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Channel: eurasia geopolitica – Pagina 11 – eurasia-rivista.org
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GUERRA PSICOLOGICA E TERRORISMO CONTEMPORANEO

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ATTUALITA’ DELLA GUERRA PSICOLOGICA

Nell’era dell’informazione è semplicemente suicida trascurare la comunicazione sul piano militare – sia essa inserita in un piano strutturato di guerra psicologica o costituita semplicemente dalla classica propaganda – così come stanno facendo gli stati occidentali che si suppongono impegnati nella guerra al califfato. La rivoluzione 2.0 della comunicazione diffusa e della trasformazione del fruitore/consumatore di informazioni in produttore di informazioni permessa dai nuovi strumenti di comunicazione internet e dalla diffusione dei dispositivi portatili non deve illudere sulla perdita di importanza della “comunicazione istituzionale”: quella classica, monodirezionale e propagandistica che ben lungi dall’essere svanita può invece divenire più sottile, più raffinata ed efficace. Un esempio di come si reagisca ad un attacco propagandistico e mediatico in una situazione bellica ci è stata data dalla Russia nel teatro Ucraino: alla narrazione presentata dai grandi media occidentali che sono riusciti – uniti come un sol uomo – a presentare i manifestanti di Majdan come idealisti pacifici animati da spinte europeiste, il nuovo governo di Kiev come convinto assertore di quei valori e politici nazionalisti ucraini di provenienza oligarchica e dal passato opaco come Julija Timoschenko come eroi della lotta per la democrazia, la tattica russa è stata sin da subito tesa a mostrare la partecipazione tanto ai tumulti che portarono alla deposizione di Janukovich quanto alla successiva guerra nell’est del paese, di estremisti di destra violenti e ideologicamente connotati in senso neonazista (1). Lo sforzo propagandistico profuso dai media occidentali allineati su posizioni atlantiste sarebbe stato degno di miglior causa: infatti gli stessi governi occidentali e – sospettano gli esperti (2) – anche i loro servizi informativi e di sicurezza mancano di un serio piano di guerra psicologica, guerra mediatica e guerra culturale al fondamentalismo islamico. Non è questa la sede per darci ad un’analisi minuziosa di come il califfo stia – con grande successo – comunicando. L’ISPI ha già prodotto una sintesi magistrale cui rimandiamo in nota (3). Ci è sufficiente sottolineare come un qualsiasi gruppo terrorista viva, lapalissianamente, della quantità di terrore che riesce a produrre e trasmettere. Scopo di questo brevissimo studio non è descrivere la comunicazione dello Stato Islamico, quanto costatarne il successo e non l’insuccesso ma l’assenza di reazione dell’occidente.

 

IL SUCCESSO MEDIATICO DEL COSIDDETTO “STATO ISLAMICO”

Il sedicente “Stato Islamico” sta perfettamente centrando l’obiettivo di dettarci l’agenda mediatica e quindi di manipolare la nostra emotività colpendo l’immaginario occidentale con due strumenti:

1. Ostentando una violenza estrema, paradossale, sproporzionata (i filmati delle decapitazioni, il prigioniero giordano bruciato vivo)

2. Colpendo la nostra opinione pubblica su temi nella quale è sensibile: la distruzione del patrimonio archeologico dell’Iraq, la fanatica iconoclastia, l’assalto alle comunità cristiane (quelle alle quali ci sentiamo giocoforza più vicini e inconsciamente solidali) (4)

Non si limita però a farsi forte delle nostre paure, ma usa la forza e la costruzione di un’immagine di invincibilità per un’efficace propaganda di reclutamento. L’immagine di entità politica militarmente invincibile, sicura di sé e della propria visione del mondo è un messaggio quanto mai potente se rivolto alle masse sunnite medio orientali deluse dal fallimento delle “primavere” e alle masse di immigrati presenti in Europa, sia quelle che si trovano in oggettivo stato di emarginazione (si pensi ai giovani disoccupati delle periferie) sia quelle ormai agiate che si sono semplicemente aggiunte all’amorfa borghesia occidentale priva ormai di qualsiasi valore e di qualsiasi base di “pensiero forte”, assenza morale alla quale lo SI si propone appunto di supplire.

 

INCAPACITA’ DI RISPOSTA EUROPEA SUL PIANO DELLA COMUNICAZIONE

Di fronte ad una strategia di comunicazione brutale ed efficace che ne mette in crisi le certezze e parla direttamente alle sue paure, l’occidente (da qui in poi, l’Europa: il concetto di “Occidente” come unità monolitica è destituito di fondamento) non è stato in grado di elaborare alcuna risposta.

1. Nessuna campagna mediatica per cercare di mettersi in contatto con il mondo musulmano sunnita inteso come “comunità”, bensì qualche tentativo abbozzato di “recupero e riabilitazione” di ex-gihadisti, strategia che denuncia la nostra incapacità di pensare se non in termini di “individui” e di fare quindi analisi culturale e sociale: siamo vittime del nostro stesso individualismo elevato a ideologia e a prassi. Lo “Stato Islamico” attiva una comunicazione di massa. L’Europa risponde con una “comunicazione al soggetto”.

2. Per di più, essa è prigioniera dello schema americano “buoni contro cattivi”. Non trova dei “buoni” da giocarsi contro i “cattivi”, realtà facilmente costruita in Ucraina, e quindi subisce la crisi del semplicistico schema.

3. In definitiva, l’assenza di una strategia comunicativa e di una narrazione da proporre al nemico e alle popolazioni che possono essere affascinate dal suo messaggio si riflette nell’assenza di tattica e di operatività. I nostri servizi di sicurezza ritengono intelligente chiudere i siti e le pagine Facebook di propaganda gihadista? Non pensano sia meglio sfruttarle come vetrina e finestra su quel mondo, sui suoi linguaggi e sugli stessi operatori dietro a quei canali? (5)

 

LA GUERRA PSICOLOGICA NON MEDIATICA

Per quanto concerne le tattiche non mediatico/comunicative/culturali di guerra psicologica, vale a dire lo studio della cultura del nemico, l’infiltrazione e gli strumenti derivati dall’HUMINT (human intelligence) i paesi europei sono ancora deficitari. Sullo studio del nemico islamista, della sua storia, cultura e psicologia, dei suoi codici e linguaggi, sconta un ritardo imbarazzante. Il califfo nero sa esattamente cosa suggestiona l’immaginario europeo (decapitazioni, atti di iconoclastia…). Le nazioni europee brancolano nel buio anche solo quando si tratta di distinguere cultura sciita (sensibile come la nostra all’iconoclastia e caratterizzata da una forte devozione a figure spirituali simile per certi aspetti al nostro culto dei santi) e cultura sunnita (più o meno rigidamente aniconica). Sull’analisi psicologica del nemico siamo tanto arretrati da immaginare ancora il fenomeno dell’estremismo religioso come riguardante principalmente i poveri e gli emarginati – e siamo pertanto vittime della mentalità laicista che vuole la religione, qualsiasi religione, come fenomeno del passato, riservato ai minus habentes ed incapace di produrre cultura nel senso positivo – ed ignoriamo il ritorno alla religione della borghesia (6) (come quella degli europei convertiti), avvenga questo ritorno per (anti?)conformismo, per ricerca di valori forti nell’era del pensiero debole o per sincera ricerca spirituale. Sull’infiltrazione e sul livello di attività HUMINT il livello di complessità si alza ulteriormente e merita un discorso a parte.

 

NIENTE STRATEGIA, NIENTE TATTICA – AL MASSIMO COMPLICITA’

Ogni guerra si combatte con una strategia, ogni guerra psicologica si predica anche di comunicazione e di narrazione, e l’Europa una strategia, una tattica e una narrazione di sé non le ha. Come potrebbe averne un continente diviso e litigioso rappresentato, tra l’altro, da quella sovrastruttura burocratica, da quel Moloch che va sotto il nome di Unione Europea? Vale la pena ripeterlo: l’Europa non possiede una narrazione di sé, ecco perché non è in grado di proporne alcuna all’esterno. Eppure si fa largo il sospetto che l’inazione europea sottenda cattiva coscienza. Senza citare l’eterno caso del sostegno ai mugiahedin afghani ed affini, è inquietante notare come le potenze europee e di area NATO abbiano, quando non appoggiato attivamente, chiuso uno o entrambi gli occhi sull’attività del fondamentalismo settario anche alle porte dell’Europa (Bosnia, Cossovo) o dentro i paesi UE, che forniscono tutt’oggi asilo e garantiscono libertà di parola e propaganda a esponenti del separatismo ceceno (7) o di inquietanti apologeti del gihadismo (8). Quanto zone d’ombra dell’attentato di Parigi già molto si è detto, scadendo anche nel banale complottismo. E’ proprio in queste zone d’ombra e nelle organizzazioni gihadiste basate in Europa che c’è da augurarsi agiscano i nostri servizi informativi e di sicurezza, pur colpiti dai tagli di bilancio e dal “rompete le righe” seguito alla fine della Guerra Fredda. C’è da augurarselo perché per la sicurezza il fattore HUMINT e l’infiltrazione si conferma imprescindibile, non fosse altro perché l’estrema fiducia riposta negli strumenti tecnologici fin ora è stata tradita. Di certo è proprio in quelle zone d’ombra che si è mosso in modo ambiguo l’indirizzo politico: gli obiettivi dei governi. Il proficuo ruolo il grand-guignol dello “Stato Islamico” svolge nell’impedire che sorga una potenza medio orientale che possa coalizzare a sé i popoli arabi in senso modernizzatore (il sogno di Nasser, l’incubo degli USA, di Israele e dei Sauditi) è ormai noto anche ad analisti non certo ostili alle logiche atlantiste (9). E’ quantomeno legittimo sospettare che, quando obiettivo primario delle potenze atlantiste era la rimozione del governo baathista siriano, i servizi di controspionaggio europei abbiano ricevuto mandato di chiudere un occhio (i servizi turchi entrambi) sul flusso di combattenti che si recava in Siria per unirsi ai libelli. E’ questa la cattiva coscienza di cui si parlava all’inizio del paragrafo, è questa la schizofrenia strategica che ci affligge – i ribelli siriani passati da “eroi in lotta contro un regime sanguinario” a “terroristi fondamentalisti” nel giro di tre-quattro anni – e che ci impedisce di impostare qualsiasi tattica.

