, sicché agli inizi del II secolo a. C. la dominazione degli Sciti era definitivamente tramontata.

Insomma, nel II secolo a. C. ebbe inizio “un movimento a vasto raggio, che (…) si estese dai confini settentrionali della Cina fino al Danubio. Il suo carattere unitario è confermato dai reperti archeologici. Specchi cinesi del periodo degli Han e impugnature di spada in giada, tutti oggetti provenienti dalla Cina, sono stati trovati nelle tombe sarmatiche delle regioni del Kuban e del Volga: viceversa, la staffa di origine sarmatica risulta usata nella Cina degli Han, ma anche in India dal II al I secolo” (39).

La straordinaria espansione dei Sarmati fu dovuta alla loro potenza militare: armati di spade, lance, archi e frecce, i cavalieri sarmati indossavano una maglia di ferro oppure un’armatura di cuoio rivestita di scaglie di bronzo e si proteggevano il capo con un elmo parimenti di bronzo. Dai frequenti rinvenimenti di corazze di maglia nelle tombe sarmatiche si può dedurre che i Sarmati “adottarono un sistema di cavalleria pesante, adatto tanto allo scontro ravvicinato quanto al combattimento a distanza” (40). Nei primi due secoli d. C. i Sarmati controllavano l’area compresa tra la Volga e il Danubio. Stabilitisi tra i Carpazi e il Danubio nei primi decenni del I sec. d. C., nel corso delle due guerre daciche combattute da Traiano i Sarmati si schierarono a fianco dei Daci contro i Romani; premuti dagli Alani, si insinuarono tra la Dacia e la Pannonia, finché nel 175 Marco Aurelio ne arruolò 8.000 nell’esercito romano.

In questo periodo cominciò a diffondersi lo stile animalistico sarmatico: se la falera bronzea rinvenuta a Siverskaja Stanica, primo esemplare del tema iconografico dell’uomo trionfatore sugli animali, risale alla cosiddetta “civiltà unno-sarmatica” del III secolo a. C. (41), verso la fine della fase mediosarmatica (I sec. a. C. – II sec. d. C.) lo stile animalistico, tipico di quell’arte delle steppe che si diffuse dalla Cina alla puszta ungherese, si presenta in un contesto molto diverso: “appare nelle sepolture ricche, di uomini e donne, ed è concentrato esclusivamente su oggetti d’ornamento di metallo prezioso, come i collari” (42). E’ questo il periodo più rigoglioso della cultura dei Sarmati: lo stile animalistico sarmatico è contrassegnato dalla policromia, dai lavori a traforo, dai rilievi artisticamente modellati. “La principale caratteristica di questo stile è l’uso di inserire materiali colorati per riprodurre i muscoli delle spalle e delle cosce, gli occhi, le orecchie, gli zoccoli, le zampe e, talvolta, le costole come, per esempio, nella figura di animale sulla placca d’oro proveniente dal tumulo di Verchnee Pogromnoe. Il pelo e il piumaggio delle creature alate sono resi da incisioni a falce, da cilindri con brevi e profondi tagli o con puntini applicati” (43). In seguito i Goti portarono con sé, nelle loro scorrerie attraverso l’Europa, “le gioiellerie policrome e gli oggetti di metallo, disseminandoli, insieme agli elementi scito-sarmatici su cui si basavano, su molte regioni lontane. In questo modo lo stile animalistico risorse dapprima in Romania, poi in Austria, poi in Renania, da cui viaggiò insieme ad altri elementi, fino in Inghilterra” (44).

Nel corso del III secolo, per effetto dell’arrivo dei Goti nei territori a nord del Mar Nero, i Sarmati si divisero in un gruppo orientale e uno occidentale; alcuni nuclei saccheggiarono i territori periferici dell’impero, altri si allearono con Roma. Costantino ne trasferì 300.000 nelle province romane; fu sotto il suo principato, o sotto quello di Costanzo II, che numerosi gruppi di Sarmati Gentiles si insediarono nell’Italia superiore. Alla colonia militare sarmatica stabilitasi nel territorio di Torino risalgono gli stanziamenti di Sarmatorio (presso Fossano), Sarmazia (nel Valenzano), Sarmage (presso la Stura), Sarmaceto (presso il Sangone), Salmorenc (presso Montanaro), Sarmazza (presso Gassino), Salmacetta (presso Caramagna). La toponomastica italiana rivela insediamenti sarmatici anche a Salmour (Vicus Sarmatorum, nel cuneese), a Sarmato (Sarmatae, nel piacentino), a Sermide (nel mantovano), a Sarmede (Sarmatae, nel trevigiano), a Sarmeola di Rubano (Sarmaticula) e a Sermazza di Vigonovo (due località del padovano); toponimi, questi, ai quali corrisponde il francese Sermaize (Sarmaticum). A un insediamento di Alani risale invece, in provincia di Pavia, l’origine di Alagna. Nell’VIII secolo, mentre ricordava come nel 568 Alboino avesse condotto in Italia assieme ai suoi Longobardi anche gruppi di barbari appartenenti a diverse altre popolazioni, Paolo Diacono (Historia Langob., II, 26) scriveva che al suo tempo molti villaggi venivano chiamati coi nomi di quelle popolazioni: Gepidi, Bulgari, Pannoni, Svevi, Norici – e Sarmati.

Spostiamoci nel nord dell’Europa. Quei cavalieri sarmati che agli inizi del III secolo si stabilirono nell’odierna Polonia meridionale erano probabilmente la popolazione sarmatica degli Anti. “Accanto ai propri morti seppellivano ceramiche lavorate al tornio provenienti dalla sponda settentrionale del Mar Nero, spille sarmatiche e lance con la punta di ferro intarsiata d’argento (…) e i resti della loro cultura materiale mostrano che erano stati a lungo e strettamente in contatto con il Regno del Bosforo” (45), sul quale regnava una dinastia di origini iraniche.
Tale contatto è testimoniato dai tamga (marchi simboleggianti particolari famiglie e tribù), che gli Anti (ed altre tribù sarmatiche) mutuarono dagli abitanti del Bosforo Cimmerio durante la loro permanenza in quella regione. Infatti “quasi tutti i tamga che si conoscono sono stati ritrovati nel territorio del Bosforo, e la maggioranza di essi nelle città greche” (46), incisi su oggetti rituali e sulle pareti di tombe risalenti al I secolo d. C. Tamga analoghi “ricorrono anche nelle tombe sarmatiche sparpagliate per la Polonia, incisi sulla pietra o intarsiati in argento su punte di lancia di ferro. La loro area di diffusione va dall’Ucraina, inclusa la regione di Kiev, a ovest fino alla Slesia, e per come le tombe si distribuiscono e per la loro datazione sembra cheripercorrano il tragitto delle migrazioni sarmatico-alane” (47). Data la somiglianza dei tamga sarmatici con le insegne araldiche di antiche famiglie polacche, tra il XVI e il XVII secolo si diffuse in Polonia la convinzione che la szlachta, la nobiltà locale, traesse origine dai Sarmati. Se nel 1517 il Tractatus de duabus Sarmatiis Asiana et Europeana di Maciej Miechowita (1457-1523) identificava i Sarmati con i Russi, Jost Ludwik Decjusz (1485-1549) individuava nei Polacchi l’autentica progenie dei Sarmati, sicché il massimo esponente della poesia rinascimentale polacca, Jan Kochanowski (1530-1584), poteva celebrare gli Slavi quali eredi delle Amazzoni, mentre nel 1555 un trattato di Marcin Kromer (1512-1589) sviluppava la tesi di una simbiosi slavo-iranica.
Se la Polonia cinquecentesca produsse il mito sarmatico, la Russia del Novecento diede nascita allo scitismo (skifstvo). Il poeta simbolista Valerij Brjusov (1873-1924) “in una poesia del 1900 intitolata Gli Sciti (Skify) affermava con veemenza di sentirsi discendente di questi nomadi iranici, antichi dominatori delle steppe russe” (48), mentre in un poemetto omonimo un altro simbolista, Aleksandr Blok (1880-1921), declamava: “Sì, siamo sciti! Sì, siamo asiatici, – con occhi a mandorla e avidi!” Un anno prima, nel fatidico 1917, per iniziativa di Ivanov-Razumnik (1878-1946) era nata la rivista “Skify”, dalla quale la “missione ‘scitica’, barbarica ma creativa, veniva ora attribuita ai Russi, chiamati a salvare con la loro rivoluzione universale l’umanità intera dal dominio dell’elemento filisteo” (49).

Tornando alle vicende storiche degli Anti, alla metà del secolo IV li troviamo stanziati fra le sorgenti del Bug e del medio Dnepr, dove vivevano in un’organizzazione sociale gerarchizzata. Giordane (Getica, v, xxiii) ci informa che la “numerosa nazione dei Vinidi” (Winidarum natio populosa), insediata tra il fianco orien tale dei Carpazi e l’alta Vistola, è costituita di due gruppi principali: gli Sclaveni e gli Anti (Sclavini et Antes). Vinidi, Anti e Sclaveni, per quanto abbiano nomi diversi, sono usciti da un’unica tribù (ab una stirpe exorti, tria nunc nomina reddidere, id est, Veneti [sic], Antes, Sclavi). Gli Anti, che tra i Vinidi sono i più forti (sunt eorum fortissimi), occupano la riva del Mar Nero compresa tra il Dnestr e il Danubio. Procopio di Cesarea, dal quale apprendiamo (La guerra gotica, I, 27; IV, 4) che nel V secolo “Unni, Sclaveni ed Anti erano insediati oltre l’Istro, non lontano dalle sue rive” e che “innumerevoli tribù di Anti” erano stanziate oltre il territorio degli Utiguri, ossia a nord delle steppe del Mar d’Azov, dedica un breve excursus (III, 14) al modo di vita degli Anti, che fin da epoche remote è il medesimo degli Sclaveni. Anti e Sclaveni, scrive Procopio, non hanno un governo monarchico, ma discutono in assemblea le singole questioni che si presentano loro. E prosegue: “Sono monoteisti, credono che il creatore del fulmine sia il creatore di tutte le cose e a lui sacrificano buoi e vittime d’ogni sorta. (…) Venerano tuttavia anche fiumi, ninfe ed altri démoni; pure a questi sacrificano, ricavando responsi oracolari da tali sacrifici. (…) Quando vanno a combattere, la maggior parte di loro avanza a piedi contro il nemico, impugnando piccoli scudi e giavellotti, ma non indossano corazze. (…) Entrambi i popoli hanno la medesima lingua, totalmente barbara. Non sono diversi gli uni dagli altri neanche nell’aspetto (…) In realtà Sclaveni ed Anti avevano anticamente un medesimo nome, poiché si chiamavano Spori”.
Nel periodo di Giustiniano I (527-565) Sclaveni ed Anti, dopo aver vagato come pastori nomadi a nord del Danubio, devastarono le province balcaniche di Bisanzio; sembra tuttavia che “prima della morte di Giustiniano gli Antae fossero diventati foederati dell’Impero” (50). Dopo la disfatta che venne loro inflitta dagli Avari sul principiare del VII secolo, gli Anti parteciparono attivamente all’espansione degli Slavi nei Balcani. “Quelli fra gli Anti che restarono nel territorio dell’attuale Ucraina contribuirono alla genesi delle tribù dello Stato di Kiev, nei secoli VIII-IX” (51).

Gli Alani

Cui natura breves animis ingentibus artus
finxerat, immanique oculos infecerat ira.
(Claudiano, De bello gothico, 584-585)

Procopio di Cesarea (La guerra gotica, I, 1) riteneva che gli Alani fossero una popolazione gotica, una di quelle che i Bizantini avevano indotte ad allearsi con loro. Più correttamente, Luciano di Samosata aveva affermato che gli Alani erano affini agli Sciti nella lingua e nell’abbigliamento, “solo che gli Alani non portano i capelli lunghi, come invece gli Sciti” (Luciano, Tossari o l’amicizia, 51). Infatti gli Alani erano una tribù sarmatica, la più forte, che aveva assunto il ruolo di guida degli altri Sarmati. Secondo Ammiano Marcellino si chiamavano così “dal nome dei monti” (ex montium appellatione, Amm. Marc. XXXI, 2, 13), ossia dei monti Alani, la catena collinosa a nord del Lago d’Aral che oggi reca il nome russo di Gory Mugodzhary. Sembra invece che il nome degli Alani (presente nelle cronache armene nella forma Alwank’ , in quelle arabe come al-An, in quelle cinesi del periodo Han come Alan) indichi che “si trattava di Ariani (antico persiano: aryanam); ha il medesimo significato della parola Iran. La loro lingua faceva parte di un gruppo che comprendeva ad oriente il sogdiano e il saco, nonché i dialetti parlati ancor oggi nel Pamir” (52). Gli Alani erano i discendenti dei Massageti: “Massagetas, quos Alanos nunc appellamus” e “Halanos (…) veteres Massagetas” (Amm. Marc., XXIII, 5, 16 e XXXI, 2, 12). Così scrive Ammiano Marcellino, secondo il quale “gli Alani poi sono quasi tutti alti e belli, con i capelli piuttosto biondi, terribili per lo sguardo bieco, veloci grazie all’armatura leggera, pressoché simili agli Unni nel complesso, ma più miti nel tenor di vita e nell’abbigliamento. Rapinando e cacciando, corrono qua e là, fino alle paludi meotiche e al Bosforo Cimmerio, nonché fino all’Armenia e alla Media. E come alle persone quiete e pacifiche dà piacere il riposo, così a loro piacciono i pericoli e le guerre” (Amm. Marc. XXXI, 2, 21-22). Il culto della spada e il procedimento divinatorio che Ammiano attribuisce agli Alani sono molto simili a quelli che Erodoto (Erod. IV, 62 e 67) attribuisce agli Sciti: “Presso di loro non si vede né un tempio né un santuario, né si può scorgere in alcun luogo una capanna coperta di paglia, ma secondo l’uso barbarico viene piantata nel suolo una spada nuda e con grande rispetto venerano questa come Marte, protettore delle regioni che abitano tutt’intorno. Presagiscono il futuro in un modo strano. Raccolgono verghe di vimini ben diritte e, scegliendole con certi incantamenti segreti in un periodo prestabilito, vengono a sapere chiaramente che cosa si preannuncia” (Amm. Marc., XXXI, 2, 23-24).