 

CONCLUSIONI: UN CAMBIO DI PROSPETTIVA

Lo stato di cose sin qui esposto ed analizzato è figlio della miopia delle nostre classi dirigenti, alle quali dovremmo chiedere coerenza e visione, non una marcia dei buoni propositi nel centro di Parigi, per di più invitando il presidente turco. Il terrorismo politico degli anni ’70 fu vinto dal benessere degli anni ’80 e ’90, non da strategie vincenti dei governi – strategie che non si videro. La violenza dei terroristi rossi, anarchici e neri li isolò da una società che aveva la pancia troppo piena per sognare superuomini nietzschiani o soli dell’avvenire. Il terrorismo religioso non ci lascerà questo aggio perché si radica tanto nelle pance piene che in quelle vuote. Sarebbe bene cominciare a darne una lettura geopolitica e strategica, non solo “sentimentale”, alla “je suis” – per quanto, proprio nella logica sin qui indicata trasmettere ed enfatizzare l’immagine di una società unita contro la violenza e non divisa su basi settarie sia quantomeno un inizio.

Amedeo Maddaluno

 

NOTE
1. http://www.geopolitica-rivista.org/26031/che-cose-la-guerra-culturale/
2. http://www.aldogiannuli.it/fallimento-lotta-al-terrorismo/
3. http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/sicurezza-mediterraneo-medio-oriente-italia/twitter-e-jihad-la-comunicazione-dellisis-12852
4. È da notare che nessuna delle atrocità messe in campo dal sedicente “Stato Islamico”, dal rogo alla decapitazione alla pratica iconoclasta, sia in realtà estranea alla storia occidentale: si tratta piuttosto di traumi antichi che l’Occidente ha preteso rimuovere dal proprio immaginario per meglio illudersi di poter vivere in un mondo irenico.
5. http://www.aldogiannuli.it/fallimento-lotta-al-terrorismo/
6. Si veda l’interessantissimo studio di M. Graziano, “Guerra Santa e Santa Alleanza” appena uscito per Il Mulino: un testo imprescindibile per chi voglia mettere in relazione la sociologia delle religioni con la geopolitica delle religioni.
7. http://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/I-ceceni-e-la-guerra-ucraina-159892 – “Durante la seconda guerra cecena, tra il 1999 e il 2000, Isa Munaev dopo aver subito una grave ferita lasciò il paese e ottenne asilo in Danimarca. Dalla Danimarca organizzò nel 2009 il movimento Svobodnyj Kavkaz (Caucaso Libero) e nel marzo 2014 costituì il battaglione di volontari “Dzhokhar Dudaev” di cui egli subito assunse il comando schierandosi nella guerra in Ucraina orientale a fianco delle forze governative (anti-russe)”
8. http://www.ilcaffegeopolitico.org/23416/dalleuropa-medio-oriente-gruppo-jihadista-sharia4
9. http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-02-26/verita-e-bufale-isis-che-punto-e-veramente-avanzata-califfato-111310.shtml?uuid=ABJDaz0C – “C’è però una strategia più generale in atto da tempo, cui non sono certo estranei gli Stati Uniti e Israele: indebolire il mondo arabo, frammentarlo, impedire che nascano stati forti sulla base di ideologie nazionaliste e panarabe. La distruzione di Iraq e Siria, due regimi baathisti laici, corrispondeva e corrisponde esattamente a questo obiettivo. L’altro caposaldo è quello di impedire all’Iran sciita e ai suoi alleati di estendere la loro influenza. Per questo tutto serve: anche l’orrore barbaro del Califfato.”

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LUOGHI SANTI E “STATO ISLAMICO”

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Secondo una definizione complessiva che intende sintetizzare quelle fornite dai vari studiosi, la geopolitica può essere considerata come “lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, ove si considerino l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati”(1).
Per quanto grande sia il peso attribuito ai fattori geografici, permane tuttavia il rapporto della geopolitica con la dottrina dello Stato, sicché viene spontaneo porsi una questione che finora non ci risulta aver impegnato la riflessione degli studiosi. La questione è la seguente: sarebbe possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”(2)? In altre parole, è ipotizzabile che la stessa geopolitica rappresenti la derivazione secolarizzata di un complesso di concetti teologici connessi alla “geografia sacra”?
Se così fosse, la geopolitica si troverebbe in una situazione per certi versi analoga non soltanto alla “moderna dottrina dello Stato”, ma alla generalità delle scienze moderne. Per essere più espliciti, ricorriamo ad una citazione di René Guénon: “Separando radicalmente le scienze da ogni principio superiore col pretesto di assicurar loro l’indipendenza, la concezione moderna le ha private di ogni significato profondo e perfino di ogni interesse vero dal punto di vista della conoscenza: ed esse son condannate a finire in un vicolo cieco, poiché questa concezione le chiude in un dominio irrimediabilmente limitato”(3).
Per quanto riguarda in particolare la “geografia sacra”, alla quale secondo la nostra ipotesi si ricollegherebbe in qualche modo la geopolitica, è ancora Guénon a fornirci una sintetica indicazione al riguardo. “Esiste realmente – egli scrive – una ‘geografia sacra’ o tradizionale che i moderni ignorano completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna esser capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà. È per questo che vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da ‘supporto’ all’azione delle ‘influenze spirituali’, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di certi ‘centri’ tradizionali principali o secondari, di cui gli ‘oracoli’ dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di ‘influenze’ di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”(4).
Non è dunque detto che una traccia della “geografia sacra” non sia individuabile in alcune caratteristiche nozioni geopolitiche, che potrebbero essere perciò schmittianamente considerate “concetti teologici secolarizzati”. Si pensi, ad esempio, ai termini Heartland (“territorio cuore”) e pivot area (“area perno”), i quali, riprendendo alcune rappresentazioni d’origine asiatica che circolavano nei circoli fabiani frequentati da Mackinder, richiamano in maniera esplicita il simbolismo del cuore ed il simbolismo assiale e ripropongono in qualche modo quell’idea di “Centro del Mondo” che gli antichi rappresentarono attraverso una varietà di simboli, geografici e non geografici. Più volte ci si è offerta l’occasione per osservare che, se la scienza delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus “aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre”(5), questa idea non è scomparsa con la visione “arcaica” del mondo, ma è sopravvissuta in modo più o meno consapevole in contesti storico-culturali più recenti(6).
D’altra parte, fra i termini geografici ve ne sono alcuni che le culture tradizionali hanno utilizzato per designare realtà appartenenti alla sfera spirituale. È il caso del termine polo, che nel lessico dell’esoterismo islamico indica il vertice della gerarchia iniziatica (al-qutb); è il caso di istmo, che nella versione araba (al-barzakh) indica quel mondo intermedio cui si riferisce anche l’espressione d’origine coranica “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn), “confluenza, cioè, del mondo delle Idee pure col mondo degli oggetti sensibili”(7).
Ma è lo stesso concetto di Eurasia che può essere assegnato alla categoria dei “concetti teologici secolarizzati”. Da una parte, infatti, la cosmologia indù e buddhista rappresenta l’Asia e l’Europa come un unico continente che ruota intorno all’asse della montagna cosmica; dall’altra, il più antico testo teologico dei Greci, la Teogonia esiodea, considera “Europa (…) ed Asia”(8) come due sorelle, entrambe figlie di Oceano e di Teti, sicché esse appartengono alla “sacra stirpe di figlie (thygatéron hieròn génos) che sulla terra – allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo – e coi Fiumi: questa sorte esse hanno da Zeus”(9).
In relazione a quanto esposto dalla teologia greca, vale la pena di notare che tra le sorelle di Europa e di Asia figura anche Perseide, il nome della quale è significativamente connesso non solo a quello del greco Perseo, ma anche a quello di Perse, figlio di lui e progenitore dei Persiani. Ascoltiamo ora il teologo della storia: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome”(10).
La stretta parentela dell’Asia con l’Europa è proclamata infine anche dal teologo della tragedia, il quale nella parodo dei Persiani ci presenta la Persia e la Grecia come due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe (kasignéta génous tautoû)”(11), mostrandoci “gli assolutamente distinti (i Due che, in Erodoto, non possono non muoversi guerra) come alla radice inseparabili”(12). Tale è il commento di Massimo Cacciari, al quale l’immagine eschilea, rappresentativa della radicale connessione di Europa e di Asia, ha fornito lo spunto per concepire il progetto di una “geofilosofia dell’Europa”.
Altri hanno cercato di andare oltre, tracciando le linee di una “geofilosofia dell’Eurasia”. Ad esempio Fabio Falchi, accogliendo la prospettiva corbiniana dell’Eurasia quale luogo ontologico della teofania (13), ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella “geosofica, la quale è compiutamente intellegibile se, e solo se, sia posta in relazione con la prospettiva metafisica”(14).