Nel I secolo d. C. gli Alani invasero le steppe settentrionali del Caucaso e dilagarono nella regione a nord del Danubio. Nel II secolo invasero la Media, l’Armenia e la Cappadocia e parteciparono alle guerre dei Marcomanni lungo il medio Danubio. Nel 175, durante il principato di Marco Aurelio, 5.500 catafratti alani e iazigi furono trasferiti dalla Pannonia in accampamenti stabili in Britannia (a Ribchester nel Lancashire, a Chester e altrove); “se un giorno si stabilirà che esiste un gene caratteristico degli Indo-iranici, una ricerca sui campioni di DNA nell’entroterra di Preston potrebbe rivelare che i Sarmati, in un certo senso, sono ancora tra noi” (53). Alla presenza di queste enclaves alane nella parte settentrionale della Britannia romana, sopravvissute fino al V secolo, è stata ricondotta la presenza di elementi iranici in alcune saghe medioevali (54). In particolare, è stata sostenuta l’esistenza di una connessione tra la cultura sarmatica e la leggenda di Re Artù.
Alla metà del IV secolo, quando gli Unni dilagano nel bacino della Volga, gli Alani vengono fiaccati e sottomessi: “Alanos quoque pugna sibi pares, sed humanitatis victu formaque dissimiles, frequenti certamine fatigantes subjugavere” (Giordane, Getica, xxiv). Il popolo sconfitto è costretto a seguire i nuovi invasori fino alla Palude Meotide e ad aiutarli, verso il 370, contro gli Ostrogoti di Ermanarico. Assieme agli Unni e agli Ostrogoti, gli Alani passano il Danubio e partecipano alle incursioni nella Mesia; il 9 agosto 378, nella battaglia di Adrianopoli, la cavalleria alana guidata da Safrace dà un contributo determinante alla sconfitta dell’esercito dell’imperatore Valente. L’anno seguente, Unni, Goti ed Alani vengono respinti a nord dei Balcani, ma nel 380 depredano la Pannonia. Nel 407 moltitudini di Alani, Vandali e Svevi superarono la resistenza dei Franchi alleati dell’Impero, “portarono la devastazione tra le popolazioni al di là delle Alpi e, dopo aver fatto una grande strage, seminarono il terrore tra gli eserciti della Britannia” (Zosimo, Storia nuova, VI, 3-4). Arrivati nel 409 nella penisola iberica e sconfitti da Vallia, re dei Visigoti, gli Alani “si concentrarono nella porzione mediana del paese” (55), mentre anche in Gallia sorsero piccoli regni alani, come ci testimonia una trentina di toponimi francesi, tra cui quello di Alençon. Attila cercò di ridurre in proprio potere questi Alani che si erano insediati in Gallia: Alanorum partem trans flumen Ligeris considentem statuit suae redigere ditioni (Giordane, Getica, xliii); ma Torrismondo, re dei Visigoti, lo costrinse ad abbandonare il territorio gallico. Cinquant’anni fa uno storico turco, R. S. Atabinen, pensava che i caratteri mongolici dei Bigouden bretoni fossero dovuti alla componente turcica di un gruppo di Alani stanziato tra Rennes e Josselin.

Cavalieri alani erano stati comunque arruolati nell’esercito imperiale: quella sorta di libro araldico del tardo impero romano che è la Notitia dignitatum registra un’insegna alana, “un disco issato su un’asta” (56). Tra gli Alani che militarono al servizio dell’Impero ve ne fu uno che per un certo periodo fu arbitro delle sorti del trono di Costantinopoli: nel 450, quando Teodosio II morì senza lasciare eredi maschi, il magister militum Aspar, che era stato console nel 434 e godeva di una grande popolarità presso i federati, ma non poteva salire al trono a causa della sua fede ariana, impose come marito alla sorella del defunto imperatore il capo dei propri buccellarii, Marciano. Alla morte di Marciano, Aspar lo rimpiazzò con un altro dei suoi protetti, il tribuno Leone, progettando di farlo regnare finché il proprio figlio Patrizio raggiungesse l’età adatta per succedergli. Ma Leone decise di liberarsi della tutela di Aspar e degli Ostrogoti alleandosi con gl’Isaurici. “In seguito la stella di Aspar rifulse nuovamente: e suo figlio Patrizio ottenne la mano della seconda figlia dell’imperatore e nonostante la sua origine straniera e la sua fede ariana venne dichiarato erede presuntivo al trono e nominato Cesare. Ma ben presto a Costantinopoli sorse di nuovo un movimento antigermanico e nel 471 scoppiò una rivolta in cui Aspar e suo figlio Ardabur vennero assassinati” (57). Patrizio non riuscì a sedere sul trono di Costantinopoli; se è vero ciò che si legge nella Historia Augusta (Giulio Capitolino, Vita dei due Massimini, I) l’unico imperatore di origini parzialmente alane rimane dunque Massimino il Trace (235-238).

Altri gruppi di Alani si stabilirono sulle rive dell’Elba, dove soggiogarono le popolazioni slave. “Una di queste conquiste era destinata ad avere un forte impatto sulla storia futura. In alcune iscrizioni ritrovate sul Don, si leggono le parole Choroatus e Chorouatos (Croato). Sembra che questo termine in origine indicasse un gruppo di guerrieri alani che per un po’ era vissuto nelle steppe del Mar d’Azov e poi era emigrato di nuovo verso nord-ovest. Là questi guerrieri prima soggiogarono e poi si fusero con popoli di origine slava che vivevano lungo il corso superiore della Vistola e nella Boemia settentrionale. Alcune cronache arabe e bizantine del decimo secolo parlano di un popolo chiamato Belochrobati (Croati bianchi) che viveva in quella regione, i cui re bevevano latte di cavalla e i bambini subivano la fasciatura della testa” (58). L’usanza di fasciare la testa dei bambini per farle assumere una forma ovoidale era stata insegnata dagli Unni agli Alani; e in Crimea gli Alani conservarono questa usanza fino al XVII secolo, quando vivevano come cristiani ortodossi nel khanato tartaro.

Se i Croati d’origine alana si stabilirono nella regione che da loro si chiamò Croazia, così anche un altro gruppo di Alani prese stanza in un territorio dei Balcani: si tratta di quei Serbi che nel secolo III avevano abitato la steppa tra il Volga e il Don e nel V secolo erano apparsi sulla sponda orientale dell’Elba, dove si erano fusi con le popolazione slave. Una parte di questi Serbi d’origine alana rimase lassù, nell’odierna Sassonia, dove vivono gli attuali Serbi di Lusazia, mentre un’altra parte si trasferì, per l’appunto, nella regione a sud del Danubio che da loro prese il nome di Serbia.

Gli Alani furono parte integrante dell’entità protobulgara che diede vita al primo regno di Bulgaria, sicché per il loro tramite pervenne al nuovo Stato un’eredità permeata di elementi iranici: molti khan protobulgari portavano nomi iranici, così come iranico è il nome del primo re di Bulgaria, Isperich (681-702). “Giunta al massimo splendore nelle steppe della Russia meridionale, la ‘Grande Bulgaria’ aveva moltiplicato i vincoli con l’Iran sasanide. Lo stesso khan Kuvrat, padre di Isperich, intensificò gli scambi commerciali e diplomatici con le grandi città del Khorezm e dell’Asia centrale” (59).

Un altro popolo che nella sua etnogenesi ha ricevuto il contributo degli Alani è quello ungherese. I primi contatti fra le tribù magiare e “una o più popolazioni iraniche, quelle genti indoeuropee cioè, che le prime fonti storiche designano col generico appellativo di ‘Sciti’ ” (60) ebbero luogo probabilmente sulle rive del Caspio, cosicché da “una lingua che si ritiene alano-antico ossetica” (61) passarono nel lessico ungherese diversi prestiti : tehén (“mucca”), tej (“latte”), tiz (“dieci”), kard (“spada”) ecc. Dell’antico rapporto dei Magiari con gli Alani ci parla d’altronde una delle più importanti leggende nazionali ungheresi, quella del “cervo prodigioso” (A csodaszarvas) (62). I due figli di Nemrod, Hunor e Magyar, inseguendo un cervo meraviglioso arrivarono a una palude (la Palude Meotide) e lì vicino scoprirono un luogo adatto all’allevamento. Varcati in seguito i confini di quel territorio, si imbatterono in un gruppo di fanciulle che danzavano in tondo; due di loro erano di una bellezza splendida: erano le figlie di Dul, principe degli Alani. I due principi rapirono le due principesse e i loro guerrieri fecero altrettanto con le altre fanciulle; da Hunor e dai suoi uomini ebbero origine gli Unni, da Magyar e dai suoi i Magiari (63). Un fatto storico è che nei secoli XIII e XIV una popolazione d’origine alana chiamata in ungherese Jászok (Iazigi), si stabilì in quella parte dell’Ungheria che da loro prese il nome di Jászság; il loro idioma, “un dialetto (…) prossimo all’osseto e, più specificamente, al digor” (64), era ancora vivo nel secolo XV. Nel 1868, quando Francesco Giuseppe si recò in Ungheria per cingere la corona di Santo Stefano, nel corteo spiccavano i drappelli degli Iazigi e dei Cumani; con le loro cotte di ferro e pelli d’orso, con le teste di animali o corna di bufalo che portavano sul capo a scopo ornamentale, i discendenti delle antiche popolazioni iraniche e turche che si erano stanziate in Ungheria “richiamavano alla memoria i tempi in cui l’Europa cristiana doveva difendersi dalle invasioni dell’Oriente pagano” (65). Presso gli Ungheresi non è mai svanita la consapevolezza dell’apporto dato dai popoli iranici alla formazione della loro nazione: per Endre Ady (1887-1919) i Carpazi erano “l’altezza scitica” (a szittya magasság) e i nazionalisti magiari fieri della loro provenienza orientale erano per lui “una schiera scitica che ha odore di Iran” (egy Irán szagú szittya sereg).

 

NOTE
1. La traduzione, come quelle dei brani successivi, è mia.
2. H. D. Broadhead, The Persae of Aeschylus, Cambridge 1960, p. 77.
3. Raffaele Di Virgilio, Il vero volto dei Persiani di Eschilo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1973, p. 26.
4. Monica Centanni, Note di commento a: Eschilo, I Persiani, Feltrinelli, Milano 1991, p. 106.
5. Josef Wiesehofer, La Persia antica, Il Mulino, Bologna 2003, p. 35.
6. Josef Wiesehofer, ibidem.
7. Jean Haudry, Gli Indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 2001, p. 168.
8. Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, pp. 356-359.
9. Lucia Wald – Elena Slave, Ce limbi se vorbesc pe glob, Editura stiintifica, Bucuresti 1968, p. 38 n. 5.
10. Georges Dumézil, Storie degli Sciti, Rizzoli, Milano 1980, p. 7.
11. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, Einaudi, Torino 1999, p. 122.
12. Maurizio Imperatore, Strategikon, Il Cerchio, Rimini 2006, p. 123.
13. Guido A. Mansuelli – Fausto Bosi, Le civiltà dell’Europa antica, Il Mulino, Bologna 1984, p. 190. Sui Saci, cfr. Franz Altheim, Alexandre et l’Asie. Histoire d’un legs spirituel, Payot, Paris 1954, pp. 315-340 (Cap. XII: L’assaut des nomades).
14. Viene chiamato Hypanis (Ammiano Marcellino, XXII, 8, 26) anche un fiume del Bosforo Cimmerio identificabile col Kuban.
15. Il Tanai è citato come confine tra la Scizia e la Sarmazia anche da Luciano, Tossari o l’amicizia, 39.
16. Francis Conte, Gli Slavi, Einaudi, Torino 1991, p. 285.
17. Emile Condurachi – Constantin Daicoviciu, Romania, Nagel, Ginevra 1975, p. 97.
18. D. M. Pippidi, I Greci nel basso Danubio dall’età arcaica alla conquista romana, Il Saggiatore, Milano 1971, p. 109.
19. Tamara Talbot Rice, Gli Sciti, Il Saggiatore, Milano 1958, pp. 179-202.
20. Joseph Vogt, La repubblica romana, Laterza, Bari 1975, p. 309.
21. Franz Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano, Laterza, Bari 1967, p. 171.
22. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, Centro culturale italo-iraniano, Roma 1977, I, pp. 16-17.
23. Jérome Carcopino, Silla o la monarchia mancata, Longanesi, Milano 1943, p. 102.
24. Jérome Carcopino, Silla o la monarchia mancata, cit., p. 105.
25. Ibidem.
26. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, cit., I, p. 17.
27. Ibidem.
28. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, cit., I, p. 18.
29. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, cit., p. 19.
30. Martin Vermaseren, Mithra, ce dieu mystérieux, Sequoia, Paris-Bruxelles 1960, p. 25.
31. Martin Vermaseren, Mithra, ce dieu mystérieux, cit., p. 155.
32. Reinhold Merkelbach, Mitra, ECIG, Genova 1988, p. 290.
33. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 116.
34. Georges Dumézil, op. cit., p. 8. Dumézil ha rintracciato nell’epopea popolare degli Osseti (Il libro degli eroi, Bompiani, Milano 1976) le tracce della tripartizione sociale indoeuropea. Cfr. G. Dumézil, L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, Il Cerchio, Rimini 1988, pp. 20-21.
35. Hans F. K. Günther, Tipologia razziale dell’Europa, Ghénos, Ferrara 2003, p. 89.
36. Sergej A. Tokarev, URSS: popoli e costumi, Laterza, Bari 1969, p. 263.
37. Hadrian Daicoviciu, Dacia de la Burebista la cucerirea romana, Dacia, Cluj 1972, p. 119.
38. Dumitru Berciu, Daco-Romania, Nagel, Ginevra 1976, p. 87.
39. Franz Altheim, Dall’antichità al Medioevo: il volto della sera e del mattino, Sansoni, Firenze 1961, p. 71.
40. Guido A. Mansuelli – Fausto Bosi, Le civiltà dell’Europa antica, cit., p. 325.
41. Zoltán Kádár, Gli animali negli oggetti ornamentali dei popoli della steppa: Unni, Avari e Magiari. Cenni zooarcheologici, in: C.I.S.A.M. Atti delle settimane di studio, XXXI L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo (7-13 aprile 1983), Spoleto 1985, p. 1381.
42. Karl Jettmar, I popoli delle steppe, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 66.
43. I. P. Zaseskaja – K. M. Scalon, Le tribù sarmatiche dal II sec. a. C. al II sec. d. C., in: AA. VV., L’oro degli Sciti, Alfieri, Venezia 1977, p. 79.
44. Tamara Talbot Rice, op. cit., p. 189.
45. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 239.
46 Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 240.
47 Ibidem.
48 Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 152.
49 Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, cit., p. 159.
50. Steven Runciman, Bisanzio e gli Slavi, in: AA. VV., L’eredità di Bisanzio, a cura di N. H. Baynes e H. St. L. B.
Moss, Vallardi, Milano 1961, pp. 407-408.
51. Francis Conte, Gli Slavi, cit., p. 130.
52. Franz Altheim, Attila et les Huns, Payot, Paris 1952, p. 82.
53. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 237.
54. C. Scott Littleton – A. C. Thomas, The Sarmatian connection: new light on the origin of the Arthurian and Holy Grail legends, “Journal of American Folklore”, 91, 1978, pp. 512-527. C. Scott Littleton – L. A. Malcor, From Scythia to Camelot. A radical reassessment of the legends of King Arthur, the Knights of the Round Table and the Holy Grail, New York – London, 1994. J. Makkay, Iranian elements in early Mediaeval heroic poetry. The Arthurian cycle and the Waltharius, Tractata Minuscula 12, Budapest 1988.
55. Claudio Azzara, Le invasioni barbariche, Il Mulino, Bologna 1999, p. 57.
56. Beniamino M. di Dario, La Notitia Dignitatum. Immagini e simboli del Tardo Impero Romano, Edizioni di Ar, Padova 2005, p. 94.
57. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1993, p. 54.
58. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., pp. 242-243.
59. Francis Conte, Gli Slavi, cit., p. 301.
60. Guglielmo Capacchi, Genesi e sviluppo della lingua ungherese, La Bodoniana, Parma 1964, p. 21.
61. Andrea Csillaghy, Antico e medio iranico e parlate turche antiche in area uralica, in La lingua e la cultura ungherese come fenomeno areale, a cura di Andrea Csillaghy, Quaderni dell’Istituto di Iranistica, Uralo-altaistica e Caucasologia dell’Università degli Studi di Venezia, Venezia 1977-1981, p. 52.
62. Presso le popolazioni iraniche, “il cervo era circondato da una considerazione speciale (i nobili decoravano i loro scudi con l’immagine del cervo dorato). Probabilmente numerosi gruppi etnici sciti ritennero che il cervo fosse un loro mitico antenato: ottima conferma è il nome degli Sciti dell’Asia, saca, che significa ‘popolo-cervo’ ” (Istvan Fodor, L’origine del popolo ungaro e la Conquista della Patria, in AA. VV., Gli antichi Ungari. Nascita di una nazione, Skira, Milano 1998, p. 30). Ma un’altra interpretazione spiega l’etnonimo Saca con la radice iranica sak-, “andare, vagare”.
63. Benedek Elek, Hunor és Magyar, Tóth Könyvkereskedés és Kiadó Kft., Debrecen s. d., pp. 5-11; Claudio Mutti, Miti, fiabe e leggende della Transilvania, Newton & Compton, Roma 1996, p. 17. “Contingit autem eosdem in hac rapina inter ceteras Dulae principis Alanorum duas filias virgines forma praeclaras comprehendere, quarum unam Hunor, alteram Magor in uxores receperunt; ex quibus mulieribus tandem omnes Huni sive Hungari originem sumpsisse perhibent” (Thuróczy János, A Magyarok krónikája, facsimile del codice del 1488, Helikon, Budapest 1986, pagine non numerate). Cfr. il Chronicum pictum dell’Anonimo (1358), in A magyar középkor irodalma, Szépirodalmi Könyvkiadó, Budapest 1984, p. 169.
64. Georges Dumézil, Storie degli Sciti, cit., p. 9.
65. Brigitte Hamann, Sissi, Tea, Milano 1995, p. 196.

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DALL’IRAQ ALLA PALESTINA. INTERVISTA A FRANCO CARDINI

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Per capire il presente bisogna conoscere il passato.

Per capire il presente bisogna conoscere il passato. Questo vale anche per il Medio Oriente, una regione resa instabile: dal fanatismo islamista, dal neocolonialismo occidentale e dall’irrisolta questione palestinese. In questa intervista fatta in luglio a San Marino, lo storico Franco Cardini ci spiega le ragioni di conflitti nati nel secolo scorso e che l’attuale situazione geopolitica ha inasprito.

Da Gai. L’attuale situazione irachena non è solo il frutto della fallimentare politica statunitense ma anche di un’insensata politica coloniale del secolo scorso. In Asia e in Africa, gli inglesi unirono in un unico “Stato” popoli diversi e in conflitto tra loro. Anche in Europa l’errore fu ripetuto con la moderna Jugoslavia e tutti sappiamo come andò a finire. I “nodi” arrivano al “pettine” è questo che insegna la storia?

Cardini. In parte sì e il suo riferimento agli errori del colonialismo cade a proposito. L’Iraq come altri Stati moderni dell’Asia e dell’Africa, furono creati dalle potenze coloniali europee, in modo arbitrario e insensato, senza tenere conto delle diverse parti etniche e religiose e degli eventuali conflitti che potevano sorgere.
All’inizio del Novecento la Gran Bretagna e la Francia avevano come obiettivo quello di sollevare gli arabi contro i turchi (nemici dell’Inghilterra, della Francia e della Russia e alleati dell’Impero asburgico e della Germania) con la promessa di una grande patria araba unita e indipendente governato da una dinastia locale che unisse tutte le genti arabe dalla Siria e dalla Mesopotamia fino alla penisola arabica e all’Egitto.
Con l’appoggio dei francesi e soprattutto inglesi, nel 1916 il “custode dei Luoghi Santi”, lo sharif (con tale titolo, che letteralmente significa “nobile”, si qualificano i membri delle famiglie discendenti dal Profeta) Hussein ibn Ali della dinastia degli hashemiti diede vita alla “rivolta del deserto” (1916 – 1918) e riuscì a sconfiggere le truppe ottomane. La lotta di liberazione araba dal gioco turco sarà raccontata dal colonnello inglese Thomas E. Lawrence, (Lawrence d’Arabia) nel libro: “I sette pilastri della saggezza”.
Gli accordi franco-inglesi di “Sykes-Picot” (1916) non tennero alcun conto delle promesse fatte allo sharif Hussein e stabilirono che alla fine della guerra il Vicino Oriente sarebbe stato ripartito in due distinte zone d’influenza: Al Regno Unito fu assegnato il controllo delle zone comprendenti approssimativamente la Giordania, l’Iraq e una piccola area intorno ad Haifa. Alla Francia fu assegnato il controllo della zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria e il Libano, mentre l’Arabia sarebbe divenuta una monarchia sotto la famiglia wahabita dei sauditi.
Il trattato di Sanremo dell’aprile 1920 confermava gli accordi “Sykes-Picot” e avviava una serie di complesse manovre diplomatiche che avrebbero assegnato la Palestina a un “mandato” britannico e dalle quali sarebbe nato il moderno Iraq, un”papocchio” creato dagli inglesi sulle ceneri dell’Impero ottomano, unendo in uno stesso “Stato”, “nazioni” diverse tra loro (curdi, sciiti e sunniti). Dopo il 1945, anno dell’indipendenza, a impedirne la disgregazione furono i regimi militari, come quello di Saddam Hussein. Quest’ultimo era senza dubbio una dittatura, ma come tutti i regimi baathisti (una sintesi di socialismo e di nazionalismo arabo N.d.A.) aveva il merito di assicurare alla popolazione condizioni di vita dignitose, garantiva la libertà di fede religiosa e impediva che il Paese scivolasse nell’anarchia o divenisse ostaggio del fanatismo islamista. L’invasione statunitense (marzo – maggio 2003) fece cadere il regime di Saddam e il Paese divenne vittima dell’anarchia e del fanatismo religioso.
L’Iraq, Paese a maggioranza sunnita è governato da un esecutivo di sciita, (governo Nuri al Maliki) filo-iraniano, ma ostile alla guerriglia sunnita, composta dai fedeli del deposto dittatore e dai movimenti jihaidisti. Gli Stati Uniti appoggiano l’attuale governo sciita, perché non mette in discussione i loro interessi in Iraq, un Paese geograficamente strategico: sia per le riserve petrolifere, sia per la posizione geografica (le basi militari per controllare l’Asia centrale e il Golfo Persico). I curdi, forti dell’appoggio statunitense e delle risorse petrolifere presenti nel loro territorio, hanno approfittato della situazione d’instabilità che si è venuta a creare, per costituire un proprio Stato, indipendente, di fatto, anche se non di diritto.

Da Gai. L’opinione pubblica internazionale è stata colta di sorpresa dal successo militare degli islamisti in Iraq, che ora possono contare su un loro “Stato”, il califfato dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, (ISIL) I governi dell’Arabia Saudita e del Qatar, sono i principali sostenitori del terrorismo islamista e dei movimenti islamisti, dai Fratelli Mussulmani (Qatar) ai Salafiti (Arabia Saudita). Il fine di dette organizzazioni e movimenti è imporre un modello di Islam dispotico e dogmatico, di modello wahabita. Gli Stati Uniti insieme a Gran Bretagna e Francia, appoggiano le monarchie del Golfo Persico per ragioni di ordine politico ed economico; utilizzavano il terrorismo islamista di matrice sunnita, per abbattere le nazioni che ostacolano i loro interessi geopolitici ed economici (Libia, Siria, Iran, ecc.). Quali sono le sue considerazioni?

Cardini. La notizia della “restaurazione del califfato” nell’area di confine tra Siria e Iraq, da parte dei cosiddetti mujahidin (guerrieri impegnati in uno sforzo gradito a Dio) quelli che di solito i media definiscono i “jihadisti”, dovrebbe raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire “l’umma”, la comunità musulmana nel suo complesso. Il sedicente califfo, dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha rilevato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la “democrazia” e gli altri “pseudo valori” che l’Occidente proclama.
Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e la Turchia per la Siria, hanno pesanti responsabilità nella nascita del “califfato” e nella diffusione del terrorismo jihadista in generale. Questi Paesi: isolando l’Iran, eliminando Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia e cercando di abbattere Assad in Siria, hanno di fatto favorito l’ascesa degli gli islamisti, che forti del sostegno delle ricche monarchie del Golfo, trovano pochi ostacoli alla loro avanzata.
Arabia Saudita e Qatar pur sostenendo i terroristi dell’ISIL non prendono sul serio la creazione del Califfato e del loro sedicente califfo, le ragioni sono facilmente intuibili: il Califfato fa riferimento a una realtà storica, forse irripetibile viste le profonde divisioni che l’Islam; inoltre, l’autorità politica e religiosa del nuovo califfo, non è riconosciuta dall’intero mondo sunnita.

Da Gai. Sciiti contro Sunniti, una guerra di religione per noi difficile da comprendere, ma ancora attuale, potrebbe riassumere brevemente l’origine di tale conflitto?

Cardini. In Iraq e in tutto il Medio Oriente, è in atto uno scontro tra le due principali correnti dell’Islam, gli sciiti e i sunniti. Uno scontro dove forti interessi politici ed economici si legano ad antiche divisioni etniche e religiose (arabi contro curdi, sciiti contro sunniti, la persecuzione dei cristiani caldei, arabi contro persiani). L’aspetto etnico – religioso è spesso sottovaluto in Occidente dove prevalgono, materialismo e utilitarismo; ma nel mondo arabo-mussulmano, le divisioni etnico – religiose sono state e sono ancora il motore della storia, e lo erano anche in Europa fino al secolo scorso: pensiamo al ruolo della religione nel Medioevo o il mito della “razza” e della “nazione” nell’Ottocento e nel Novecento.
L’Islam come il Cristianesimo è caratterizzato da profonde divisioni, la principale è quella tra sciiti e sunniti. Nel 632, alla morte del Profeta che per un decennio aveva guidato gli arabi convertiti all’Islam secondo modalità di capo di un consiglio federale di tribù, in termini che ricordano molto quelli del governo di Mosè descritto nell’Esodo, i suoi compagni stabilirono di eleggere un “khalîfa”, cioè un successore alla guida dell’umma, la comunità musulmana. Il califfo raccoglieva in sé i poteri esecutivi e giudiziari: non quelli legislativi, poiché la legge nell’Islam riposa sull’insegnamento coranico. L’elezione di questa guida politica e spirituale non impedì il sorgere di conflitti e di divisioni culminati con la scissione di Ali, cugino e genero del Profeta, che fondò la shî’a, il “partito”. Nacque così lo sciismo, la “confessione” dell’Islam che si oppose a quella ortodossa, detta “sunnita” (da sunna, “regola”, condotta”).
I sunniti riconoscono come fonti canoniche della fede sia il Corano sia la somma dei detti e dei fatti del Profeta tramandati in raccolte, detti “hadith”, gli sciiti accettano solo il Corano al quale nel tempo hanno aggiunto gli insegnamenti dei loro îmam (guide carismatiche), da Ali stesso in poi.

Da Gai. La Palestina è un altro fronte caldo, un conflitto che ha radici lontane e la storia recente ha aggravato la situazione. Da un lato Hamas, che ha costruito nelle zone controllate, una città sotterranea (depositi di armi e di munizioni, ospedali, rifugi, postazioni di fuoco, tunnel di collegamento con l’Egitto o gli insediamenti ebraici) che utilizza per colpire Israele, usando la popolazione palestinese come scudo; dall’altro Israele, che risponde all’offensiva di Hamas con tutto il suo potenziale distruttivo e le conseguenze si vedono, oltre milleseicento morti tra i palestinesi, in maggioranza civili.

Cardini. La radice della crisi israeliano-palestinese sta nella questione sionista. Nel 1862 il rabbino Zevì Hirsch Kalischer costituì un movimento politico-religioso che concepiva la restaurazione messianica (una patria per il popolo ebraico), non come un evento esclusivamente miracoloso, affidato alla volontà divina; ma anche come un evento politico, affidato alla volontà del popolo ebraico, alla sua lotta e alla sua determinazione. Gli ebrei dispersi in tutto il mondo dovevano rientrare in quella che fu la Terra Promessa, cioè in Palestina, (Eretz Israel per gli ebrei).
I primi pionieri ebrei in Palestina furono accolti in genere abbastanza bene. Tuttavia già dal 1891 i notabili arabi del Paese avevano rivolto al governo ottomano un appello affinché impedisse agli ebrei un ingresso indiscriminato e il conseguente acquisto di terre. La Palestina non era una terra “disabitata” per gente senza terra, ma una terra abitata e i suoi abitanti (gli arabi) non volevano cederla ai nuovi venuti.
Nel 1918, gli inglesi presero il controllo della Palestina, che l’impero ottomano aveva conquistato nel 1517 sconfiggendo i mamelucchi, e s’impegnarono a crearvi una patria per gli Ebrei. Questo impegno fu ratificato dal mandato che la Gran Bretagna ricevette nel 1922 dalla Società delle Nazioni.
Gli inglesi non tennero fede alla loro promessa e in Palestina la situazione divenne sempre più difficile da controllare: negli Anni Venti iniziarono gli scontri tra arabi e ebrei e quest’ultimi si organizzarono in formazioni paramilitari (l’Arghun e la Banda Stern) colpendo indistintamente arabi e inglesi; dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’afflusso di ebrei in Palestina cresceva di giorno in giorno.
Il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò un piano che suggeriva la spartizione della Palestina e la fondazione di due stati distinti (uno ebraico e l’altro arabo), destinando la città di Gerusalemme e i luoghi santi a un’amministrazione internazionale. I Paesi arabi rifiutarono tale soluzione che avrebbe impedito l’emergere di un conflitto non ancora concluso.
Nel 1948, l’Inghilterra rinunziò al mandato e in conseguenza di questo vuoto di potere, il 14 maggio del 1948 il Consiglio Nazionale Ebraico in Palestina proclamò la nascita dello Stato d’Israele. La Lega Araba attaccò Israele con il fine di cancellare il nuovo Stato, ma gli israeliani vinsero la guerra (grazie all’appoggio delle loro potenti lobby e alla disperazione di un popolo che lottava per evitare un nuovo “Olocausto” N.d.A.). Con la vittoria israeliana iniziò l’esodo di massa dei palestinesi dalla loro terra, proseguito anche negli anni successivi. Quasi 800.000 palestinesi lasciarono le loro case e furono costretti a rifugiarsi nei Paesi arabi vicini; tra questi “esiliati”, nel 1964 nacque l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat.
Nel 1967, con la guerra dei sei giorni, Israele si impossessò della Cisgiordania e di Gaza, le parti della Palestina che il piano ONU del 1947 aveva destinato alla creazione di uno stato palestinese. L’area conquistata sarà denominata “Territori occupati” e Israele per consolidarne la conquista, impiegherà i propri cittadini in una massiccia opera colonizzazione.
Il problema del ritorno degli arabi allora cacciati o dei loro discendenti, oppure del risarcimento delle terre e dei beni da essi abbandonati dal 1948, sta alla base delle attuali difficoltà nel raggiungere una pace soddisfacente. Una pace resa difficile: dalle provocazioni e dagli atti di efferata violenza, compiuti da ambo; dall’indifferenza del mondo arabo verso il dramma palestinese. Per risolvere il problema palestinese, sarebbe bastato che la ricca e poco popolosa Arabia Saudita, avesse offerto ai palestinesi della “diaspora”, una parte minima del suo deserto, dotandolo delle moderne tecniche d’irrigazione.
Con l’ingresso di Hamas la causa palestinese si è andata progressivamente musulmanizzando: con il risultato di pressioni e di persecuzioni ai danni dei cristiani palestinesi, che sempre più si sentono a doppio titolo stranieri nella loro patria: come arabi cacciati o discriminati dagli israeliani e come cristiani considerati dai loro compatrioti musulmani sospetti perché i fedeli di Cristo vengono sempre più guardati, nel mondo orientale, come filo-occidentali. Una tragedia nella tragedia, che rischia di mettere in crisi la sopravvivenza dell’antica cristianità araba.
Le vittime civili dell’offensiva israeliana sono la conseguenza della tattica di Hamas che spesso si fa scudo dei civili per lanciare i suoi attacchi allo Stato israeliano e alle sue truppe. Lo scopo è di costringere Israele a una risposta molto dura che crei numerose vittime tra la popolazione palestinese, in questo modo l’indignazione del mondo arabo e dell’opinione pubblica internazionale dovrebbe rimettere in moto la questione palestinese.
La risposta israeliana è sproporzionata: i razzi di Hamas, che il sistema missilistico israeliano facilmente neutralizza, non possono essere paragonati ai bombardamenti israeliani, che fanno strage tra la popolazione palestinese; non a caso, il numero di vittime palestinesi supera di molto quelle israeliane e tra le prime la maggioranza sono civili, bambini in particolare. I governi e l’opinione pubblica di Stati Uniti ed Europa, tollerano il comportamento di Israele per vari motivi: Israele è il più fedele alleato degli Stati Uniti nella regione, la lobby israeliana è molto forte in America e gli europei provano ancora un enorme senso di colpa per l’Olocausto. Senza il dramma della “Shoah”: forse Israele nemmeno esisterebbe e i crimini compiuti da quest’ultimo verso i palestinesi, desterebbero l’indignazione dell’intera comunità internazionale.