* * *

Se è vero che a volte nella geopolitica si possono cogliere alcune remote risonanze di motivi e nozioni appartenenti al simbolismo geografico delle culture religiose, è anche vero che il fattore religioso riveste una notevole importanza tra gli oggetti dell’analisi geopolitica. Il recente numero di “Eurasia” dedicato alla “geopolitica delle religioni” (n. 3 del 2014) ha appunto inteso mostrare come in diverse zone della terra il suddetto fattore costituisca, tra le altre cose, un parametro imprescindibile della geopolitica, specialmente nel caso di alcune odierne aree di crisi e di conflitto quali l’Ucraina, l’Iraq, la Palestina.
Il caso particolare del cosiddetto “Stato Islamico”, che insieme col caso ucraino è oggetto di più approfondita analisi in questo numero di “Eurasia”, impone all’attenzione dell’osservatore geopolitico un altro tema di rilievo: quello dei luoghi sacri, delle città sante, dei centri religiosi, delle mete di pellegrinaggio.
I luoghi di culto e i monumenti religiosi sono infatti un obiettivo privilegiato della furia distruttrice dei miliziani del sedicente “Califfo” Abu Bakr al-Baghdâdî, i quali li considerano centri di apostasia e di politeismo. Nei territori da loro controllati, infatti, sono state devastate o demolite moschee (sia sunnite sia sciite), chiese cristiane, tombe di profeti, di maestri spirituali e di uomini pii. Per limitarci a pochissimi casi emblematici, ricordiamo che a Mossul sono stati abbattuti il mausoleo del profeta Yunus e quello di San Giorgio; a Tikrit sono state fatte saltare in aria la Chiesa Verde (principale testimonianza della comunità assira, risalente al VII secolo) e la moschea dei Quaranta Santi (Wâlî Arba’în), una delle più significative testimonianze dell’architettura islamica del XIII secolo; ad Aleppo è stata ridotta in polvere la Moschea Khosrofiya, costruita nel 1537 dal grande Sinan; a Samarra è stato distrutto il mausoleo di Imam al-Dur, costruito nel 1085.
La matrice ideologica di tali azioni è evidente. Esse costituiscono una replica delle distruzioni dei siti storici e cultuali dell’Islam perpetrate in Arabia dai wahhabiti, in base alle teorie che condannano la dottrina dell’intercessione (tawassul) e assimilano all’idolatria la pia visita ad un luogo in cui sia sepolto un profeta o un santo. Nella penisola arabica le devastazioni più gravi dei siti aventi rilievo religioso o storico ebbero inizio nel 1806, quando l’esercito wahhabita occupò Medina: allora furono abbattute parecchie moschee e venne distrutto il cimitero di Baqi’ (Jannat al-Baqi’), dove riposavano i resti mortali di importanti figure degli esordi dell’Islam. In quella circostanza, perfino il sepolcro del Profeta Muhammad rischiò la distruzione. Il 21 aprile 1925 gli Ikhwân di ‘Abd el-‘Azîz ibn Sa’ûd demolirono altri monumenti della tradizione islamica, tra cui le tombe dei familiari del Profeta. In seguito, per effetto di una fatwa emessa nel 1994 da ‘Abd el-‘Azîz ibn Bâz, mufti del regime wahhabita saudiano, sono state distrutte circa sei centinaia di cimiteri, sepolcri, moschee, oratori e siti religiosi ultramillenari, tra cui la casa natale del Profeta a Mecca e la sua casa di Medina.
Se in Arabia, in Iraq e in Siria i luoghi santi e i monumenti religiosi sono oggetto della furia wahhabita e takfirita, in Palestina l’esistenza dei santuari islamici è minacciata dal regime d’occupazione sionista. Già nel 1967, quando si impadronirono di Gerusalemme, i sionisti avviarono un programma di scavi sotto il Monte del Tempio, a sud e sudovest, in un terreno appartenente al waqf che gestisce le moschee del Haram al-sharîf. “Gli scavi, diretti da un gruppo di eminenti archeologi israeliani, furono finanziati, in parte, da filantropi ebrei e in parte dalla Chiesa di Dio, un’istituzione fondamentalista che aveva sede a Pasadena in California e ramificazioni in tutto il mondo; era diretta da un certo Herbert Armstrong, che affermava di essere uno dei messaggeri di Dio in terra”15.
L’obiettivo finale degli scavi finanziati dai “filantropi ebrei”, guidati dal Rabbinato e patrocinati dal regime sionista è la demolizione della moschea di al-Aqsa e della Cupola della Roccia, le quali sorgono sulla stessa area su cui dovrebbe sorgere il Nuovo Tempio del giudaismo.

*Direttore di “Eurasia”.

NOTE
1. Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma 2011.
2. Carl Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, trad. it. di P. Schiera, in: C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.
3. René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni dell’Ascia, Roma 1953, p. 66.
4. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 162.
5. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.
6. Claudio Mutti, La funzione eurasiatica dell’Iran, “Eurasia”, 2, 2012, p. 176; Idem, Geopolitica del nazionalcomunismo romeno, in: M. Costa, Conducator. L’edificazione del socialismo romeno, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, pp. 5-6.
7. Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, p. 154. Sul barzakh, cfr. Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, Mimesis, Milano-Udine 209, pp. 97-123.
8. Esiodo, Teogonia, 357-359.
9. Esiodo, Teogonia, 346-348.
10. Erodoto, VII, 61, 3.
11. Eschilo, Persiani, 185-186. Su questa immagine, cfr. C. Mutti, L’Iran in Europa, “Eurasia”, 1, 2008, pp. 33-34.
12. Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 19.
13. “L’Eurasia è, oggi e per noi, la modalità geografico-geosofica del Mundus imaginalis” (Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, cit., p. 40).
14. Glauco Giuliano, Tempus discretum. Henry Corbin all’Oriente dell’Occidente, Edizioni Torre d’Ercole, Travagliato (Brescia) 2012, p. 16.
15. Amos Elon, Gerusalemme, città di specchi, Rizzoli, Milano 1990, p. 256.

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L’EURASIA AGGREDITA SU PIÙ FRONTI

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Il 12 marzo 2015 il Parlamento dell’Unione Europea ha votato una risoluzione sulla relazione annuale tenuta dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza. Dopo aver esordito sottolineando “il drastico peggioramento del contesto della sicurezza in tutta l’UE, in particolare nelle sue immediate vicinanze” (par. 1), il Parlamento europeo “rammenta che l’UE ha l’obbligo (…) di garantire che la sua azione esterna sia progettata e attuata allo scopo di consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani e i principi del diritto internazionale” (par. 16) e “prende atto dell’aumento della richiesta di assistenza internazionale nel sostegno alla democrazia” (par. 17).

Dopo alcune pagine, il testo della risoluzione parlamentare viene al dunque: il Parlamento “ritiene necessaria una strategia politica globale volta a ristabilire l’ordine politico europeo (…) e a vincolare tutti gli Stati europei, tra cui la Russia; (…) ritiene che lo sviluppo di un dialogo costruttivo con la Russia e con altri paesi del vicinato dell’UE in materia di cooperazione per rafforzare questo ordine costituisca una base importante per la pace e la stabilità in Europa, purché la Russia rispetti il diritto internazionale e assolva ai suoi impegni relativi alla Georgia, alla Moldova e all’Ucraina, compreso il ritiro dalla Crimea” (par. 30). Rispolverato il lessico della guerra fredda per enunciare la necessità di “contenere le ambizioni della Russia nel suo vicinato” (par. 31), il testo assume i toni dell’arringa. Il Parlamento “condanna fermamente il fatto che la Russia abbia violato il diritto internazionale mediante l’aggressione militare diretta e la guerra ibrida contro l’Ucraina, che ha provocato migliaia di vittime militari e civili, così come l’annessione e l’occupazione illegittime della Crimea e le azioni di natura analoga nei confronti dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, territori della Georgia; sottolinea l’allarmante deterioramento del rispetto dei diritti umani, della libertà di espressione e della libertà dei media in Crimea” (par. 34); “sostiene le sanzioni adottate dall’UE in reazione all’aggressione russa contro l’Ucraina [le quali] potrebbero anche essere rafforzate” (par. 35); “invita i paesi candidati all’adesione ad allineare la loro politica estera nei confronti della Russia con quelli dell’Unione” (par. 36); infine, toccando i vertici dell’impudenza, “sottolinea la necessità di un approccio europeo coerente nei confronti delle campagne di disinformazione e delle attività di propaganda utilizzate dalla Russia all’interno e all’esterno dell’UE; esorta il SEAE e la Commissione a presentare un piano d’azione con misure concrete per contrastare la propaganda russa; chiede la cooperazione con il Centro di eccellenza delle comunicazioni strategiche della NATO sulla questione” (par. 37).

Quanto alla NATO, il Parlamento europeo considera che “la cooperazione UE-NATO debba essere rafforzata e che sia necessario intensificare la pianificazione e il coordinamento tra la difesa intelligente della NATO e la messa in comune e la condivisione dell’UE” (par. 54). Esso infatti “ritiene che gli Stati Uniti siano il principale partner strategico dell’UE e promuove un maggior coordinamento, in condizioni di parità [sic], con tale paese in materia di politica estera dell’Unione Europea e a livello globale; sottolinea il carattere strategico del partenariato transatlantico su commercio e investimenti che ha il potenziale di consentire ai partner transatlantici di fissare standard globali in materia di lavoro, salute, ambiente e proprietà intellettuale e rafforzare la governance globale” (par. 52); infine “sottolinea la necessità di definire una strategia dell’UE in coordinamento con gli Stati Uniti” (par. 55).

L’appiattimento sulle posizioni di Washington concernenti l’Ucraina, espresso in termini inequivocabili dalla risoluzione votata dal Parlamento europeo, esclude la possibilità di un accordo tra Europa e Russia, che danneggerebbe in maniera decisiva l’egemonia statunitense. Con la sua programmatica rinuncia ad assumere decisioni autonome e sovrane, l’Unione Europea tradisce ancora una volta gl’interessi fondamentali dell’Europa.

La rilevanza dell’Ucraina nella strategia del controllo americano sull’Europa è stata lucidamente evidenziata da Zbigniew Brzezinski circa vent’anni fa, quando non era facile immaginare il ruolo centrale che l’Ucraina avrebbe assunto sullo scacchiere eurasiatico. Eppure il geopolitico americano ne aveva indicato la funzione di “perno” (pivot), l’importanza vitale per la Russia e per l’intera Eurasia. “L’Ucraina, un nuovo ed importante spazio sullo scacchiere eurasiatico, – possiamo leggere in The Grand Chessboard – è un perno geopolitico, perché la sua esistenza stessa come paese indipendente serve a trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. La Russia senza l’Ucraina può ancora lottare per uno statuto imperiale, ma allora diventerebbe uno Stato imperiale prevalentemente asiatico, più facilmente trascinabile in conflitti debilitanti con le risorte popolazioni dell’Asia centrale (…) Comunque, se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente ritrova il modo per diventare un potente Stato imperiale, esteso sull’Europa e sull’Asia”(1).

Quindi gli Stati Uniti devono impedire ad ogni costo che Mosca estenda all’Ucraina la propria egemonia, perché ciò significherebbe l’espulsione della potenza americana dal continente eurasiatico. Nonostante Washington abbia tardato “a riconoscere l’importanza geopolitica di uno Stato ucraino separato, (…) gli artefici della politica americana sono anche giunti a descrivere il rapporto americano-ucraino come ‘un partenariato strategico’”(2).

Offrendo all’Ucraina la possibilità di entrare nell’Unione Europea, patrocinando il colpo di Stato di Kiev, fornendo aiuto politico e militare al regime golpista, appoggiando le iniziative antirusse del governo statunitense, l’Unione Europea e le cancellerie di alcuni paesi europei hanno collaborato attivamente alla realizzazione del piano elaborato dallo stratega della Casa Bianca, secondo il quale l’Europa costituisce la “testa di ponte democratica” degli Stati Uniti nel continente eurasiatico (3). È infatti lo stesso Brzezinski a dichiarare esplicitamente: “Un’Europa allargata e una NATO allargata serviranno gl’interessi a breve e a lungo termine della politica statunitense. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così politicamente integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Medio Oriente” (4).