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RADIO CITTA’ FUTURA INTERVISTA ALDO BRACCIO SULLA TURCHIA

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Radio Città Futura intervista Aldo Braccio, collaboratore del sito Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, sulla Turchia.

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RODI 2014: COMPLETARE L’INTEGRAZIONE EURASIATICA

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Si è tenuta dal 25 al 29 settembre 2014 la quinta sessione annuale del Forum Giovanile di Rodi dal titolo: “Il coinvolgimento positivo della popolazione giovanile nella vita della società: dalle iniziative individuali alla cooperazione collettiva” organizzato da Youth Time International Movement (http://www.youth-time.org/).

Il convegno ha visto la partecipazione di oltre 140 giovani, selezionati da 45 paesi, che hanno seguito le lezioni di 12 esperti di diversi campi e predisposto una piattaforma di presentazione di ben 40 progetti.

Tra gli argomenti affrontati: l’ambiente educativo moderno, la diplomazia giovanile e le relazioni internazionali, l’imprenditorialità sociale.
Una delle giornate di lavoro è stata condotta in collaborazione con il World Public Forum “Dialogo delle Civiltà” (www.wpfdc.org) e durante la seconda sessione della tavola rotonda dedicata alla “Guerra dell’informazione” è intervenuto il Vicedirettore di “Eurasia” Stefano Vernole, insieme a Vladimir Yakunin (Presidente delle Ferrovie di Stato della Federazione Russa e Presidente del WPFDC) e a Rolf Schmidt Holz (ex giornalista di “Stern” e fondatore del Software AG).

 

foto rodi 1

Il dibattito è stato incentrato soprattutto sulla disinformazione dei media occidentali rispetto ai principali avvenimenti internazionali, partendo dall’aggressione alla Jugoslavia nel 1999 fino a quella più recente alla Siria o alle manifestazioni anti-cinesi di Hong Kong.
La manipolazione dell’opinione pubblica, dovuta soprattutto alla dipendenza delle maggiori agenzie dal potere finanziario (si pensi soprattutto all’influenza di George Soros in paesi come Serbia ed Ungheria), si è ormai estesa anche ai moderni social network e ha l’obiettivo di demonizzare e destabilizzare le nazioni indipendenti dalla NATO.

Nel sottolineare l’avanzamento del progetto d’integrazione eurasiatica, con la creazione della Banca dei BRICS e la cooperazione militare all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, Vernole ha auspicato la formazione di un soft power eurasiatico, realizzabile solo attraverso una più stretta collaborazione tra Russia, Cina, India, Brasile e Sudafrica.

Il momento storico è infatti favorevole, perché la maggior parte dei popoli del Pianeta auspica un sistema multipolare e non vuole vivere nel “mondo ad una dimensione” e dello “scontro di civiltà” auspicato dalle oligarchie finanziarie anglosassoni.

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COREA DEL NORD: LO SPECCHIO DELL’OCCIDENTE

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Gli articoli pubblicati da molti siti Internet e dai giornali italiani mainstream sulla Corea del Nord non contengono alcuna concreta informazione. Leggendone qualche esempio, è facile rendersi conto che in essi non c’è nessuna volontà di far conoscere il Paese da un punto di vista culturale, sociale o storico: essi sono mossi solo dalla necessità di servire una propaganda che si basa sul dogma che siamo il migliore dei mondi possibili e i paladini dei diritti umani, della libertà e della democrazia. Nessun luogo al mondo, più della Corea del Nord, col suo modello di vita antitetico al nostro, può meglio servire a questo scopo. L’inconsistenza delle argomentazioni è data a volte dalla superficialità, altre volte dalla contraddittorietà, in altri casi ancora dall’evidente falsità delle notizie riportate. Ma ci sono casi, come l’articolo apparso recentemente su un grosso quotidiano nazionale[ 1 ], in cui l’argomentazione usata per denigrare il Paese asiatico è così assurda da apparire quasi ridicola. E allora ci si chiede: chi scrive crede veramente in quello che dice, o ha una così scarsa considerazione dei suoi lettori da non ritenerli in grado di esercitare anche quella minima capacità critica che basterebbe per rendersi conto di essere ingannati?

Al di là di questo dubbio, tali articoli, più che far luce o informare sulla Corea del Nord, scopi per i quali sono del tutto inutili, possono servire però per capire i problemi dell’uomo occidentale quando si trova a confrontarsi con realtà lontane e diverse. Allora emerge soprattutto il vuoto spirituale di chi, lungi dall’accostarsi alle altre culture col rispetto necessario a chi voglia conoscere un qualsivoglia fenomeno, vi si avvicina invece col senso di superiorità e si pone al centro del mondo e della storia.

 

Un linguaggio sensazionalistico ed argomentazioni superficiali

La parola più usata nei testi che parlano di Corea del Nord è “surreale”. Essa serve per rendere forte il senso di lontananza, isolamento, irrealtà di un mondo, sentito così lontano da quello vero, cioè il nostro, da sembrare quasi lunare. Difficile è trovare un articolo sulla Corea del Nord che non contenga questa parola. Spesso, ad accentuare il senso di finzione, vengono utilizzate delle analogie, come quella del set cinematografico, a cui si ricorre spesso per descrivere la città di Pyongyang e l’altra, quella del mondo totalitario orwelliano, in riferimento all’organizzazione sociale. Negli articoli in cui il disprezzo è più forte, capita di trovare aggettivi come “agghiacciante” per descrivere il modo di vita, “visionario” per parlare di un modello urbanistico moderno, “lugubre” per definire uno spazio architettonico, “delirante”, “folle”, “disumana”, per definire l’ideologia. Sono parole che vogliono trasmettere disprezzo, odio, superiorità nei confronti di un sistema agli antipodi di quello occidentale, ovviamente il più libero, umano e razionale dell’universo.

Quei testi, purtroppo la stragrande maggioranza, scritti con lo scopo specifico di colpire negativamente la sensibilità del lettore, non contengono mai informazioni di carattere culturale. Non vi si parla di storia, di arte, di musica, di lingua, di tradizioni culturali, quasi questi aspetti non esistessero. Eppure le due Coree hanno una storia comune e non mancano, anche in Corea del Nord, testimonianze del passato, come templi buddhisti e musei che illustrano l’evoluzione dell’arte e della tecnologia, l’origine della stampa e lo sviluppo dell’artigianato, dei giochi e di altre tradizioni culturali, e biblioteche che ospitano un gran numero di opere letterarie e scientifiche. Parlare di questi aspetti farebbe apparire la Corea del Nord come un mondo ‘normale’, in cui esistono anche studiosi, archeologi e storici e gli toglierebbe quell’aura paranoica che tanto piace a certo giornalismo ‘di corte’. Quando si scrive di Pyongyang, non si deve mai parlare di uno stile artistico moderno inserito nel suo contesto storico, come si fa per ogni città del mondo; tutt’al più si può parlare di un modello visionario o di “mega-monumenti di dimensioni tali che potrebbero essere visibili dalla luna”. I riferimenti al passato, in genere agli anni Cinquanta o Sessanta, oppure al 1984 di Orwell, mirano a sottolineare l’arretratezza e l’estraneità della Corea del Nord al mondo attuale o lo stato di miseria in cui verserebbe eternamente il Paese. A questo punto non può mancare un riferimento al militarismo esasperato di un governo folle, avendo cura di non collegarlo alle esercitazioni militari statunitensi che avvengono regolarmente in concomitanza con l’esercito sudcoreano, a ridosso del trentottesimo parallelo, e al modo diverso dal nostro di concepire l’esercito, utilizzato dai nordcoreani anche per finalità civili, quali possono essere la costruzione di un ponte o la raccolta del riso.

 

Contraddizioni, bugie e paradossi

Leggendo testi diversi, capita di trovare descrizioni di carattere opposto riferite allo stesso luogo. Già nel 1980, Tiziano Terzani descriveva Pyongyang in questo modo: «Non fosse per i giardini pieni di fiori e le acacie sulle colline rigogliose e lungo il fiume, Pyongyang potrebbe apparire una città irreale, artificiale: una sorta di palcoscenico allestito per un film di fantascienza: ricca, coloratissima, ultramoderna, ma inquietantemente vuota» [ 2 ].

Affollata, quasi un’altra città, appare, al contrario, la Pyongyang descritta in alcuni siti Internet o riviste di turismo, che propongono ai lettori l’esperienza di un viaggio quasi marziano. Gli abitanti nella capitale nordcoreana ci sono, ma si muovono “in branchi”, “a frotte”, silenziosi ed inespressivi.

Il 2 aprile 2013, la famosa rivista di turismo Mete promuoveva un viaggio in Corea del Nord con queste parole: «Perché ( … ) un turista occidentale dovrebbe ambire a visitare la Corea del Nord? Non certo per i monumenti storici, la natura incontaminata e i paesaggi bucolici, che pure ci sono, ma piuttosto per toccare con mano le aberranti conseguenze a cui possono portare l’esasperazione delle utopie politiche e la mancanza di democrazia. Qui a colpire sono la fame scolpita sul volto delle persone vestite tutte in abiti militari, il fanatismo riconoscente verso una classe dirigente che li ha resi schiavi ( … ). I turisti possono muoversi solo su itinerari prestabiliti e accompagnati da poliziotti, senza alcun contatto diretto con la gente. Un solo prodotto come souvenir, oltre agli emblemi politici: l’insam selvatico, il miglior ginseng in assoluto ».

Su questo testo possiamo fare due osservazioni: la prima è sulla scorrettezza delle “informazioni”, chiaramente inventate. Basta anche una brevissima visita per vedere che i nordcoreani non sono tutti vestiti in abiti militari, che l’insam non è l’unico souvenir esistente in quel Paese e che non ci sono poliziotti che accompagnano i turisti ma due guide turistiche. Sicuramente l’autore non ha mai visitato la Corea del Nord e non si è curato minimamente di informarsi. Si è accontentato di riportare i più diffusi pregiudizi sul’argomento, accompagnandoli con qualche particolare che stesse con essi in sintonia, inventato di sana pianta. La seconda osservazione è più seria e tocca direttamente il tipo di sensibilità del turista occidentale e il rapporto della nostra cultura con un mondo diverso da sé, che in questo caso è la Corea del Nord, ma potrebbe essere anche qualunque altra cultura lontana dalla nostra. L’autore ci invita a visitare un Paese, non per i suoi monumenti storici o per i bei paesaggi, ma per vedere «la fame scolpita sul volto» di gente che viene descritta come in preda al fanatismo verso un sistema che l’ha resa schiava. Qui il problema non è più quello della veridicità o meno dell’informazione, ma investe il destinatario del messaggio. Che tipo di persona è quella che parte per un viaggio così lungo e costoso solo per vedere la fame “scolpita” sui volti della gente? Che tipo di persona è quella che sente il bisogno di assaporare la negatività di un mondo per il quale nutre solo disprezzo e che sente tanto ostile? Possibile che non ci sia nulla di meglio da fare per il privilegiato occidentale, che vive nel migliore dei mondi possibili, di un lungo, costoso viaggio nel posto più orribile del mondo? Siamo sicuri di avere meno problemi dei nordcoreani, almeno dal punto di vista dell’equilibrio interiore? Forse nella parte più profonda si sé, l’uomo occidentale non è poi così convinto delle sue libertà, se ha bisogno sempre di cercare negli altri o in ipotetici mondi alieni il male e la negatività, per sentirsi l’incarnazione del bene e della positività.

Spesso questi articoli nascondono soltanto un bieco servilismo nei confronti della propaganda statunitense, e a volte nemmeno lo nascondono. Prova ne è un articolo del Corriere del 16 luglio 2005, dove l’autore arriva ad accusare di miopismo un testo di tre giorni prima, in cui Pio D’Emilia ha osato parlare di “due tentativi di genocidio, prima da parte dei giapponesi e poi dagli americani”. «Passi per l’invasione nipponica, tremenda.», scrive Del Corona, «Forse nel caso degli Usa il termine è eccessivo, anche tenendo conto di napalm, vittime civili e città polverizzate. Forse cogliere la “dignità di questo popolo”, senza sottolineare il carico di condizionamento, appare un po’ riduttivo». Qui si arriva a mettere in dubbio anche la dignità di un popolo, con la tacita certezza di appartenere all’unico mondo dignitoso, proprio grazie alla corretta informazione di una “stampa libera” che chiede di minimizzare i crimini orrendi del padrone liberatore. Veramente un nobile esercizio di dignità e di libertà!

La disinformazione raggiunge livelli paradossali in un articolo apparso qualche giorno fa sul quotidiano La Repubblica. L’autore, dopo aver raccontato il pittoresco episodio di un contadino inferocito che lo inseguiva con un forcone mentre faceva jogging in una stradina di campagna, secondo lui perché scambiato per una spia americana, evoca ricordi «kafkiani, angosciosi e surreali» e fa un breve riferimento alla frontiera ‘smilitarizzata’, definendola «una polveriera con arsenali tali da poter annientare le due Coree». Ovviamente si astiene dal dire dove sono localizzati questi arsenali, né tantomeno parla della concentrazione di armi nucleari a sud del trentottesimo parallelo, la più alta del mondo. Ci rivela anche un piccolo segreto: «i bianchi vengono definiti tutti europei anche quando sono americani, visti i rapporti tesissimi fra Washington e Pyongyang». Non so da dove gli venga questa informazione. Posso dire, avendo visitato personalmente la Corea del Nord, di non aver mai sentito usare la parola “bianchi” in riferimento agli stranieri, ma di essere stata testimone di un linguaggio rispettoso ed alieno da ogni forma di razzismo. Mi è capitato inoltre di incontrare turisti statunitensi, sicuramente pochi, ma che non hanno fatto alcun mistero della loro nazionalità. Ma l’argomentazione più incredibile, che non mi era ancora capitato di leggere, è la seguente: «Non è prevista alcuna visita ai campi di concentramento dove si stima siano detenuti almeno 120.000 prigionieri politici». Come se dicessimo, nel criticare la politica statunitense, che non sono previste visite al campo di detenzione di Guantanamo. Qualcuno mi sa dire se esiste al mondo un Paese che prevede visite turistiche in carceri o luoghi simili?

Nonostante tutto, l’autore dell’articolo consiglia il viaggio, se non altro per godere dei paesaggi naturali incontaminati. Pensate forse che venga, almeno per questo aspetto, riconosciuto qualche merito alla Corea del Nord, che pur ha una legge sull’ambiente, divisa in cinque capitoli, contenenti 52 articoli sulla protezione e conservazione dell’ambiente naturale, la prevenzione dell’inquinamento e le sanzioni sui danni ambientali?[ 3 ] Assolutamente no. Dopo aver definito i paesaggi “incontaminati”, l’autore aggiunge «vista la tragica mancanza di sviluppo economico». La Corea del Nord non può essere salvata. Deve per forza rappresentare il Male assoluto. In essa non può esserci nulla di buono. La sola cosa buona non può che venire ancora una volta dall’Occidente, a cui il nostro giornalista assegna una missione civilizzatrice: i visitatori provenienti dal “mondo libero”, «non armati di “bazuka”», ma solo di democrazia, potrebbero «aprire gli occhi alla popolazione locale attenuando la presa della propaganda paranoica di sua maestà Kim».
Per concludere: sembra che il popolo nordcoreano qualche speranza ancora ce l’abbia. Almeno quella di vedere arrivare dei “salvatori” a liberarli da una propaganda che li rende schiavi. Ma i poveri popoli occidentali, chi li libererà? Resteranno prigionieri della loro illusione, e quando avranno conquistato anche i cuori e le menti dei nordcoreani, non potranno far altro che guardare all’interno dei propri e allora vi troveranno la desolazione, il vuoto, il nulla. E non avranno più alcuno scopo.

NOTE
1) Corea del Nord, di Federico Rampini, in La Repubblica, 24 settembre 2014
2) Tiziano Terzani, Corea del Nord: bandiera rossa, sangue blu, 1980
3) The law of the Democratic People’s Republic of Korea on the protection of the environment, Pyongyang, 1991

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SE NON PUOI CONTROLLARLI, DESTABILIZZALI. RIVOLTE DI PIAZZA E STRATEGIA AMERICANA

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A) UNA LUNGA PREMESSA GEOPOLITICA

 

A che servono i complotti?

E’ opportuno inquadrare i fatti di cui ci accingiamo a parlare nella strategia geopolitica americana, recentemente definita da Demostenes Floros “caos controllato”1. Occorre premettere che le teorie complottiste che vogliono tutti gli eventi che si succedono drammaticamente nei paesi non occidentali come rispondenti ad un’unica centrale americana siano poco convincenti. E’ innegabile che però operatori di intelligence e ONG americane o anglosassoni si attivino quantomeno come “facilitatori” di eventi destabilizzanti nei confronti di avversari, concorrenti – e alleati scomodi. E’ difficile credere che l’intelligence americana abbia attivato e gestito artificialmente un processo travagliato e complesso come le rivolte arabe: ad esempio, per eliminare un Mubarak o un Ben Ali (impopolari in patria) salvaguardando però la stabilità di paesi amici una congiura di palazzo sarebbe stata preferibile. E’ comunque chiaro che il fine ultimo della destabilizzazione del mondo arabo per impedirvi la penetrazione russa e cinese presupponga al contrario un lavoro carsico molto più complesso che si è trovato ad includere anche la rimozione dei regimi laici a vantaggio saudita (e qatarino). E’ utile sottolineare che nessuno dei movimenti gihadisti gemmati da Al Qaeda dopo le rivolte sembri sin ora costituire un pericolo concreto per Israele (sono anche di frequente avversari tanto di Hamas quanto del nazionalismo laico e socialista palestinese). Anche questo non significa automaticamente che l’intelligence israeliana manipoli gli eventi ma può senz’altro suggerire spunti di riflessione.

 

America, Cina, Russia

Obiettivo ultimo delle manovre americane di lungo termine sono la Russia e la Cina. Della Russia molto è già stato detto: far apparire Putin come aggressore provocandone la reazione dopo aver sabotato la fascia di sicurezza russa che passa inevitabilmente dall’Ucraina e dai Paesi Baltici ha permesso di ridurre la Russia all’isolamento dall’Europa (un’Europa incapace di proporre alternative politiche a causa della crisi economica e delle divisioni). I paesi Baltici pongono la NATO a pochi chilometri da Mosca e San Pietroburgo, mentre una penetrazione NATO in Ucraina pone forze potenzialmente ostili vicino ai centri urbani e industriali russi e costituisce un coltello straniero che può separare il centro nevralgico del paese dal Caucaso (proprio la strategia tedesca durante l’ultimo conflitto mondiale). Secondo tassello dell’indebolimento della Russia, del Venezuela e dell’Iran è il persistente calo dei prezzi del petrolio collegato alle attività saudite e al boom degli idrocarburi non convenzionali, boom “artificiale” in quanto sostenuto da massicci investimenti su pozzi meno produttivi in termine di costi di estrazione e di picchi produttivi. Qualora il prezzo generale dei combustibili fossili continuasse a calare l’attività di fracking potrebbe diventare paradossalmente meno conveniente per sua stessa causa: ecco che il tutto si spiega come chiara strategia politica di indipendenza energetica americana, strategia che permette anche un affrancamento dal Medio Oriente – area divenuta talmente poco interessante per gli USA che essi possono permettersi di “trattare” lo Stato Islamico con semplici bombardamenti e tattiche aeree (poco efficaci contro un nemico che per quanto si autodefinisca “Stato” fa in realtà ampio uso di tecniche asimmetriche e che ha strutture logistiche flessibili). Il punto debole di questa macrostrategia statunitense (“destabilizza ciò che non puoi conquistare”) risulta essere, in definitiva, la Cina. Un prezzo più basso degli idrocarburi la favorisce piuttosto che danneggiarla e anche qualora se ne inibisca l’accesso al Medio Oriente si spingono comunque Iran e Russia nelle sue braccia. Ecco che allora si procede attuando una strategia di accerchiamento del Celeste Impero da parte di stati ostili (criticità: l’ambiguità dell’India, anticinese ma filorussa). A tendere si favoriranno contro di essa delle rivolte di piazza? Hong Kong, culturalmente quasi un cavallo di troia occidentale in Cina, sembra essere l’ottimo punto di partenza per tale movimento. Sarebbe interessante capire se e quanto vi siano collegamenti non solo culturali ma anche economici e organizzativi tra gli studenti della città e ambienti politici anglosassoni. E’ sempre utile ribadire che i complotti spesso non servono: basta la promozione di una cultura, di una mentalità e di un’idea.

 

B) DALLA STRATEGIA ALLA TATTICA: LA DIFESA DELLO STATO

Perché studiare le rivolte

I recenti eventi di Hong Kong, a pochi mesi da quelli di Kiev e Caracas e mentre il Medio Oriente è ancora avvolto nelle fiamme conseguenti alla destabilizzazione operata dalla Primavera Araba, riportano al centro del dibattito strategico un tema antico ed attualissimo: la tutela della stabilità dello Stato. Il minimo comun denominatore di questi eventi è il loro carattere globalizzato pur nel nuovo mondo multipolare: il paradigma è quello dello spettacolo della pacifica rivolta popolare che si avvale dei moderni strumenti di comunicazione.

Similitudini tra le proteste interne al mondo occidentale e quelle interne a paesi non occidentali
Molte sono le differenze tra il movimento dei giovani di Hong Kong, quelli del Cairo e quelli di Kiev, eppure vi è qualcosa che accomuna questi movimenti a quelli degli indignados e dai movimenti nimby (come i NO-TAV) europei, agli Occupy Wall Street americani e ai movimenti ecologisti e bracciantili sudamericani: la percepita mancanza di rappresentatività, tanto da parte dei sistemi liberlademocratico-capitalisti quanto di quelli autoritari o maggiormente statalisti. Per quanto possano essere diversi i manifestanti della sinistra europea, figli di un ceto popolare di nuovi poveri, l’eterno proletariato urbano – oggi alfabetizzato – in Egitto o gli studenti borghesi di Hong Kong, ciò che accomuna tutti i brodi di coltura della protesta è questo: il non sentirsi rappresentati al di là dell’effettivo riscontro di tale percezione. Quindi, dove sta il livello geopolitico della vicenda e dove le differenze? Nel fatto che chi protesta ad Atene viene criminalizzato dai nostri media mentre chi protesta a Kiev viene esaltato. Ancora: perché? E perché i manifestanti di Kiev sono vincenti e quelli di Atene perdenti?

 

Il manifestante non occidentale come strumento: lo schema delle rivolte.

Ebbene: per sua stessa natura, anche quando inconsapevole e in buona fede o quando usufruisce di finanziamenti, addestramento, preparazione, appoggio mediatico, diplomatico e logistico attuati palesemente o surrettiziamente tramite una rete globale di ONG occidentali, il manifestante non occidentale è strumento della geopolitica degli USA e dei suoi alleati – si pensi al caso turco sul quale l’occidente non ha speso un decimo dell’indignazione che ha mostrato per i fatti di Kiev a riconferma della natura strumentale degli interventi delle nostre cancellerie. Laddove il manifestante occidentale rincorre obiettivi astratti, il manifestante non occidentale è più forte perché ha un obiettivo politico chiaro e immediato: il superamento della condizione contingente. Ciò non vuol dire che abbia un programma per il “dopo” ma proprio questa povertà strategica lo rende ancor più utilmente manipolabile. L’hic et nunc però è chiarissimo: “il popolo vuole la caduta del regime” (2). Quando poi la reazione dei governi e le provocazioni degli infiltrati dei servizi e delle stesse forze di sicurezza hanno causato il superamento della fase “non violenta” della protesta, durata però abbastanza da qualificare il manifestante come vittima, ecco che intervengono soggetti ben più adusi allo scontro e in grado di battersi con la polizia, ormai avvolta nel sudario morale di “macellaio del proprio popolo”. Il campo è sgombro per i vari Fronte Al Nusra, Pravij Sektor e Svoboda, vera manovalanza degli interessi USA (sempre al netto delle differenze tra loro). Vi è dunque uno schema di base, uno schema fatto di regole proverbialmente confermate dalle eccezioni: in Serbia Milosevic era già sufficientemente logorato da non richiedere eccessiva violenza per essere abbattuto mentre ad Hong Kong non vi sono né fondamentalisti islamici né estremisti di destra e nemmeno ultras da stadio in grado di prendere le armi contro le forze di sicurezza.

 

Non più “reprimere” ma “gestire”.

Nonostante le differenze e anzi, proprio in virtù di esse e del pericolo che tali proteste rappresentano per la stabilità dei governi delle aree geopoliticamente più complesse del globo, gli stati posti sotto attacco da questa raffinata strategia destabilizzatrice si attivano per difendersi in modo nuovo. L’operato delle forze di sicurezza di Hong Kong – almeno fino alla data in cui scriviamo, il 3 Ottobre 2014 – è da analizzare. Non punta a reprimere la protesta (creando martiri la cui pericolosità è proporzionale al peso che i media diffusi hanno nella nostra epoca) bensì mira a spegnerla, ad assopirla togliendole ossigeno. Tutto si gioca su due livelli: quello fisico e quello della comunicazione. Vediamo di capire come nel modo più sintetico possibile, partendo dall’operato più recente della polizia cinese (nei limiti di quanto ci sia noto) e aggiungendo alcune considerazioni.

 

1. Il momento “fisico” dello scontro: niente martiri.

Il manifestante pacifico non va reso martire. Quello non pacifico non deve avere l’occasione di nuocere. Come conciliare queste due esigenze? Allontanando le forze di sicurezza dal terreno di scontro e impedendo così che entrino a contatto coi manifestanti. La polizia deve (al massimo) presidiare i luoghi nevralgici dell’amministrazione pubblica e i centri chiave della comunicazione logistica e mediatica per prevenire sabotaggi. Come tutelare l’autorità e l’immagine dello Stato nei confronti del cittadino che non supporta le proteste ma chiede sicurezza? Chiedendo ai negozi di rimanere chiusi a causa del pericolo rappresentato dai “teppisti” (così verranno definiti nella prima fase della protesta) e dei “terroristi” (così solo a protesta avanzata se “qualcuno” avrà compiuto saccheggi. Sempre meglio non abusare del termine e non inflazionarlo). Ciò mostrerà la polizia come forza di pace: non vuole alzare le mani su quelli che sono pur sempre “figli nostri”. Certo, ciò porterà ad un deficit di sicurezza. La colpa è dei manifestanti. I negozi restino chiusi, le attività economiche ferme: ciò alienerà verso chi protesta le simpatie dei cittadini.

2. La comunicazione: deve risuonare una sola voce.

Quella del governo. I media devono raccontare la professionalità delle forze dell’ordine. Nulla deve trasparire delle ragioni dei manifestanti. Devono essere ridotti a corpo estraneo rispetto al resto del tessuto sociale. Quanto ad internet, va oscurato senza annunci di volerlo fare e nel silenzio più totale. Anche la rete dei cellulari va disattivata, insieme alle cellule e ai server. Tutto potrà essere attribuito ad incidenti in un secondo momento. Staccare internet può essere però un’arma a doppio taglio: è utile al nemico ma utile anche per ascoltarlo e spiarne le mosse. Lo spegnimento può essere interpretato come un segno di debolezza del governo: deve durare lo stretto indispensabile e va attribuito ad incidenti o sabotaggi dei manifestanti per quanto ciò posa essere credibile. Se il nemico non può comunicare io non lo posso ascoltare. Il buio notturno costringe a casa le persone oneste e lascia via libera ai criminali ed al nemico: questo però aumenta nei cittadini il senso di insicurezza e anomia associato al periodo di proteste.

3. La repressione chirurgica. Dosare la forza.

Evitato lo scontro di piazza, attivata la propaganda e “accecato” il più possibile i manifestanti non si può però lasciare loro troppo tempo. Gli infiltrati provvedono a fornire le coordinate del nemico. Al di là dell’affidamento che si può fare sull’Elint, Osint e Sigint il fattore Humint – human intelligence – rimane fondamentale. I capi della protesta e della sommossa vanno individuati e posti agli arresti ma in modo chirurgico, possibilmente di notte e nel silenzio e mai durante gli eventi. Mai, chiaramente, in favore di telecamere. Le operazioni di arresto devono essere discrete. Non un arresto in più del necessario. Non arresti di massa: questi forse provocano spavento, ma affrontare lo spavento rafforza il nemico. Pacifico che ogni attività delle ONG straniere vada severamente vietata e anzi, bisogna favorire la mobilitazione di quella parte della popolazione favorevole al governo, facendo sì che il manifestante non possa ergersi a “voce del popolo”.