Un anno prima che Brzezinski assegnasse all’Europa il ruolo di “testa di ponte” per la conquista americana dell’Eurasia, l’ideologo dello “scontro delle civiltà” teorizzava, in relazione all’Ucraina, la necessità di “un forte ed efficace sostegno occidentale, che a sua volta potrebbe giungere solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guerra Fredda” (5).

Se sul fronte ucraino il tentativo di conquista dell’Eurasia fa ricorso alla collaborazione scoperta e diretta dell’Unione Europea, sui fronti del Vicino Oriente e del Nordafrica la strategia statunitense del “caos creativo” utilizza i movimenti di matrice wahhabita e salafita e, in special modo, il cosiddetto “Stato Islamico”. La natura eterodossa e settaria di queste forze, i cui nemici principali sono la Repubblica Islamica dell’Iran ed i suoi alleati, ha attivato una sorta di guerra intraislamica che, contribuendo a destabilizzare i paesi dell’area compresa fra la Tunisia e l’Iraq, favorisce la supremazia del regime sionista e fornisce l’occasione per un più deciso impegno occidentale in tutta la regione.

Anche in questo quadrante l’Europa ha messo le proprie energie a disposizione di una manovra che è rivolta contro di essa e contro il continente di cui essa è parte. In Libia, l’aggressione anglo-francese ha dato via libera a bande terroriste che esercitano una pressione sull’Europa mediterranea e giustificano agli occhi di quest’ultima l’esistenza della NATO, ossia dello strumento militare con cui gli USA tengono incatenata l’Europa stessa e con cui preparano la guerra contro la Russia. Non solo. Distruggendo la Libia, gli esecutori della strategia del “caos creativo” hanno aperto un varco attraverso cui milioni di disperati invadono l’Europa, facendo crollare il costo del lavoro e indebolendo ulteriormente la coesione sociale dei paesi europei.

In questo scenario, la tesi dello “scontro delle civiltà” svolge egregiamente il suo ruolo. Azioni terroristiche come quella di Tunisi – e come quella precedente di Parigi, provocata dalla pervicacia del laicismo blasfemo – vengono magistralmente utilizzate per rafforzare una concezione negativa dell’Islam e per rilanciare l’immagine dell’Occidente quale portatore di libertà e tolleranza. Facendosi carico di un’offensiva contro l’Islam, l’Europa non fa altro che eseguire il “lavoro sporco” richiesto dal progetto americano, per cui, in definitiva, essa si impegna in una lotta mortale contro se stessa.

Claudio Mutti

Claudio Mutti è direttore di “Eurasia”.

 

NOTE

1. “Ukraine, a new and important space on the Eurasian chessboard, is a geopolitical pivot because its very existence as an independent country helps to transform Russia. Without Ukraine, Russia ceases to be a Eurasian empire. Russia without Ukraine can still strive for imperial status, but it would then become a predominantly Asian imperial state, more likely to be drawn into debilitating conflicts with aroused Central Asians (…) However, if Moscow regains control over Ukraine, with its 52 million people and major resources as well as its access to the Black Sea, Russia automatically again regains the wherewithal to become a powerful imperial state, spanning Europe and Asia” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, p. 46).
2. “in recognizing the geopolitical importance of a separate Ukrainian state, (…) American policy makers also came to describe the American-Ukrainian relationship as ‘a strategic partnership'” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 113).
3. “Europe is America’s essential geopolitical bridgehead on the Eurasian continent” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 59).
4. “A wider Europe and an enlarged NATO will serve the short-term and longer-terme interests of U.S. policy. A larger Europe will expand the range of American influence without simultaneously creating a Europe so politically integrated that it could challenge the United States on matters of geopolitical importance, particularly in the Middle East” (Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, “Foreign Affairs”, Sept.-Oct. 1997, p. 53).
5. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, p. 242.

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L’EURASIA AGGREDITA SU PIÙ FRONTI

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L’EURASIA AGGREDITA SU PIÙ FRONTI
Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

Editoriale
Claudio Mutti, L’Eurasia aggredita su più fronti

Dossario: L’Eurasia aggredita su più fronti

LA GUERRA SU PIÙ FRONTI CONTRO IL CUORE DELL’EURASIA
di Mahdi Darius Nazemroaya

Gli USA hanno scatenato in Eurasia e in Africa una Guerra su più fronti che si estende all’America Latina. Lo scopo di Washington e Wall Street è di impedire l’integrazione eurasiatica e la nascita di un blocco economico rivale. È in questo contesto che Washington sta destabilizzando la Siria, l’Iraq e l’Ucraina. L’obiettivo strategico consiste nell’impedire che attorno al centro del Continente eurasiatico si uniscano le periferie dell’Europa occidentale e dell’Estremo Oriente. Ecco perché Washington sta facendo il possibile contro la Federazione Russa e contro l’Unione Economica Eurasiatica.

O l’OCCIDENTE O L’EURASIA
di Spartaco Alfredo Puttini

Lo svolgersi degli eventi che si susseguono sulla scena internazionale palesano ogni giorno di più uno stato di crescente tensione. Non si allude qui ai vari focolai che tormentano diverse regioni del pianeta, magari da decenni, ma alla crescente rivalità che divide e contrappone le grandi potenze. Per tutti coloro che hanno guardato con occhi disincantati la realtà internazionale di questi ultimi decenni il manifestarsi delle divergenze tra l’Occidente guidato dagli Stati Uniti da un lato e la Russia ed altre forze dall’altro non rappresenta una novità, ma una conferma. La conferma della inevitabile alterità fra il tentativo di egemonia statunitense e la volontà di una serie di Stati e di popoli di difendersi e di ripristinare un equilibrio di potenza, favorendo la nascita di un mondo multipolare.

LA QUESTIONE UCRAINA IN PROSPETTIVA GEOPOLITICA
di Fabio Falchi
Riguardo alla “questione ucraina”, i media occidentali non si limitano alla consueta criminalizzazione del “nemico”, bensì “ignorano” quasi del tutto le vicende belliche del conflitto russo-tedesco nel 1941-45 e non esitano a presentare una visione palesemente “distorta” della stessa storia della Russia. Nondimeno, è palese che gli “strateghi occidentali” siano perfettamente consapevoli che quanto accade in Ucraina è una minaccia gravissima alla sicurezza nazionale della Russia. Posto allora che non è verosimile che gli Stati Uniti vogliano combattere una guerra termonucleare contro la Russia, è lecito ritenere che si sia in presenza di una vera e propria strategia della tensione, che ha come obiettivo la destabilizzazione non solo della Russia ma anche della stessa Europa.

LA SINDROME DI GORBACIOV
di Vincenzo Mungo
La politica di Gorbaciov fallì nel suo obiettivo anche a causa delle incertezze della classe dirigente sovietica di quel periodo. Oggi, sotto l’incalzare della pressione occidentale, la classe dirigente russa rischia di diventare preda di un analogo complesso di paure, di indecisioni e di eccessiva tolleranza verso gli avversari. Qualora essa si lasciasse contagiare di nuovo dalla “sindrome di Gorbaciov”, non farebbe altro che consegnare il Paese all’imperialismo americano.

LA BIELORUSSIA AL BIVIO
di Giuseppe Cappelluti
Tradizionalmente la Bielorussia è il più filorusso tra gli Stati postsovietici: la sua popolazione si percepisce tanto come bielorussa quanto come russa, e il suo governo è uno dei maggiori fautori dell’integrazione eurasiatica. Tuttavia, negli ultimi mesi, le tensioni in Ucraina e le pressioni incrociate di Russia e Occidente hanno spinto il Paese in una posizione non facile, da cui esso sta cercando di uscire riscoprendo il nazionalismo e adottando una posizione ambigua sulla crisi in corso nel Paese esteuropeo. Alcuni, specie in Occidente, sostengono – non senza una certa Schadenfreude – che Russia e Bielorussia stiano vivendo una sorta di crisi di coppia. Una rottura vera e propria, però, è tutt’altro che probabile.

LA REPUBBLICA OLTRE IL DNESTR
di Ivelina Dimitrova
La Repubblica moldava di Pridnestrov’e, la Transnistria, è uno Stato che, benché non sia riconosciuto da nessuno, tuttavia esiste dal 2 settembre 1990, quando, all’epoca della sua dichiarazione di indipendenza, molti degli attuali membri dell’UE non esistevano ancora come Stati. La Transnistria è un paese che ha il suo esercito, la sua frontiera, la sua moneta, la sua polizia ed una sua spiccata identità “nazionale”. Oggi, con il conflitto in Ucraina, questa piccola striscia di terra ha assunto un’importanza ancora più grande dal punto di vista geopolitico.

LA CORSA ALL’ARTICO
di Emiliano Vitaliano
Negli ultimi anni lo scioglimento progressivo dei ghiacciai ha spinto varie potenze mondiali a manifestare interesse per le ingentissime risorse naturali dell’Artico. La Russia intravede in questa zona una possibilità di rafforzare la propria economia e di giocare un ruolo da protagonista nella politica mondiale. La Cina è interessata, oltre che ai vari giacimenti, anche ai nuovi corridoi di navigazione, così come l’UE. Le risorse naturali dell’Artico fanno gola anche agli USA, i quali temono la vicinanza della Russia alle coste americane. Insomma, l’Artico è lo scenario in cui si stabiliranno i nuovi equilibri geopolitici del pianeta.

UNA “PIETRA NERA” A STELLE E STRISCE STA COMPRANDO L’ITALIA?
di Stefano Vernole
Il fondo d’investimento statunitense Blackstone e il suo ex gestore Blackrock stanno acquisendo sempre più potere in Italia, quasi a compensare il recente attivismo economico della Repubblica Popolare Cinese nel nostro paese. L’indebitamento statale, le misure finanziarie richieste per adeguarsi ai parametri europei, le nuove privatizzazioni hanno aperto diverse prospettive agli investitori ma soprattutto agli speculatori, mentre lo sguardo “interessato” dei servizi di sicurezza italiani sembra posarsi più sui primi che sui secondi. Dietro un’apparente concorrenza di carattere commerciale si nasconde uno scontro geopolitico determinante per le sorti dell’Eurasia.