 

Conclusioni: Sun Tzu

Le tattiche implementate dalle forze di sicurezza cinesi – e sempre più da quelle russe – non mirano a vincere la battaglia urbana: mirano a evitarla applicando Sun Tzu all’ordine pubblico. Spegnere la rivolta “politica” dei manifestanti significa sottrarre dalla loro vista l’obiettivo politico (il governo e le sue articolazioni).

 

C) APPENDICE: COME MAI LE PROTESTE DI CASA NOSTRA SONO INEFFICACI

Sarebbe interessante, una volta compreso “come funzionano” le rivolte o i tentativi di rivolta fuori dall’occidente e come i governi provano a reagire, comprendere anche perché i manifestanti in occidente non riescono a raggiungere obiettivi di sorta. Come mai nei paesi non occidentali si abbattono governi autoritari mentre da noi non si riesce ad ottenere nemmeno il minimo da governi eletti? Innanzitutto, lapalissianamente, perché la natura elettiva dei nostri governi ne preserva quantomeno la formale legittimità. Si calcoli poi che nei paesi occidentali i giovani sono di meno di adulti e anziani e possono quindi contare su scarso peso numerico; in aggiunta, mentre i giovani arabi – ad esempio – non avevano nulla da perdere, i nostri giovani hanno da perdere il sostegno dei loro genitori – spesso unica fonte di reddito – contro i quali non si rivolteranno mai. E’ il “paradosso dell’embargo” che non aliena alla popolazione il governo del paese sotto sanzioni ma anzi la rende dipendente da esso per la distribuzione delle poche risorse di sopravvivenza. C’è dell’altro: nessuna potenza esterna o forza mediatica appoggia e sostiene chi manifesta in occidente o tra i suoi amici (ancora il caso Gezi Park). Il punto da cui siamo partiti è però quello della visione politica: anche se soli, pochi e poveri, coloro che hanno un progetto politico strutturato – come insegna il meglio della letteratura leninista – possono ottenere qualcosa. Ecco che apprendiamo che l’obiettivo di ogni rivolta, sommossa, rivoluzione e manifestazione deve essere politico e chiaro. Non si fa una manifestazione, non si organizza una rivolta o una dimostrazione per chiedere “un mondo migliore”, “più solidarietà”, “meno austerità” e altre cose vaghe o astratte. Si scende in piazza in massa per le dimissioni del ministro X, si blocca il paese con uno sciopero generale per chiedere il ritiro della legge Y. O il tema politico è concreto o non è. L’obiettivo deve essere raggiungibile e futuro. Non ha senso abbandonarsi alla violenza anti-TAV quando il progetto è già partito dopo anni di programmazione. Si può però bloccare una legge “to be” che parla di privatizzazione del servizio di gestione delle acque. Senza tattica non c’è strategia ma senza visione non possono esserci né l’una né l’altra.

NOTE
1) http://temi.repubblica.it/limes/il-caos-controllato-degli-usa-dallo-stato-islamico-allucraina/66944
2) “Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām”, slogan della “Primavera Araba”.

Bibliogafia
Sun Tzu, “L’arte della guerra”, Mondadori, 2004
Alfredo Macchi, “Rivoluzioni S.p.a. Chi c’è dietro la primavera araba”, Alpine Studio, 2012
Roberto Iannuzzi, “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, Castelvecchi, 2014

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LA FABBRICA DELLA MANIPOLAZIONE. COME I POTERI FORTI PLASMANO LE NOSTRE MENTI PER RENDERCI SUDDITI DEL NUOVO ORDINE MONDIALE

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Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, La fabbrica della manipolazione. Come i poteri forti plasmano le nostre menti per renderci sudditi del Nuovo Ordine Mondiale, Arianna Editrice, Bologna 2014

Qual è La fabbrica della manipolazione di cui scrivono Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta nel loro ultimo libro pubblicato da Arianna Editrice?

Chi più, chi meno, tutti abbiamo sentore del fatto che è in opera, da parte di quelli che in copertina vengono definiti i “poteri forti”, un plagio globale che utilizza strumenti come i mass media e la cultura. Eppure relativamente pochi sono quelli che hanno compreso che l’obiettivo di una “manipolazione” che ha per oggetto le menti e i cuori è quello di “renderci sudditi del Nuovo Ordine Mondiale” (cito ancora dalla copertina).

Tuttavia, prima di entrare in alcuni dettagli, sarà bene puntualizzare queste due definizioni.
È difatti piuttosto in auge tirare in ballo i “poteri forti” ogniqualvolta un personaggio in vista viene fatto oggetto di virulenti attacchi (mediatici, giudiziari ecc.), fino a provocarne eventualmente la caduta in disgrazia. Ogni fazione agita questo spauracchio per difendere le proprie posizioni sotto attacco, ma alla fine nessuno – compresi quelli in vena di “rivelazioni” come l’ex ministro Tremonti – ha mai spiegato bene di che cosa si tratti. Probabilmente perché non se ne comprende la vera natura o semplicemente perché non si può parlare più di tanto (esiste per la verità anche la terza ipotesi: molti “rivelatori” non sarebbero altro che dei “guardiani della soglia” la cui funzione è quella di lasciar trapelare ciò di cui sono stati incaricati, persino a loro insaputa).

Anche sul “Nuovo Ordine Mondiale” è stata scritta e detta una montagna di cose, ma raramente si va al centro del problema, che non è semplicemente d’ordine politico, economico, sociale e culturale. O meglio, è tutto ciò assieme, ma in un amalgama che sfocia in quello che convenzionalmente viene definito l’ambito “spirituale”. Per questo non bastano a spiegare la questione gli oramai scontati riferimenti agli Illuminati di Baviera o a qualche altra, seppur potente, congrega. Anche i famigerati “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, se interpretati come la prova provata di un “complotto giudaico”, rappresentano una potente forma di depistaggio.

I “poteri forti” individuati da Perucchietti e Marletta non sono perciò quelli della finanza o dell’industria, della politica o della cultura, ma sono in un certo senso una sintesi di tutto questo, o per meglio dire sono degli ambienti, diretti da individualità “eccezionali” agli ordini di entità maligne, che agendo anche nei suddetti domini si prefiggono proprio obiettivi di carattere eminentemente “spirituale” (sebbene “a rovescio”).
Siamo di fronte, dunque, ad una manipolazione su ampia scala e nei più reconditi anfratti della psiche umana, finalizzata all’instaurazione di una parodia della Realizzazione, al livello dell’individuo, e dell’Impero, a quello delle comunità umane (qualcuno ricorderà come per alcuni anni sia circolata – anche in ambienti cosiddetti “antagonisti” – l’idea che l’America rappresenti l’ultima manifestazione dell’idea di Impero).

Alla luce di questo, è apprezzabile che gli autori citino in apertura René Guénon, ricordandone le riflessioni sulla diffusione degli “stati d’animo”. Tuttavia, i riferimenti al metafisico francese entrato in Islam (ma non “convertito” come s’intende correntemente) finiscono qua, anche se è intuibile una matrice culturale dei due autori che, sebbene non strettamente “tradizionalista”, tiene nel debito conto l’insostituibile bussola fornita sia dal Guénon che dagli altri esponenti della Tradizione Perenne.

Il libro che recensiamo, dunque, pur non avendo alcuna pretesa di sostituirsi a pietre miliari quali La crisi del mondo moderno e Il regno della quantità e i segni dei tempi dello stesso Guénon, nei quali è contenuto – con una facoltà di preveggenza sbalorditiva – tutto quel che poi s’è puntualmente verificato e si verificherà, rappresenta un’esauriente panoramica di tutti i vari fenomeni del disordine contemporaneo, in specie sul piano del mentale (e dello pseudo-spirituale, quindi), che minano l’integrità stessa dell’essere umano sottoponendolo alla peggiore di tutte le schiavitù.

Che non è ancora quella del “Nuovo Ordine Mondiale”, sebbene i suoi adepti siano effettivamente aberranti e ripugnanti, bensì quella del proprio ego, ovvero quel “satana interiore” che, una volta preso a propria guida ci conduce dritti verso il fallimento in questa vita e nell’altra.

Questo va chiarito anche in sede di recensione perché altrimenti potrebbe esistere il concreto rischio che un lettore di opere come questa, che hanno l’indubbio pregio di aprire gli occhi su una “cospirazione” di cui gli stessi autori non nascondono la radice satanica, vengano mal interpretate e addotte a pretesto per gettarsi in un pessimismo cosmico o in uno stato di agitazione mista a rabbia dovuto all’effettiva enormità delle questioni qui descritte, analizzate e ricondotte ad un’unica essenziale matrice.

Fatta questa necessaria premessa, veniamo ai contenuti del presente libro, che in buona sostanza – senza aver la pretesa di indicare una “via” – ha lo scopo di mettere in guardia dai numerosi inganni che la “civiltà moderna” sta sempre più rapidamente offrendo, e, in particolare, dai loro suadenti e pericolosissimi araldi, i quali sono abili nel presentarsi a masse disorientate (perché senza quei solidi strumenti che sono le religioni quando non diventano un’ideologia identitaria) come dispensatori di sempre nuovi ed accattivanti “paradisi”.

Ecco perché diverse pagine del libro sono dedicate alle droghe allucinogene, che hanno visto alcuni dei loro “profeti” (questi, ad onor del vero, in maggioranza ebrei, come altri esponenti di spicco della “controcultura”) andare a braccetto coi peggiori settori dei servizi segreti occidentali, in un coacervo di “esperienze” finalizzate al controllo mentale e allo sviluppo di certi “poteri della mente”.

In fondo, aggiungiamo noi, è l’intero mondo moderno, con l’illusione che sia l’unica e vera realtà, ad essere un’allucinazione, quindi non sorprende che in questo contesto abbiano avuto parte anche gli allucinogeni veri e propri, i quali hanno ispirato certa letteratura e, in seconda battuta, anche certo cinema (altra droga di massa, assieme ai videogiochi, ora che è in modalità tridimensionale) dai contenuti fantascientifici e preveggenti perché di fatto predittivi di ciò che bolliva in pentola.

La musica delle cosiddette “star” (che sempre più, da veri “divi di Stato”, ostentano il loro “impegno” politico e sociale) s’inscrive nel medesimo filone deviato e a sua volta deviante, mentre l’arte moderna (anch’essa sostenuta dai servizi segreti occidentali), coi suoi obbrobri non ha altro fine che destrutturare la naturale gerarchia interna degli esseri umani (pp. 131-134).

La televisione – lungi dall’essere superata – è poi il perno di tutto quest’apparato di manipolazione, tanto che secondo gli autori, i quali basano le loro affermazioni anche sulle ammissioni degli stessi manipolatori, essa è una droga a tutti gli effetti, con cui sperimentare nella mente dei tele-sudditi tecniche note in psichiatria che fanno uso di diabolici stratagemmi quali i messaggi subliminali e l’ipnosi.

Internet e l’utopia dell’interconnessione di tutto e tutti non fa che perfezionare il meccanismo, offrendo la possibilità di crearsi “nuovi mondi” e “seconde vite” apparecchiate per sfuggire dalla propria responsabilità e dall’accettazione della propria condizione, che da sempre è stata il prerequisito per ogni ulteriore progresso spirituale.

Nell’armamentario dei burattinai al servizio del maligno non mancano poi attrezzi sfoderati più di recente, come la “ideologia di genere” (cap. 3), di cui abbiamo già riferito nella recensione di un altro libro dei medesimi autori e che attraverso omosessualismo, denatalismo, abortismo ed altre delizie punta alla distruzione della famiglia in nome del “diritto di scelta”, della “tolleranza” e della “diversità”.

In definitiva, questa gigantesca opera di traviamento in cui ha la sua parte anche la scuola (cap. 5) con la sua “autorevolezza”, si esplica nell’imposizione, palese ed occulta, di “modelli” ai quali i “perfetti cittadini” sono tenuti a conformarsi. I paradigmi scolastici si radicano ancor più in profondità dei contenuti, ma gli uni e gli altri forgiano un “cittadino modello” che, per esempio, non sospetterà mai nulla al riguardo dell’inganno della Teoria evoluzionista e delle sue innumerevoli implicazioni sociali, economiche e politiche.

Quello che invece i mansueti abitanti del “mondo globale” non devono fare è evidente, se si pensa che uno degli obiettivi principali degli adepti della dissoluzione è la distruzione delle religioni. Un’impresa, questa, per la verità non troppo difficile a causa dell’inadeguatezza dei loro stessi rappresentanti ufficiali. Che dire, per esempio, di fronte a “cattolici da Onu” o Papi che auspicano un “Nuovo ordine mondiale” e che per stare “al passo coi tempi” giustificano ogni deviazione dalla Retta via impegnandosi sistematicamente nell’ingenerare dubbi e confusione tra i fedeli? Ma anche le altre religioni, sotto quest’aspetto, non stanno certo meglio, se solo si riflette sulla bancarotta dottrinale e morale (coi suoi risvolti geopolitici) di un certo “Islam ufficiale”. È quello che Perucchietti e Marletta indicano come lo “svuotamento dall’interno” delle religioni, preludio all’ottimistica “religione fai da te” (New Age).

Il “relativismo” religioso, e quindi etico, produce indifferentismo verso ciò che è vero e falso, verso il giusto e lo sbagliato. Tutto alla fine è giustificato, purché risponda alla massima satanista del “fai ciò che vuoi”.
Che poi si tratti di una falsificazione, perché ontologicamente falsa è la fonte del messaggio relativista, è un altro paio di maniche, ma chi ha sviluppato una certa profondità di visione non avrà difficoltà nel constatare che in questo sistema non è affatto vero che ciascuno può fare quello che vuole. Ma questo viene fatto credere incessantemente, se non esplicitamente, attraverso l’appropriazione intima di modelli e stili di vita, perché un essere umano che s’illude di essere completamente “libero” è praticamente il più manipolabile che esista. Difatti, qualsiasi “occidentale” soddisfatto d’esser tale ha l’assoluta certezza che in ogni tempo e in ogni luogo sono sempre stati meno “liberi” che adesso in Occidente.

Ecco uno degli “stati d’animo” di cui sopra, le cui implicazioni sono innumerevoli e descritte anche in questo libro: dalla “guerra al terrorismo” alla “islamofobia”, fino alla “esportazione della democrazia” in cui gran parte l’hanno enti che tra le loro priorità pongono, una volta messa a segno una “rivoluzione” in qualche parte del pianeta, la profonda e drastica ristrutturazione delle società e delle scale valoriali.
In questo quadro di sovversioni, la “crisi” giunge a fagiolo, anzi viene creata ad hoc come “stato d’animo” di un’epoca nella quale si devono far accettare dei rapidi e profondi cambiamenti altrimenti difficili da digerire.

Al termine dei quali, paventano gli Autori, si pone “l’agenda transumanista”, la quale è né più né meno che – in salsa ipertecnologica o biotecnologica – il sogno prometeico dell’uomo-dio. La digitalizzazione della vita dei moderni occidentali, oltre ad avere delle implicazioni radicali sul modo in cui essi percepiscono se stessi e il loro posto nel mondo, finisce per risolversi nel contrario di quello che sembra: l’autoannientamento volontario dell’individuo, come previsto dal romanzo distopico di George Orwell 1984.