EUROPA: TERRA DI CONQUISTA O CAMPO DI BATTAGLIA?
di Alessandra Colla
I fatti di Parigi sono stati magistralmente usati per rafforzare una concezione negativa dell’Islam e per rilanciare l’immagine dell’Occidente come portatore di libertà e tolleranza. Facendosi carico di un’offensiva contro l’Islam, l’Europa non fa altro che svolgere il “lavoro sporco” richiesto dal progetto della globalizzazione americana.

 

Osservatorio

L’EUROPA DIVISA: BUDAPEST E ATENE
di Ivelina Dimitrova

Mai come oggi i rapporti tra il Cremlino e l’Occidente sono stati così tesi. Tuttavia, nell’attuale situazione di stagnazione economica e di instabilità politica, una parte significativa dell’opinione pubblica europea si sta chiedendo il perché di tanto accanimento nei confronti della Russia e molti uomini politici ritengono vitale per l’Europa il miglioramento delle relazioni con il Cremlino. Grecia ed Ungheria, in particolare, stanno conducendo una politica pragmatica nei confronti della Federazione Russa, essendo più preoccupate di tutelare l’interesse nazionale che di adeguarsi totalmente alle imposizioni occidentali.

I RAPPORTI FRA GRECIA E TURCHIA E IL RUOLO DI MOSCA
di Aldo Braccio
Chi soffia sul fuoco dello scontro di civiltà addita non di rado come modello dell’opposizione fra “Europa cristiana” e “Asia islamica” proprio il contrapporsi di Grecia e Turchia. Prescindendo da queste enfatizzazioni interessate, è certo che non mancano motivi di contrasto fra i due Paesi: la questione cipriota – ampliata oggi dalla scoperta dell’importanza dell’isola nel reperimento di risorse energetiche – quella inerente la ripartizione degli spazi marittimi e il problema scottante del transito di immigrati clandestini ne sono gli elementi salienti. L’entrata in scena del nuovo governo greco – significativamente sostenuto dalla minoranza turca presente in territorio ellenico – può favorire un percorso di reciproca collaborazione soltanto faticosamente intrapreso negli anni scorsi con la costituzione di un Consiglio di alta cooperazione strategica. Fondamentale nella ricerca di nuovi e più stabili equilibri sarà il ruolo che svolgerà la Russia, potenza eurasiatica di riferimento e di richiamo per Atene (come gli esponenti di Syriza hanno decisamente ribadito) ma anche interlocutore assolutamente imprescindibile per Ankara; fra Grecia e Turchia potrà essere Mosca – anziché l’Unione Europea, che non ha fin qui voluto o saputo svolgere tale ruolo – a favorire un’intesa in questo importante quadrante del Mediterraneo.

PREMESSE E CONSEGUENZE DEL VOTO GRECO
di Andrea Turi
Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, trionfa nelle elezioni politiche anticipate di fine gennaio. Un successo annunciato che impaurisce i creditori internazionali e la troika. Cosa comporta la vittoria del partito antiausterità? Chi sono i suoi alleati di governo? La Grecia è pronta a guardare verso altre direzioni e a muoversi oltre il mero atlantismo della sua politica estera? Cronistoria e analisi di un voto figlio della crisi ellenica.

FRONT NATIONAL… FRONT FAMILIAL
di Yannick Sauveur
La presentazione del Front National che viene fatta al grande pubblico è ampiamente viziata. Una comprensione più esatta di quello che è il FN, da quando Marine Le Pen ne ha assunto la presidenza (gennaio 2011), non può prescindere dalla storia del partito, a partire dalla sua fondazione nel 1972. Considerato in una prospettiva diacronica, il FN rivela continuità e momenti di rottura; questi ultimi, più formali che sostanziali.

L’INCERTO FEDERALISMO IRACHENO
di Ali Reza Jalali
Il sistema di governo dell’Iraq si caratterizza per una marcata autonomia delle regioni rispetto al governo centrale, muovendosi dunque, dopo gli anni del dominio nazionalista di Saddam, da un modello tendenzialmente accentratore a un modello di tipo vagamente federale, con i vantaggi e gli svantaggi che derivano da questa impostazione. I vantaggi derivano dalla scelta di instaurare un modello che, almeno in linea teorica, si addice a un paese non omogeneo come l’Iraq; gli svantaggi invece derivano dall’eccessiva frammentazione che il federalismo comporta in un paese con forti pulsioni alla secessione, al terrorismo settario e alle ingerenze straniere dei vari attori regionali, senza dimenticare il ruolo fortemente deleterio dell’intervento occidentale del 2003.

L’IDROPOLITICA DELLA TURCHIA
di Francesco Ventura
Il controllo delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate da parte della Turchia può conferire ad Ankara il ruolo di serbatoio idrico del Vicino Oriente, riequilibrando il potere derivante dal possesso degli idrocarburi degli Stati arabi. La nuova geopolitica turca, così come interpretata dall’attuale Primo Ministro turco Ahmet Davutoglu nella sua opera Profondità strategica. Il ruolo internazionale della Turchia, trova nello sviluppo del Progetto dell’Anatolia Sudorientale (GAP) uno strumento per aumentare il proprio peso specifico in tutta la regione. Uno strumento di medio-lungo periodo che, vista la crescente scarsità idrica, sarà sicuramente cruciale nel futuro prossimo.

NUOVE FORME DI POLITICA MIGRATORIA
di Gabriele Abbondanza
L’attuale scenario internazionale presenta una lunga lista di aree critiche, alla base di un rinnovato insieme di flussi migratori irregolari. Italia e Australia sono due paesi che, nonostante le evidenti differenze culturali e la distanza geografica, risentono in maniera simile di tali fenomeni, in particolare dell’immigrazione illegale via mare. Il presente saggio si propone di approfondire le politiche migratorie dei due paesi, radicalmente diverse per mezzi e scopi, per poi auspicare la combinazione delle pratiche migliori di entrambi i sistemi, proponendo l’idea di una “Soluzione Mediterranea”.

 

Interviste

INTERVISTA A TOUAMI GARNAOUI
a cura di Anna Maria Turi

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LA “DIASPORA COPTA”

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A partire dagli anni ’90 qualsiasi autore che prenda in esame le dinamiche socio-politiche degli egiziani cristiani, i copti, fa almeno un riferimento, alla “diaspora copta”, ricorrendo fondamentalmente agli stessi termini (1). Un’espressione che indica una dimensione della realtà copta sempre più imprescindibile per capirne le dinamiche. Un’espressione, inoltre, che si è progressivamente estesa e arricchita di informazioni e dati fino a divenire un soggetto autonomo di ricerca (2). Ciò è dovuto sia all’aumento dell’emigrazione egiziana, quindi dell’emigrazione copta, sia all’azione dei militanti copti all’estero, che rendono maggiormente visibile la presenza dei copti nei vari paesi ospitanti, conferendole una connotazione confessionale.

La ricostruzione storica del fenomeno migratorio egiziano dimostra come l’emigrazione dei copti segua le stesse dinamiche, a discapito di quanto venga delineato a proposito della “diaspora copta”. Gli autori la presentano come un fenomeno iniziato a partire dagli anni ’60 a seguito della rivoluzione degli Ufficiali Liberi e del governo di Nasser, che avrebbe avviato una progressiva e crescente esclusione dei copti dalla scena politica egiziana. Continuano parlando dell’aumento del fenomeno migratorio negli anni ’70 e ancor più negli ’80 e ’90, quando sarebbe stata l’islamizzazione della politica egiziana ad aggravare le difficili condizioni economiche. E ancora una spiegazione confessionale viene data alla scelta della destinazione: i paesi occidentali per i cristiani e paesi del Golfo per i musulmani. Infine, negli ultimi dieci anni si parla molto di “esodo” dei copti nell’ambito del più ampio “esodo” dei cristiani del Vicino Oriente (3), che si sarebbe rafforzato a seguito della rivoluzione del 25 gennaio del 2011.

Questa ricostruzione sommaria dell’emigrazione copta perde completamente il suo carattere confessionale se si prendono in considerazione le dinamiche migratorie degli egiziani in generale. Una pista da seguire per tracciare l’emigrazione copta all’interno di quella egiziana è la presenza, cronologicamente concomitante, della Chiesa Copta Ortodossa nei paesi di emigrazione egiziana. L’unica eccezione è rappresentata dall’Arabia Saudita, in cui l’assenza di chiese è dovuta alla proibizione di costruirne e non alla mancanza di copti tra gli immigrati egiziani.

Diverse fasi dell’emigrazione egiziana (1960-2012) e presenza della Chiesa Copta Ortodossa nei paesi di emigrazione.

Negli anni ’60 furono le riforme socialiste di Nasser a spingere molti egiziani della classe aristocratica, per lo più latifondisti, ad emigrare per aver perso i loro privilegi politici ed economici. Le principali destinazioni di questa prima ondata di emigrazione egiziana furono gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. L’Europa era ancora una meta secondaria, un passaggio verso queste destinazioni più lontane.

Passando alla seconda ondata migratoria, quella degli anni ’70, ’80 e ’90, l’intensificarsi dell’emigrazione copta è dovuta, di nuovo, alle politiche nazionali: è proprio in quegli anni che l’emigrazione egiziana si afferma in quanto fenomeno stabile a seguito di precise politiche del governo. Resosi conto dell’enorme potenziale economico che rappresentano gli egiziani emigrati per risolvere problemi di carattere demografico e attirare investimenti esterni, in concomitanza con l’aumento della richiesta di manodopera nei paesi del Golfo a seguito dell’aumento del prezzo del petrolio, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, il governo di Nasser e ancor più quello di Sadat cominció ad emanare una serie di leggi volte a facilitare e promuovere l’emigrazione, anteriormente soggetta a numerose restrizioni (4). Nel 1971 la Costituzione egiziana riconosce per la prima volta nelle storia dell’Egitto il diritto dei cittadini di emigrare; nel 1981 il decreto presidenziale n. 574 stabilisce il Ministero di Stato per gli Affari dell’Emigrazione, con lo scopo di prestare servizio agli egiziani che desiderano emigrare all’estero da un lato e sviluppare strategie per incrementare lo sviluppo economico dell’Egitto dall’altro. Inoltre, nel 1983 viene elaborata la prima legge completa sull’emigrazione che prevede, art.4, la creazione di un Comitato Supremo per l’Emigrazione sotto la direzione del ministro degli affari dell’emigrazione. La Costituzione del 1971 sancisce anche la differenza tra «emigrazione permanente» quella verso l’Occidente e «emigrazione temporanea» quella verso i paesi del Golfo. Realtà ben diversa da quella presentata, ad esempio, da Cannuyer che distingue tra l’emigrazione dei musulmani che «emigrano per tornare» e quella dei copti che se vanno per rimanere all’estero, adducendo al fattore religioso la spiegazione di tale dinamica.(5) Infine, l’ultima ondata migratoria egiziana è quella degli ultimi venti anni, in cui si dimostra una tendenza a scegliere l’Europa tra le mete privilegiate per una popolazione sempre più travagliata da problemi di ordine socio-economico in buona parte derivati dalla sempre maggior esclusione dell’Egitto dall’economia mondiale. Ragioni di prossimità geografica giocano a favore della scelta europea tanto tra gli egiziani istruiti che desiderano perfezionare la loro formazione o trovare un lavoro consono alla loro preparazione, che tra quelli meno agiati che puntano alla via illegale per emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita.

Con la temporanea, ma significativa, chiusura all’emigrazione egiziana da parte degli Emirati Arabi Uniti (6) e il contesto di instabilità della Libia (7), la scelta europea potrebbe uteriormente canalizzare il nuovo flusso di migrazione da parte della popolazione egiziana preoccuapata per la mancanza di stabilità e sicurezza all’interno di un paese in piena rivoluzione. Questo elemento si è aggiunto al fattore principale che spinge gli egiziani a lasciare il proprio paese, ossia la mancanza di possibilità lavorative e realizzazione professionale corrispondente alla formazione effettuata; uno dei fattori chiavi delle rivoluzioni stesse. Il nuovo scenario di instabilità e mancanza di sicurezza non ha fatto che rafforzare tale sentimento di frustazione. Un sondaggio condotto dall’ International Organization of Migration (IOM), uno dei primi ad essere stati effettuati dopo il 25 gennaio 2011 per valutare in che maniera la rivoluzione affettasse l’emigrazione, dimostra che la mancanza di opportunità lavorative continua ad essere la causa principale che spinge i 750 egiziani interpellati ad emigrare, con un 60% di questi che vi affiancano la mancanza di sicurezza. I ragazzi egiziani con cui ho avuto modi di parlare confermano questo desiderio crescente di lasciare un paese che non offre loro le condizioni per realizzarsi professionalmente e umanamente.

L’emigrazione dei cristiani egiziani non è dovuta, pertanto, a fattori legati ad uno
«sradicamento particolarmente potente (al di là della ricerca di migliori condizioni di vita che sta alla base della maggioranza delle migrazioni)» (8), una delle condizioni necessarie, secondo Yves Lacoste, affinché si possa parlare di “diaspora”. Il geografo francese restringe ulteriormente il campo sostenendo che «la parte della popolazione dispersa tra diversi stati, deve essere maggiore rispetto a quella che resta nel paese (9)». Ora, stabilire il numero di copti emigrati risulta estremamente difficile per la mancanza di statistiche ufficiali e la discrepanza tra quelle a disposizione, come del resto per quanto riguarda le cifre relative ai copti presenti in Egitto. Tuttavia il numero dei copti emigrati non supera quello dei copti in Egitto.

Copti in Egitto

Copti emigrati
Censimento ufficiale governo egiziano: 3.340.000 (1996)
Ibn Khaldun Center (Cairo): 2 milioni

Chiesa Copta Ortodossa: 15/20.000.000

Samir Mustafa (direttore al-Ahram
Center – Canada): 70 mila in Canada
Governo statunitense/stampa internazionale: 8.000.000
Nader Guirguis
(finanziere copto nel Quebec): 6
milioni e mezzo tra Canada e Stati Uniti

Alla luce di quanto detto, resta da capire perchè si sia affermata tale espressione e a quali rappresentazioni geopolitiche sia legata. Gli attori chiamati in causa sono il governo egiziano da una parte, gli Stati Uniti e i paesi d’accoglienza dall’altra, con in mezzo i copti militanti emigrati, che fungono da anello di congiunzione. Questi sono una parte dei copti emigrati, in particolare gli aristocratici che emigrarono negli anni ’60 e ‘70 negli Stati Uniti, che si organizzarono in associazioni per la difesa dei loro correligionari in Egitto, riuscendo a raggiungere una certa notorietà e influenza all’interno del sistema lobbystico politico americano. Loro referenti politici sono i membri repubblicani del Congresso, nonchè associazioni sioniste e di estrema destra. Il loro principale obiettivo, non a caso, era ed è tutt’ora quello di far pressione sui governi dei paesi ospitanti affinchè intervengano nella politica interna dell’Egitto per porre fine alle discriminazioni di cui i loro connazionali sarebbero quotidianamente oggetto a causa di un governo complice degli islamisti. Il loro messaggio estremista ben si sposa con la politica statunitense della protezione delle minoranze religiose nel mondo: nei rapporti annuali della Commissione appositamente costituita, i copti ortodossi rivestono un ruolo centrale del dossier Egitto.

La politica di protezione delle minoranze religiose nel Levante non è fatto nuovo, ma risale alla alla metà del XVI secolo con il sistema delle Capitolazioni inaugurato da Francesco I di Francia e si intensifica nel XVIII e XIX secolo quando, con la caduta dell’impero ottomano, Inghilterra, Francia e Russia si spartirono la protezione delle varie comunità cristiane, la cui autonomia divenne uno strumento privilegiato per la loro influenza nella regione (10). La politica statunitense, applicando vere e proprie sanzioni a quei paesi che non rispettano le minoranze religiose, segue la stessa logica. L’Egitto è tra i primi a ricevere queste attenzioni, considerata l’importanza strategica che riveste nella regione per gli Stati Uniti: scelto simbolicamente come paese in cui tenere lo storico discorso del presidente Obama ai paesi arabo-musulmani, l’Egitto è divenuto,  per la sua posizione geografica, per il suo peso demografico, politico e culturale, «un elemento fondamentale nella politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente per aver contribuito a stabilizzare la pace tra gli arabi e Israele, considerata come uno degli obiettivi più importanti nella regione, soprattutto dopo gli accordi di pace nel 1979 (11)». Tale accordo, primo tra i paesi arabi, gli è valso un aiuto economico annuo pari a un miliardo di dollari (12). Un aiuto economico in gran parte militare e che continua tutt’ora: per l’anno finanziario 2014, il Congresso ha destinato per l’Egitto 1,3 bilioni in finanziamenti militari e 250 milioni in Fondi di supporto economico (13).
In cambio l’Egitto si impegna a combattere il terrorismo e mantenere sicura la penisola del Sinai, ossia uno dei fronti dello Stato di Israele, nonché a fornire a quest’ultimo gas naturale. Non è un caso che l’Egitto sia stato inserito tra i paesi sotto controllo proprio dal 2011 quando gli accordi sul gas sono stati messi in discussione (14).
In tale contesto, l’espressione “diaspora copta” rafforza la rappresentazione di discriminazione e persecuzione, funzionale alla politica intervenzionista statunitense. Sebbene, infatti, il termine diaspora abbia conosciuto negli ultimi 40 anni una notevole liberalizzazione che lo ha portato ad essere ampiamente utilizzato nei più svariati casi, affrancandosi dal referente ebraico a cui era indissolubilmente legato (15), il termine non è del tutto neutrale. Si è già illustrato quale accezione assuma in geopolitica.
Ragion per cui, in Egitto vi è sempre stata un’unanime e categorica ostilità nei confronti degli attivisti copti emigrati, accusati da un lato di “accrescere il loro potere attraverso il supporto straniero” (16), dall’altro, di favorire così l’intrusione delle stesse potenze straniere negli affari interni dell’Egitto. Il termine diaspora viene rifiutato e ci si riferisce a loro come al-aqbāṭ al-mahğr, letteralmente “copti nelle terre d’emigrazione”. È lo stesso patriarca Shenuda III a specificarlo:

«L’espressione šattāt (diyasbūra) è un’espressione molto utilizzata tra le chiese che si trovano nel mahğr, ma noi non li chiamiamo assolutamente così, quanto copti nei paesi dell’emigrazione (aqbāṭ fī balād al-mahğr)… Diyasbura non è un termine appropriato perché non pacifico. […](17)»

Il patriarca copto ha due ragioni fondamentali per denunciare la militanza dei copti emigrati: innanzitutto, la loro azione è rivolta anche contro il ruolo politico del papa (18); secondariamente ribadisce il suo allineamento con il governo di Mubarak. Il loro messaggio estremista di persecuzione dei cristiani nuoce all’immagine positiva del governo egiziano nei confronti del’alleato statunitense e va contro l’ideologia dell’unità nazionale (wahda wataniyya) professata dal regime militare dal 1952 in accordo con le massime autorità religiose, il patriarca da un lato e lo sheykh di al-Azhar dall’altro. Entrambe condannano ufficialmente il rapporto annuale sulla libertà religiosa internazionale del Dipartimento di Stato statunitense ribadendo che i problemi interni all’Egitto, qualsiasi essi siano, vadano risolti all’interno dei confini nazionali, senza intromissioni esterne (19). Il Ministro degli Esteri egiziano fa loro eco affermando che Washington non ha il diritto di valutare la libertà religiosa nel paese (20). Nel 1998, ad esempio, il presidente Moubarak invita una delegazione del Consiglio delle Chiese di New York (21) dopo che questa si era posta il problema delle relazione tra cristiani e musulmani in Egitto per vedere se vi erano effettivamente le persecuzioni e discriminazioni dei cristiani di cui parlava l’American Coptic Union di Jersey City. Il breve viaggio, passato tra incontri con autorità religiose e politiche e classiche visite turistiche, diede come risultato che il governo egiziano non permette alcun atto di discriminazione contro i cristiani in Egitto e attua con «un genuino desiderio» col fine di creare una società «sicura e giusta» in cui «musulmani e cristiani possano vivere uno affianco all’altro in tranquillità», eliminando le discriminazioni laddove queste esistano. Un ruolo attivo, quindi, contro l’azione degli «estremisti fondamentalisti» che periodicamente compiono atti terroristi contro i cristiani (22).
Posizione speculare quella di giornalisti e intellettuali tanto musulmani che copti, contrari a qualsiasi forma di intrusione tanto diretta che indiretta. Per quanto riguarda i copti laici egiziani, sebbene condividano la maggioranza delle rivendicazioni dei copti emigrati (23), ne condannano i toni estremizzanti e non veritieri attraverso cui richiamano l’attenzione internazionale. Questi si trovano, pertanto, da una parte in linea con la posizione dell’autorità (l’ex-governo di Mubarak) e della Chiesa, nell’opporsi all’attività dei copti espatriati, dall’altra in linea con questi ultimi nelle rivendicazioni e soprattutto nell’opposizione alla politica del Patriarca. Essi inoltre, ritengono che l’attività dei militanti all’estero, pur essendo in difesa dei copti, abbia in realtà degli effetti negativi dal momento che i loro toni screditano gli stessi copti e attirano su di loro l’ostilità del resto della popolazione egiziana musulmana.
Per concludere, l’espressione “diaspora copta” è sintomatica delle rappresentazioni geopolitiche degli attori implicati: per i copti militanti emigrati è funzionale per rivendicare un contatto con l’Egitto, da cui sono ormai lontani da anni o che non hanno mai conosciuto nel caso delle seconde generazioni, con la rappresentazione implicita di essere stati cacciati. Per la politica intervenzionista statunitense giustifica la necessità di intervento nella politica interna egiziana per proteggere i cristiani. Il suo rifiuto da parte del governo egiziano e degli egiziani in generale, è emblematico dell’opposizione all’intrusione negli affari interni all’Egitto da parte degli Stati Uniti, da cui il paese dipende economicamente e politicamente.
Resta il fatto che l’espressione “diaspora copta” non è congrua con la realtà egiziana e utile solo a conferire maggiore visibilità a una componente minoritaria (i militanti) dell’emigrazione egiziana, che assume, in tal modo, connotazioni confessionali.