Come in quell’incubo che va travasandosi nella realtà, i “poteri forti” non si stanno più accontentando di una passiva obbedienza, ma cercano in ogni modo di violare anche quell’ultimo Sancta Sanctorum che alberga nel cuore di ognuno.

Sotto quest’ultimo terrificante aspetto tutte le tradizioni regolari sono concordi nel riferire che non praevalebunt. Per questo, come scrivevamo all’inizio, un conto è essere informati e avvertiti dei pericoli che ci circondano e che tentano d’insinuarsi anche in ciò che abbiamo di più caro e prezioso, un altro è lasciarsi andare ad un senso d’impotenza paralizzante che, non va sottaciuto, è uno degli esiti desiderati da chi ha il compito per così dire ‘statutario’ di farci fallire in questa “prova” che è la vita, alimentando col nostro stesso fallimento le fiamme di quegli inferni dei quali – mentre credono agli Ufo e ad altre illusioni – i moderni si prendono sconsideratamente gioco.

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VENTI DI GUERRA

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Si può non essere d’accordo con Paul Craig Roberts, per il quale l’arroganza di Washington sta trascinando il pianeta verso la Terza guerra mondiale, (1) ma è indubbio che l’amministrazione Obama si sia rivelata perfino più aggressiva e pericolosa di quella di George W. Bush. Questo non significa che alla Casa Bianca siano cambiati i suonatori mentre la musica è rimasta la stessa. Mutamento di strategia c’è stato, quel che non è cambiato invece è il “fine ultimo” della politica di Washington. Com’è noto, una volta scomparsa l’Unione Sovietica, gli Usa si sono costantemente adoperati non solo per evitare che potesse nascere un “polo geopolitico” alternativo a quello atlantico, ma anche per acquisire il definitivo controllo del “centro” stesso della massa eurasiatica (Heartland), che coincide grosso modo con i territori dell’ex Unione Sovietica. Nondimeno, sia l’intervento in Afghanistan che quello in Iraq, il cui fine principale era appunto il controllo diretto dei principali “poli energetici” dell’Eurasia (inclusa la relativa rete di oleodotti e gasdotti), non ha potuto impedire né la (strabiliante) crescita economica della Cina, né quella dell’India (meno rilevante di quella cinese, ma anch’essa considerevole), né la “ripresa” della stessa Russia, che, grazie a Putin, è diventata di nuovo, facendo leva sulla propria ricchezza energetica, un attore geopolitico di primo piano sulla scacchiera mondiale, scombussolando i disegni degli “strateghi del capitale” occidentali. Per di più, anche sotto il profilo strettamente militare l’esercito “ultraleggero” e “ipertecnologico” voluto da Rumsfeld alla prova dei fatti si è dimostrato tutt’altro che efficiente. Durante l’attacco all’Iraq nel 2003, i comandanti americani delle singole unità sono stati sommersi da un tale massa di informazioni, che in molti casi hanno preferito spegnere i computer, ma soprattutto la gestione del personale militare si è rivelata essere estremamente difficoltosa e fonte di parecchi “guai”. (2) Come al solito, gli Usa hanno cercato di porre rimedio a questi inconvenienti con l’aviazione (l’autentico “grosso e lungo bastone” di Washington) e aumentando enormemente la potenza di fuoco dei propri reparti impegnati in combattimento, ossia dando la “caccia ai calabroni con i cannoni”. Ma agendo così era inevitabile che perdessero l’effettivo controllo del territorio sia in Afghanistan che in Iraq.

Va da sé, infatti, che gli Americani, essendo preparati soprattutto per una “guerra industriale”, come fu (almeno sotto certi aspetti) la Seconda guerra mondiale, ovvero per quella battaglia campale in un contesto altamente tecnologizzato, che Saddam aveva dato loro la possibilità di combattere nella Guerra del Golfo nel 1991, (3) se costretti a far fronte ad un nemico che impiega strategia e tattiche “elusive” e “indirette”, come quelle adottate dai vietcong e dagli stessi “regolari” nordvietnamiti, (4) non possono non trovarsi ad affrontare problemi simili a quelli che si erano già manifestati durante la Guerra del Vietnam (benché con “contraccolpi” assai meno rilevanti sul “piano interno”, dato che l’esercito americano non è più basato sulla coscrizione obbligatoria come in Vietnam). Pertanto, per Washington è di gran lunga preferibile evitare di impiegare unità di fanteria americane in teatri di guerra “non convenzionale”. Un limite della potenza militare “effettiva” degli Stati Uniti, di cui gli “strateghi” americani hanno dovuto prendere atto, riconoscendo al tempo stesso che il dominio diretto del “cuore” dell’Eurasia era al di là delle risorse non solo militari ma pure economiche degli Usa. Naturalmente ciò non significava che non fosse possibile passare da una strategia di tipo “unipolare” ad una strategia “a geometria variabile”, imperniata sì sempre sul predominio degli Usa, ma tale da riservare ad altri centri di potere (alleati di Washington, s’intende) un ruolo da protagonisti, sia pure a seconda del contesto e delle diverse “aree geopolitiche”.

La svolta in questo senso si è avuta appunto con l’elezione di Obama a presidente degli Usa (novembre 2008), al quale i “rinoceronti” (5) di Stoccolma, solo pochi mesi dopo il suo arrivo alla Casa Bianca, hanno addirittura assegnato il premio Nobel per la pace (ottobre 2009). Che i “venusiani” europei (ammessa e non concessa la loro buonafede) fraintendessero le reali intenzioni della nuova amministrazione di Obama non sorprende, poiché la sola “intenzione” di Obama di ritirare i soldati americani sia dall’Iraq che dall’Afghanistan veniva considerata dai media mainstream (che ora definiscono Obama il “guerriero riluttante”) la prova che l’America aveva voltato pagina. In realtà, anche se Obama ha effettivamente ritirato le truppe d’occupazione americane dall’Iraq, sancendo così il fallimento dell’intera operazione che ha portato alla caduta di Saddam, il ritiro dall’Afghanistan (in cui Obama ha dovuto inviare perfino altri soldati) sembra più problematico del previsto, e l’esercito degli Usa s’è ridotto ad usare i droni, inimicandosi così perfino coloro che dovrebbe difendere. Quel che più conta però è che con Obama la strategia americana mutava davvero, diventando una strategia basata sull’“approccio indiretto”, vale a dire che Washington dava “carta bianca” a vari centri di potere atlantisti (Ong, fondazioni, associazioni etc.) e soprattutto alle petromonarchie del Golfo (Arabia Saudita, Qatar ed Emirati arabi), per ridefinire gli equilibri geopolitici mondali (con speciale attenzione per il mondo islamico), alla luce di una situazione internazionale diventata estremamente “fluida” per la crisi stessa del cosiddetto “unipolarismo statunitense”. In particolare, per gli Usa era adesso necessario non solo sbarazzarsi di vecchi e ormai scomodi alleati, ma soprattutto “liquidare” Assad, alleato della Russia e dell’Iran, ed eliminare definitivamente la Giamahiria di Gheddafi – il cui panafricanismo, oltre che irritare buona parte della ricca borghesia libica, in primo luogo quella bengasina, ferocemente razzista e da sempre ostile a Tripoli, non poteva non essere malvisto sia da Parigi che da Washington (alleati in funzione anti-cinese, dopo anni di rivalità e lotte, più o meno sotterranee, nel continente africano). (6)

In sostanza, si è ripetuto, mutatis mutandis, quanto accaduto nel secolo scorso, allorché gli Usa decisero di appoggiare la guerriglia dei mujaheddin contro il regime filosovietico di Kabul (per indurre Mosca ad intervenire in difesa dei propri alleati, di modo che i sovietici “si impantanassero” in un guerra simile a quella combattuta dagli Usa in Vietnam e che perciò Mosca non avrebbe potuto vincere, mentre avrebbe solo aggravato la già difficile crisi dell’Unione Sovietica). (7) Gli Usa si fecero allora promotori di una sorta di “guerra santa” del mondo islamico contro il regime Kabul, che coinvolse soprattutto il Pakistan e l’Arabia Saudita. E furono proprio i “servizi” sauditi a selezionare come capo della “brigata araba” Bin Laden, il quale aprì numerosi uffici di reclutamento non solo in diversi Paesi musulmani, ma pure negli Usa. Nasceva in tal modo la famigerata Al Qaeda, che avrebbe addestrato decine di migliaia di combattenti “islamisti”, considerati da Washington combattenti per la libertà. Quando l’Armata Rossa (nel 1989) si ritirò dall’Afghanistan, solo alcuni di questi combattenti rimasero in Afghanistan, finché i talebani (finanziati dal Pakistan) conquistarono il potere (nel 1996). Buona parte di loro però si sarebbero recati a combattere in altri Paesi, tra cui l’Algeria, la Bosnia, il Kosovo, la Cecenia e la Somalia. Difatti, caratteristica di Al Qaeda era quella di configurarsi non tanto come una organizzazione rigidamente gerarchica, quanto piuttosto come una “rete di cellule”, che erano relativamente autonome; sicché, tali cellule si disseminarono in tutto in mondo musulmano (e non solo), creandone pure delle altre. Questo incredibile “garbuglio”, reso perfino più complesso e intricato dalla “contiguità tra i “servizi” di vari Paesi (musulmani e occidentali) e le numerose bande armate “islamiste” che si vennero a formare negli anni Novanta, creò le premesse per la nascita del terrorismo “islamista” (definito dalla stessa Cia un esempio di blowback, ossia un “contraccolpo”), ovverosia per l’attentato dell’11 settembre 2001 e per l’intervento degli Usa in Afghanistan e in Iraq.

Certo, non si può negare che il contesto storico oggi sia assai diverso da quello degli anni Ottanta del secolo scorso. Lo stesso declino relativo dell’America non può non comportare un’autonomia e un “peso” assai maggiori per attori geopolitici “subdominanti”, come, di fatto, sono le petromonarchie del Golfo. Il paragone con quanto accadde in Afghanistan è però particolarmente significativo per comprendere la cosiddetta “primavera araba”, ma soprattutto per comprendere l’aggressione alla Libia e alla Siria. Con ciò non si vuol affatto sostenere che, per quanto concerne la caduta dei regimi tunisino ed egiziano, il malcontento popolare non abbia giocato un ruolo importante, tanto è vero che in una prima fase l’influenza di “attori esterni” (in specie nelle vicende della Tunisia) sembra non essere stata determinante, benché non si possa affermare che sia stata trascurabile, perlomeno se si segue la pista dei “finanziamenti” ad alcune organizzazioni filo-occidentali o ai Fratelli musulmani egiziani. (8) Ma già in Egitto lo scontro tra questi ultimi, finanziati e appoggiati dal Qatar ma fortemente osteggiati dai sauditi, ha creato una situazione incandescente al punto che l’esercito egiziano ha ripreso il controllo del Paese. Una conferma che non è affatto facile per Washington avere il totale controllo dei propri alleati “subdominanti”. Diverso comunque il caso della Libia, giacché qui le bande islamiste hanno ricevuto il pieno appoggio della Nato per far fuori Gheddafi e distruggere la Giamahiria. Ma anche in Libia la situazione non pare affatto “sotto il controllo” della Casa Bianca. Il Paese è precipitato nel caos – favorendo pure la destabilizzazione di alcuni Paesi vicini, come il Mali e l’Algeria -, dopo l’assassinio, da parte di un gruppo “qaedista”, dell’ambasciatore statunitense Chris Stevens, a Bengasi l’11 settembre del 2012 (una data più che “eloquente”). Nondimeno, è stata la Siria di Assad a mandare all’aria il progetto di ridisegnare la cartina geopolitica del Medio Oriente dopo il ritiro dei soldati statunitensi dall’Iraq.

Anche in Siria si sono usati i Fratelli musulmani come “quinta colonna” per abbattere il regime di Damasco, ma fin dall’inizio della “rivolta” è stato chiaro che i “ribelli” siriani erano sostenuti dalle petromonarchie. Non solo armi e denari però affluivano in Siria per “alimentare la rivolta” contro Assad. Difatti, in Siria sono affluiti e continuano ad affluire (dalla primavera de 2011) migliaia di combattenti islamisti, anch’essi definiti dai soliti media mainstream, “combattenti per la libertà” (ma è dall’attacco della Nato contro la Serbia, negli anni Novanta, che bande islamiste scorrazzano impunemente in tutta l’area mediterranea, armate fino ai denti, “apparentemente” senza che la Nato o gli Usa, che pur controllano militarmente l’intera area, se ne accorgano). Ciò malgrado, la resistenza dell’esercito siriano si è dimostrata di gran lunga maggiore del previsto e il regime di Damasco, grazie pure all’aiuto di Hezbollah, dell’Iran e soprattutto della Russia, non si è trovato isolato, di modo che ha potuto validamente opporsi all’aggressione di una miriade di bande armate, le cui orribili e continue violenze hanno indotto buona parte dei siriani ad appoggiare Assad, costi quel che costi. Tre anni di guerra però non possono non avere creato enormi problemi a Damasco (basti pensare alle decine di migliaia di soldati morti in combattimento, nonché ai milioni di profughi, di invalidi e di malati). Invero, l’esercito siriano non può impedire il continuo afflusso di rinforzi ai gruppi di terroristi islamisti, dato che le basi di questi ultimi si trovano all’estero – in specie in Turchia, un Paese che sotto la guida di Erdogan ambisce ad aver un ruolo geopolitico di primo piano nell’area.

Anche “dietro” agli scontri all’interno dell’arcipelago islamista, che hanno portato alla nascita dell’Isis, vi sono ovviamente le petromonarachie del Golfo, benché anche questa nuova “creatura islamista” sembri essere sfuggita di mano a tutti i suoi “padroni” Ciononostante, è palese che i diversi attori geopolitici coinvolti nell’aggressione alla Siria, stanno giocando contemporaneamente su più tavoli: Erdogan mira a far cadere il regime di Damasco per annettersi una fetta della Siria, eliminare i curdi e prendersi pure una fetta di Iraq; mentre l’America e le petromonarchie del Golfo, che hanno già sfruttato l’avanzata dell’Isis in Iraq per far cadere il governo “filo-sciita” di Maliki, sono uniti (al di là di “doppi o tripli giochi” e del fatto che i loro interessi sono tutt’altro che sempre “convergenti”) nello strumentalizzare il caos che si è creato nella regione, in funzione anti-siriana e anti-sciita o, meglio, anti-iraniana. Sicché, non meraviglia neppure che le azioni dell’aviazione americana contro l’Isis siano (almeno per ora ) poco più che dimostrative. Del resto, sembra pacifico che, per distruggere davvero l’Isis, occorrerebbe cooperare con l’esercito siriano – una cooperazione che né Washington, né Ankara, né le petromonarchie del Golfo hanno intenzione di chiedere, mentre un intervento “diretto” dell’esercito americano nel conflitto sembra da escludersi. Ma si sa che quando si parla di Medio Oriente si parla anche necessariamente di petrolio. E non ci si riferisce ai pozzi petroliferi controllati dall’Isis (ma come potrebbe l’Isis, senza alcun appoggio, vendere il petrolio? O forse si crede che l’Isis abbia aperto dei distributori di benzina in Mesopotamia?), bensì al fatto che chi controlla l’area medio-orientale, in pratica è in grado di puntare un pugnale alla gola della Cina (la cui sete di petrolio è nota) dell’India, e della stessa Europa, mentre gli Usa, che dispongono pure di ingenti riserve di shale oil e shale gas, non hanno bisogno di importare petrolio dal Medio Oriente. Il che di per sé è già sufficiente a spiegare il ruolo degli Usa in quest’area, benché per colpire la Russia, che di petrolio e gas ne possiede in abbondanza, occorra ben altro.