Alessandra Fani, dottoranda in geopolitica all’ Institut Français de Géopolitique (IFG) -Paris 8 e in Storia Contemporanea all’Università Rovira i Virgili (URV), Spagna. Ricercatrice presso la Cattedra UNESCO per il Dialogo interculturale nel Mediterraneo, Università Rovira i Virgili, Spagna.

NOTE
1) A mo’ di esempio : « Dans les années 60, une émigration de nature politique et religieuse voit le jour et s’accélère à partir des années 70-80 en raison des difficiles conditions de vie de la communauté et de la montée de l’intégrisme » […] « Il existe aujourd’hui une petite diaspora installée essentiellement aux États-Unis, au Canada et en Australie, et dans une moindre mesure en Europe ». Cfr. Albert L., Les Coptes. La foi du désert, Editions de Vecchi, Paris, 1998, p. 126. « La situation difficile des coptes- cercan social, discrimination, peur de la monte de l’islamisme, difficultés économiques, nourrit une émigration massive : en trente ans, plus de 2 million d’entre eux auraient quitté le pays pour gonfler une importante diaspora. » Cfr., Pommier S., Égypte, l’envers du décor, La Découverte, Parigi, p. 135.
2) Ziad Abdelnour., Le rôle politique de la diaspora copte d’Amérique du Nord, Scienze Politiche IEP, Paris, 1993; Ibrahim Fouad., The Egyptian Coptic Diaspora in Germany: A Study in Local Cultural Vitality, « Bayreuth African Studies Series », no. 75, (2005), pp. 301-316 ; Grégoire Delhaye, Les racines du dynamisme de la diaspora copte, « EchoGéo », on line, URL : http://echogeo.revues.org/6963 ; DOI : 10.4000/echogeo.6963; Zaki Y. N., Coptic Political Activism in the diaspora, the U.S., and the Egyptian Polity, The George Washington University: Imes CapstonePaper Series, 2010. Oltre alle ricerche e pubblicazioni sul tema, in cui la parola diaspora copta non appare nel titolo ma all’interno dell’opera, quali ad esempio Magued Shaimaa, Les migrations coptes aux Etats-Unis. Du militantisme transnational à l’internationalisation de la question copte, Éditions Universitaires Européennes, Sarrebruck, 2010 ; Ayad C., La communauté copte à Paris. Compte-rendu d’enquête, Institut d’Etudes Politique, Parigi, 1989; Albrieux Laure., La communauté copte en France, tesi diretta da M.me Picaudou, sostenuta all’Université Pantheon-Sorbonne nel 2007.
3) Per dare un’ idea dei toni con cui si parla dei cristiani in Medio Oriente nella stampa : Le long calvaire des chrétiens d’Orient, Le Point – 07/05/2009; Le douloureux exode des chrétiens d’Orient, Libération – 26/03/2011 ; Les chrétiens vont-ils disparaître du Moyen-Orient?, Le Monde – 04/11/2010.
4) Dessouki delinea tre fasi della política egiziana a propósito dell’emigrazione: la prima, dagli anni ’50 al 1967, in cui vigeva il divieto di emigrare; la seconda a fine anni ’60 in cui non vi era alcuna restrizione e la terza, negli anni ’70 e ’80, ovvero sotto Sadat, in cui l’emigrazione veniva ampiamente promossa, attraverso veri e proprio incentivi finanziari. Cfr. Gil Feiler, Economic Relations between Egypt and the Gulf Oil States, 1967-2000, Sussex Academic Press, Brighton, 2003, pp. 105-106.
5) Cfr. Christian Cannuyer, Chrétiens du Proche-Orient en diaspora, Solidarité-Oriente, Bulletin 241, Bruxelles, Gennaio-Febbraio-Marzo, 2007, p.10.
6) Decisione dovuta alla decisione di processare l’ex-presidente Moubarak, considerati i rapporti collaborativi tra questi e il re degli Emirati Arabi Uniti. Tale veto è stato revocato a seguito della visita del Primo Ministro Issam Sharaf. Cfr. Dina Abdelfattah, Impact of Arab Revolt on Migration, CARIM-AS 2011/68, p. 10.
7) Grandi flussi di egiziani e tunisini hanno lasciato la Libia in maniera massiva a seguito della degenerazione armata e dell’instabilità dello scenario libico. Cfr. Philippe Fargues, Fandrich, Christine Fandrick, Migration after the Arab Spring, Migration Policy Center – European University Institute, Firenze, 2012, p. 9.
8) Yves Lacoste, Géopolitique des diasporas, « Hérodote », Nª 53, (1989), pp. 5-6.
9) Ibid.
10) George Corm, Géopolitique des minorités au Proche-Orient, “Hommes & Migrations”, n 1172-1173, (Gen-Fev 1994), pp. 7-17.
11) Les relations égypto-américains, State Information Service.
http://www.sis.gov.eg/Fr/Templates/Articles/tmpArticles.aspx?CatID=165#.VA2OjGNKVvQ
12) Ibid.
13) Les relations égypto-américains, State Information Service.
http://www.sis.gov.eg/Fr/Templates/Articles/tmpArticles.aspx?CatID=165#.VA2OjGNKVvQ
14) Cfr., EgyptIndependent, 13/04/2011
15)Cfr., Stephane Dufoix, La dispersion. Une histoire des usages du mot diaspora, Ed. Amsterdam, Paris, 2011.
16) Mary Abdelmasih, Egyptian Government Attempts to Silence Coptic Diaspora, “Assyrian International News Agency”, 2-17-2010. URL: http://www.aina.org/news/20100217122155.htm
17) La domanda che gli era stata posta dall’autore del libro era: “Che ne pensi del fatto che gruppi di copti nella terra d’emigrazione affermano che i copti d’Egitto siano in uno stato di diaspora utilizzando continuamente questa espressione nelle loro pubblicazioni come per il caso degli armeni?”. Cfr. Rashid Al-Bannā, al- aqbāṭ fī maṣr wa-l-mahğr (I copti in Egitto e nelle terre d’emigrazione), Dar al-Muharif, Il Cairo, 2001, p. 65-66
18) I copti emigrati negli anni ’60/’70 appartengono all’elite laica copta al potere sotto la monarchia filo-britannica, spodestata dall’elite ecclesiastica con la rivoluzione del ’52 e di cui Shenuda III ne è il massimo rappresentante.
19) Cfr. al-Masry al-Youm, 26/11/2010.
20) Ibid.
21) Il consiglio, fondato nel 1815, rappresenta oltre 200 chiese di diverse confessioni e organizzazioni della città di New York. Nella delegazione che si recò 5 giorni in Egitto nel marzo del 1998, vi era: Mrs. Patricia R. Butts, prima dama della Chiesa Battista; Mardiros Chevian, prete della Chiesa Ortodossa Armena, il Reverendo Charlesworth Edwards della Chiesa Unita Morava, il Reverendo luterano Michele P. Ellison; Mr. Morris Gurley, Capo della Chiesa Unita Metodista di San Paul e San Andrew, il reverendo Carolyn Holloway della Chiesa Riformata DeWitt Reformed; Michael S. Kendall, Arcidiacono della Diocesi Episcopale di New York; il Reverendo N. J. L’Heureux, Direttore esecutivo della Queens Federation of Churches, e segretario del Concilio. Cfr. The Council of Churches of the City of New York, Report on the Persecution of Christians by the Council of Churches of the City of New York after its Visit to Egypt, Religious News Service from the Arab World, Marzo 1998.
22) Continua il reportage: “We commend the President of Egypt and his government for all steps taken to build a more equitable society. There is good evidence that this is already happening. The change in church building permit laws, the swift response given when there are acts of violence in the provinces and the provision of security in areas where terrorists are likely to operate are all good actions. Cfr. The Council of Churches of the City of New York, Report on the Persecution of Christians by the Council of Churches of the City of New York after its Visit to Egypt, cit.
23) Eliminazione del “Khatta Humayuni”, soppressione dell’articolo 2 della Costituzione, ruolo politico del papa, affermazione della piena cittadinanza per i copti e per gli egiziani in generale senza discriminazione di razza, etnia o religione.

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IL NUOVO ORDINE MONDIALE VISTO DA ORIENTE

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Il 16 e 17 aprile si è tenuta a Mosca una grande conferenza internazionale organizzata dal Ministero della Difesa russo, la MCIS (Moscow Conference on International Security). Nel sostanziale disinteresse dei media europei e americani, più inclini a seguire la controparte atlantista delle conferenze sulla sicurezza (quella annuale di Monaco di Baviera) grandi rappresentanti governativi di settanta paesi (solo la Grecia, fra i paesi NATO, era presente) hanno discusso ed espresso opinioni sull’attuale situazione geopolitica mondiale e in particolare sul ruolo delle potenze eurasiatiche ed asiatiche nel quadro globale. La conferenza di Mosca, rappresentando il punto di vista non euro-atlantico, ha innanzitutto espresso forti critiche all’operato degli Stati Uniti nella rivoluzione ucraina del 2014 e nei recenti moti di protesta di Hong Kong e Venezuela.