A tale proposito, si deve tenere presente che le stesse vicende medio-orientali non le si comprende se non si tiene conto che la Russia è considerata di nuovo da Washington il nemico principale dell’Occidente. Non a caso, secondo Brzezinski sarebbe opportuno mettere fine al caos in Medio Oriente mediante un’alleanza strategica con l’Iran – Israele e petromonarchie del Golfo volenti o nolenti – e al tempo stesso puntare su un sistema bipolare incentrato su un rapporto privilegiato tra gli Usa e la Cina, senza escludere l’esistenza di altri minori “poli geopolitici” di carattere regionale (per questo motivo il celebre studioso statunitense definisce tale sistema “G2 plus”). (9). Se le posizioni del più noto geopolitico americano d’origine polacca sembrano essere indice delle difficoltà dell’attuale amministrazione americana (come altrimenti spiegare la difesa di un progetto così poco “realistico”?), sono pure indice di quanto sia importante per Washington mettere con “le spalle al muro” la Russia, dacché la rinascita economica e geopolitica di una superpotenza militare come la Russia, può mutare “in radice” gli equilibri mondiali tuttora incentrati sulla supremazia statunitense, attraendo nella sfera d’influenza di un “polo geopolitico” eurasiatico un notevole numero di Paesi dell’Eurasia (Europa compresa). Ragion per cui Washington non si è limitata in questi anni ad installare una serie di basi militari ai confini della Russia, infischiandosene degli accordi presi con Gorbaciov, o a denunciare unilateralmente, nel 2002, il trattato Abm (alterando di conseguenza l’equilibrio del terrore nucleare, senza che i “vassalli europei” battessero ciglio), ma ha addirittura promosso un colpo di Stato a Kiev, (10) per favorire l’instaurazione di un regime dichiaratamente ostile alla Russia, pur sapendo che l’Ucraina è di importanza vitale per la sicurezza nazionale russa. Ancora una volta però Washington ha fatto “i conti senza l’oste”. Infatti, dopo che gli “insorti” hanno violato l’accordo tra il governo ucraino e l’opposizione, che prevedeva che Yanukovich restasse in sella fino alle nuove elezioni, la Crimea si è riunita a furor di popolo con la Russia, e anche gli altri russi (11) dell’Ucraina orientale si sono rifiutati di obbedire ai golpisti filo-occidentali di Kiev. Inoltre, i rapporti tra Mosca e Pechino, anziché indebolirsi come auspicato da Brzezinski, si sono ancor più rafforzati. Un “contraccolpo” che potrebbe mandare a monte decenni di lavoro diplomatico degli Usa ( al fine di inasprire i rapporti non facili tra la Russia e la Cina), e avere conseguenze assai sgradite per gli apprendisti stregoni della Casa Bianca, mentre il governo di Kiev, che non è riuscito ad imporre la propria autorità nell’Ucraina orientale, è sempre più dipendente dagli aiuti economici dell’Occidente.

Eppure, è evidente che la politica di “pre-potenza” degli Usa rischia veramente di moltiplicare conflitti e squilibri d’ogni genere: si è messa a soqquadro l’Africa Settentrionale (con grave pericolo per i Paesi vicini, tra cui l’Italia), (12) si è trasformata l’intera Mesopotamia in un lago di sangue, si è incendiata l’Ucraina e si è scatenata una nuova guerra fredda contro la Russia. E tutto questo, mentre gli Usa non rinunciano nemmeno a mostrare i muscoli nel Pacifico per intimorire la Cina, né intendono cambiare politica in America Latina, ove hanno compiuto ogni sorta di nefandezza. Sicché, se le preoccupazioni di Paul Craig Roberts paiono eccessive, dacché le armi termonucleari incutono terrore non solo alla Casa Bianca ma pure ai “banditi di Wall Street”, sarebbe sciocco non preoccuparsi per i venti di guerra che soffiano sulla stessa Europa. Le deliranti dichiarazioni di Lech Walesa, secondo cui cui la Nato dovrebbe consegnare ai Polacchi dei missili nucleari, di modo che la Polonia possa minacciare la Russia, (13) rivelano non solo che buona parte dei Paesi dell’Europa orientale sono “drammaticamente” fermi al 1939, ma che in Occidente si rischia davvero di scherzare con il fuoco, ignorando, tra l’altro, lo spaventoso costo che l’Unione Sovietica (ma soprattutto la Russia) dovette pagare per difendersi dall’aggressione tedesca nella Seconda Guerra Mondiale, (14) dopo essere già stata aggredita da Carlo XII di Svezia e da Napoleone.

In definitiva, anche se dovrebbe essere chiaro a chiunque che la “geopolitica del caos” (che pare essere diventata la strategia preferita da Washington) non necessariamente favorisce gli Usa, non si può nemmeno escludere che la smisurata “volontà di potenza” statunitense possa avere conseguenze catastrofiche per la maggior parte degli abitanti del pianeta, compresi quelli del Vecchio Continente, che perciò avrebbero tutto l’interesse a smarcarsi dalla politica irresponsabile e “guerrafondaia” degli Usa. Il prezzo della “prepotenza” di Washington rischia comunque di essere salatissimo per il Vecchio Continente, che non solo non si trova sull’altra sponda dell’oceano Atlantico come l’America (che quindi è ben lontana dalle fiamme che bruciano l’Africa, il Medio Oriente o l’Ucraina), ma che è colpito da una crisi che ormai aggredisce perfino il “corpo vivo” dei Paesi dell’Europa meridionale. Tuttavia, è inutile dire che dall’Unione Europea non ci si può aspettare nulla di buono, perlomeno fino a quando gli europei continueranno ad essere sottomessi alla brutale e impersonale dittatura dei “mercati occidentali”, ossia finché non saranno in grado di sbarazzarsi di una classe dirigente al servizio di Washington e di Wall Street.

NOTE
1. P. C. Roberts, Washington Is Destroying the World (http:// www. Paulcraigroberts. Org/ 2014/10/06/ washington-destroying-world-paul-craig-roberts/). Si tenga presente che Paul Craig Roberts non è affatto un “signor nessuno”, dato che, oltre ad essere stato membro del governo di Reagan, è stato associate editor del Wall Street Journal e columnist di Business Week.
2.Vedi in particolare Gabriel Kolko, Il libro nero della guerra, Fazi, Roma, 2005, pp. 209-238. Benché sia emersa solo la “punta dell’iceberg”, ancora una volta si è verificato il “crollo del morale” dei soldati americani (ivi, pp. 621-622 e p. 635).
3. Saddam non poteva scegliere né momento peggiore (l’Urss era sul punto di “collassare” e aveva inizio il cosiddetto “unipolarismo” americano), né teatro operativo migliore per le forze armate americane, dacché dalla Seconda guerra mondiale si sa che la guerra nel deserto è simile a quella sul mare, e che decisivo pertanto è il dominio dell’aria.
4. Non è esagerato affermare che la sagacia tattica di Giap, che negò sempre al generale statunitense Westmoreland l’opportunità di combattere una grande battaglia “in campo aperto”, logorò l’esercito degli Usa al punto che, dopo l’offensiva del Tet del 1968, i soldati americani rischiavano di essere più pericolosi per i propri ufficiali che non per i nemici. Si badi però che Hanoi non si limitò a condurre operazioni di guerriglia, ma seppe attuare una vera “guerra rivoluzionaria” in perfetto “stile clausewitziano”, di modo che fosse impossibile per Washington far convergere obiettivi militari e scopo politico. E fu solo l’abilità strategica del duo Nixon-Kissinger a far uscire gli Usa dal “labirinto vietnamita”.
5. Com’è ovvio, ci si riferisce alla celebre opera I rinoceronti, di Eugène Ionesco.
6. Il professor Michel Chossudovsky giunge ad affermare che «la guerra civile in Ruanda [cominciata nel 1990] ed i massacri etnici erano parte integrante della politica estera USA, messa a punto secondo precisi obiettivi strategici ed economici. Nonostante le buone relazioni diplomatiche tra Parigi e Washington e l’apparente unità dell’alleanza militare occidentale, si trattò di una guerra non dichiarata tra Francia ed America», M. Chossudovsky, The Globalization of Poverty and the New Order, Global Research, Pincourt, Québec, Canada, 2003, p. 120. Non si deve poi trascurare che le compagnie petrolifere cinesi sono sempre più attive in Africa, specialmente in Angola, Sudan e Guinea. Perfino lo “strano” invio di truppe americane per “combattere” il virus ebola potrebbe essere messo in relazione alla politica di Washington, tesa a contrastare la crescente presenza economica cinese nel continente africano.
7. Sulla “trappola Afghanistan” vedi G. Kolko, op. cit., pp. 510-516.
8. Vedi Claudio Mutti, Il Mediterraneo tra ‘Eurasia e l’Occidente (http://www.eurasia-rivista.org/il-mediterraneo-tra-leurasia-e-loccidente-2/15679/).
9. Per le tesi di Brzezinski vedi Fabio Falchi, La grande scacchiera secondo Brzezinski (http:// www. eurasia-rivista.org/la-grande-scacchiera-secondo-brzezinski/21794/).
10. Oltre alle note e scandalose affermazioni della Nuland, ai misteriosi cecchini che a Kiev nello stesso tempo sparavano contro i manifestanti e i poliziotti e al mancato intervento delle forze armate ucraine (un fatto “inconsueto”), non si devono neppure ignorare i cospicui finanziamenti alle forze dell’opposizione perché abbattessero il governo “filorusso” di Yanukovich (vedi John L.Mearsheimer, Why the Ukarine Crisis is the West Fault, http://www.foreignaffairs.com/articles/141769/john-j-mearsheimer/why-the-ukraine-crisis-is-the-wests-fault).
11. Non “filo-russi” come vengono definiti dagli “eurogazzettieri”, forse “confusi” dalle squallide “prestazioni hard” in un museo di Mosca da parte delle Pussy Riot, e da altre carnevalate di quel gigantesco e grottesco Circo Barnum che pare essere diventato il mondo occidentale in questi ultimi decenni.
12. Ma i vertici delle forze armate del Paese dell’8 settembre permanente si vantano pure di avere contribuito a distruggere la Giamahiria, il che, in sostanza, equivale a vantarsi di aver bombardato il proprio Paese.
13. Lech Walesa, Putin? Bisogna fermarlo. Dateci i missili nucleari, li punteremo su Mosca (http://www.lastampa.it/2014/10/06/esteri/walesa-putin-bisogna-fermarlo-dateci-i-missili-nucleari-li-punteremo-su-mosca-otnpP8G7zguVxxTcQEgEFN/pagina.html).
14. Le perdite dell’Armata Rossa ammontarono a circa 9.000.000 di morti e ad oltre 18.000.000 di feriti o malati. Ancora più gravi le perdite tra i civili dell’Unione Sovietica, ossia almeno 16.900.000 morti, vedi Richard Overy, Russia in guerra, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 294. Ma non c’è dubbio che lo sforzo maggiore fu compiuto proprio dalla Russia, come lo stesso Overy riconosce.

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IL VERTICE EUROASIATICO DI MILANO CONFERMA CHE IL MONDO SI TROVA AD UNA SVOLTA

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Un grande successo per il Vertice dell’Asem svoltosi il 16 e il 17 ottobre a Milano, alla presenza di tanti capi di Stato e di Governo stranieri, che ha consentito all’Italia di ritagliarsi un’importante vetrina internazionale anche in vista dell’EXPO 2015.

Culmine delle due giornate sono stati sicuramente gli accordi per 8 miliardi di euro firmati tra Roma e Pechino (1), che in prospettiva consentiranno di riequilibrare almeno dal punto di vista geoeconomico l’influenza statunitense sul nostro paese.
Nonostante le pressioni di Washington (2), difficilmente poi gli esecutivi italiani potranno tornare indietro dal cammino intrapreso, a meno di non voler compromettere definitivamente il già precario equilibrio economico dell’Italia.

L’incontro dell’Asem ha infatti ribadito la differenza tra due modelli di sviluppo ormai inconciliabili, quello speculativo della finanza anglosassone – responsabile della crisi strutturale mondiale del 2008 – e quello delle potenze eurasiatiche – Cina, Russia e India in primis – basato sull’economia reale e produttiva.

I dati raffigurati nella tabella in allegato (3) dimostrano chiaramente le potenzialità, ancora largamente inespresse, di un rapporto più stretto tra Europa ed Asia.

dati-asem

Le manovre di disturbo condotte dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti difficilmente potranno rallentare a lungo questo percorso naturale; le stesse recenti manifestazioni anti-cinesi, iniziate subito dopo l’annuncio della fusione della Borsa di Hong Kong con quella di Shangai (e potenzialmente con quella di Shenzen, una fusione a tre che renderebbe la Repubblica Popolare Cinese la detentrice della più importante piazza d’affari a livello mondiale), sembrano destinate a spegnersi senza conseguenze.

Lo stesso può dirsi per le incredibili e altamente controproducenti sanzioni europee alla Russia, che alcune regioni come Veneto e Lombardia stanno cercando autonomamente di scavalcare; i danni alla nostra economia sono evidenti ma la passerella offerta a Vladimir Putin, che ha incontrato il Presidente ucraino Poroshenko proprio a Milano, rappresenta un’ opportunità di dialogo per superare quell’impasse da “nuova guerra fredda” funzionale soltanto agli interessi di Washington.

Certamente permangono pesanti contraddizioni: come ha notato un importante dirigente europeo, David O’ Sullivan, l’Unione Europea è priva di una seria agenda geopolitica e degli strumenti militari per condurre un’azione autonoma di deterrenza nelle aree di crisi.

Il progressivo sganciamento dalla NATO e il contrasto al TTIP (5) rimangono perciò oggi le due fondamentali battaglie da combattere per quanti intendano favorire il definitivo processo d’integrazione eurasiatica e far sì che le parole emerse a Milano come “lotta per uno sviluppo sostenibile, contro il terrorismo, la non proliferazione nucleare, l’immigrazione illegale e il traffico di essere umani” non rimangano solo vuota retorica.

Stefano Vernole è Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici

NOTE
1) http://www.ilfoglio.it/articoli/v/121874/rubriche/italia-cina-conclusi-20-accordi-commerciali-da-8-miliardi-di-euro.htm

2) http://www.ilfoglio.it/articoli/v/121841/rubriche/america-cina-si-sfidano-in-italia-la-storia-inedita-di-uno-scontro-di-potere.htm

3) I dati della tabella (vedi immagine) sono tratti da: Les amis de l’Europe, “Asia Europe Meeting. A partnership for the 21st century”, Buxelles, Summer 2014.

4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-16/sanzioni-ue-russia-ecco-quanto-costerebbe-all-italia-guerra-commerciale-mosca-181150.shtml?uuid=ABravv3B

5) http://www.eurasia-rivista.org/ttip-e-tpp-strumenti-di-dominio-statunitense/19977/

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