Il ministro russo della Difesa Sergey Shoigu ha denunciato nel suo intervento il pericolo derivante da quelle nazioni che “si considerano vincitrici della Guerra Fredda e che vogliono imporre il loro potere sulle altre” per la stabilità e la pace internazionale determinata dopo la Seconda Guerra Mondiale, giunta al termine settant’anni fa. Ha inoltre criticato l’”unilateralismo” americano negli affari internazionali e la politica di sviluppo di un’assoluta superiorità militare, difficilmente giustificabile solo per motivi difensivi. Ha definito “la più grande tragedia causata dalla politica delle rivoluzioni colorate” la guerra civile in Ucraina, frutto di un intenzionale progetto di destabilizzazione interna, che ha portato al ribaltamento di un governo legittimo e allo scoppio di un sanguinoso conflitto che ha già provocato 6000 vittime. La guerra mossa dall’Unione Europea alla Russia tramite sanzioni economiche è la dimostrazione di un nuovo clima di “containment” che pervade le cancellerie occidentali, e della volontà di utilizzare la NATO in chiave offensiva, per opporsi alla presunta minaccia orientale e influenzare politicamente paesi legati per motivi storici e culturali alla Russia avvicinandoli al campo occidentale, come nel caso ucraino.

Sergei Lavrov, ministro russo degli Esteri e grande interlocutore di Mosca con l’UE, ha sostenuto che la pace può essere raggiunta solo con uno sforzo globale e che la scarsa attenzione di USA e NATO ai problemi di sicurezza di molti paesi aumenta le probabilità di un conflitto fra grandi potenze: la strada da percorrere è quella del multilateralismo, e il mondo si trova oggi in un momento delicato nel quale deve decidere fra la cooperazione o una fatale guerra mondiale. Per favorire la distensione, occorrerebbe un’infrastruttura internazionale di sicurezza che affronti i problemi di instabilità in Nordafrica e Medio Oriente e il terrorismo islamico in piena crescita nella regione. Questa partnership globale non dovrebbe diventare tuttavia un pretesto per inserirsi negli affari interni dei paesi colpiti da crisi di governo e dalle forze estremiste, ha affermato Lavrov.

A Mosca sono intervenuti, sia in discorsi pubblici che in vari vertici bilaterali, altri rappresentanti istituzionali di importanti nazioni del blocco eurasiatico. Il Ministro della Difesa iraniano Hussein Dehghan ha evocato un fronte comune fra Teheran, Cina, India e Russia in opposizione all’espansionismo verso est della NATO e alla politica missilistica di quest’ultima nei territori di confine fra Europa e Asia. In un vertice bilaterale Russia e Cina, rappresentata dal Ministro della Difesa Chang Wanquan, hanno enfatizzato i buoni rapporti diplomatici correnti, ritenendo i legami militari fra Mosca e Pechino una “assoluta priorità”.

L’ambiente geopolitico mondiale sta cambiando radicalmente e mentre Washington tenta di implementare una nuova “cortina di ferro” missilistica intorno ai suoi avversari politici, una emergente “Triplice Intesa” fra Pechino, Mosca e Teheran si consolida in un lungo processo d’integrazione politica, strategica, economica e militare. Il Nuovo ordine mondiale pensato dalle elites americane negli anni Novanta prevedeva il primato degli Stati Uniti supportato da Europa e Giappone, ma la realtà sta profilando una situazione ben diversa. Il ministro cinese Wanquan evoca semplicemente un giusto ordine mondiale dove ogni nazione abbia il peso che gli spetta tenendo conto della sua popolazione e della sua rilevanza economica, oltre che del ruolo militare nel mantenimento della pace. Difficile prevedere gli sviluppi di questo quadro in continuo movimento, ma se si tiene conto della previsione del grande geostratega americano Brzezinski, sulla possibile “attrazione” che un polo eurasiatico potrebbe suscitare in molti paesi scontenti dello status quo internazionale, è evidente che la supposta supremazia americana è destinata a un lento, ma inevitabile, logoramento.

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“EURASIA”, MARIANTONI E IL 25 APRILE

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Negli ultimi anni, mentre la maggioranza del variegato circo “antifascista” va avanti come se nulla fosse, qualcuno, “a sinistra”, s’è seriamente posto il problema di come possa avere senso festeggiare, ogni 25 aprile, una “Liberazione” mentre è d’una evidenza solare che siamo sempre più schiavizzati dall’America e dalla Nato.

Ora, su questa terra, nessuno ha il monopolio della verità, pertanto non può che far piacere assistere a questi ‘risvegli’ in un ambiente che finora ha allegramente dormito fornendosi tutt’al più degli alibi sulla “resistenza tradita”. Più persone ripetono una cosa vera e sacrosanta, e meglio è.

Però qualche precisazione è doveroso farla.
Il primo ad “accorgersi” delle centotredici (113) basi militari americane e Nato (e non vagamente “straniere”) è stato Alberto B. Mariantoni (1947-2012), nel suo oramai storico ed illuminante articolo Dal Mare Nostrum al Gallinarium Americanum, pubblicato su “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, 2/2005.

All’epoca (e sono solo dieci anni fa), tirare fuori l’argomento era ancora tabù per tutta la “sinistra”, comunque la si voglia declinare, e fu perciò un fascista (senza alcun uso delle virgolette perché a Mariantoni ciò non suonava come un insulto) a sobbarcarsi, a beneficio di tutta la sua nazione (e non solo della sua pretesa fazione), l’onere di censire, una ad una, le basi, le pertinenze e le installazioni militari delle FF.AA. degli Stati Uniti d’America (e della Nato, una delle loro maschere), disseminate su tutta la penisola esclusivamente grazie alla nostra sconfitta militare del 1945.

Che non fu solamente la sconfitta del Regime fascista, ma dell’Italia nel suo complesso, e che dobbiamo – se vogliamo credere alla stessa retorica resistenziale che assegna ai partigiani un peso decisivo nella sconfitta dei c.d. “nazifascisti” – anche al contributo di coloro che, a distanza di settant’anni, riscuotono – vivi o morti che siano – il plauso delle “istituzioni” di una Nazione a tutti gli effetti occupata.

La “scoperta” di Mariantoni, condita da qualche errore infilato giusto per non scoprire le sue fonti confidenziali, venne ripresa e scopiazzata da una miriade di siti “alternativi” e persino da organizzazioni politiche extraparlamentari, le quali, guardandosi bene dal citare “l’impresentabile” l’autore, si spacciarono per quelli che, all’improvviso, complice il diffuso malcontento per l’aggressione all’Iraq (2003), s’erano rifatti un’immagine di patrioti quando in realtà a loro della Patria non era mai importato un tubo.

Paradossalmente, gli unici a citare Mariantoni ed “Eurasia”, furono i giornalisti della redazione di Canale 5, che citando il suo particolareggiato studio avevano probabilmente ricevuto l’imbeccata di correre ai ripari e di sminuirne la devastante portata in un momento assai delicato per i nostri padroni.

Da centotredici, come per incanto, le basi americane della Nato in Italia diventavano così appena sette, anche se a credere a questa verticale e drastica diminuzione saranno stati davvero in pochi… Oramai il problema era diventato di pubblico dominio.

Persino Beppe Grillo, ad un certo punto, riprese l’argomento in una delle sue “adunate oceaniche”, ma qui – come avremmo potuto constatare in seguito – il sistema aveva già trovato un farsesco antidoto a che non scoppiasse il proverbiale bubbone.

Un bubbone che, a differenza di quanto vanno lamentandosi certi patrioti dell’ultim’ora, se contiene senz’altro l’assenza di libertà, sovranità ed indipendenza (come ripeteva incessantemente lo stesso Mariantoni), non contempla affatto, tra i suoi liquidi purulenti, quella mancanza di democrazia di cui si dolgono quelli che si svegliano solo adesso.

Proprio il Mariantoni, da impenitente anti-democratico, aveva messo in guardia dalla truffa insita nella democrazia stessa, la quale, se ha qualche possibilità di essere realizzata (in un senso che non può in alcun modo essere spacciato per “il potere del popolo”), non può certo convivere con lo scippo della sovranità e dell’indipendenza, senza le quali ogni argomentazione a favore di qualsiasi democrazia suona come un’emerita presa per i fondelli.

Lo sapevano bene anche gli antichi greci, che sono continuamente sulla bocca di chi della “democrazia” ha fatto un ideale filosofico, e lo sapeva benissimo anche Mariantoni, che se per un verso si doleva, da Italiano, nel vedere la sua Patria ridotta al classico “bordello”, per un altro non ha mai ceduto d’un palmo rispetto alle sue idee, che consideravano nel Fascismo – un Fascismo dai tratti anche “immaginari”, se vogliamo, poiché con quello storico sapeva essere critico – la chiave di volta della soluzione e del problema della “democrazia” e di quello della riappropriazione di una normalità che non può prescindere dalla libertà, dall’indipendenza e dalla sovranità che tanta parte ebbero nei suoi numerosi quanto appassionati scritti.

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ORDINI DEL PADRONE USA: L’UE MINACCIA ANCORA L’UNGHERIA

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L’Unione Europea, che nel 2012 s’è aggiudicata il premio Nobel per la pace, si candida per un altro ambito premio: quello per l’ipocrisia e il servilismo.

È accaduto infatti che l’Ungheria, la quale oltre a far parte dell’Unione Europea stessa non ne condivide parecchi “valori” (la c.d. “indipendenza” della Banca centrale, l’equiparazione dei nazionali agli allogeni ecc.), ha ventilato la possibilità di reintrodurre, nel suo ordinamento giuridico, la pena di morte.

Sorvolando sul problema di fondo – e cioè l’ammissibilità o meno della pena capitale in base a metri di giudizio filosofico, etico, politico, sociale ecc. – è come minimo stridente constatare che con l’Ungheria gli euroburocrati mai eletti da nessuno (mentre Orban riscuote un forte consenso interno) fanno la voce grossa e minacciano ritorsioni, mentre con l’America – dove parecchi Stati prevedono la pena di morte (per scarica elettrica, per impiccagione, per iniezione letale e per fucilazione: che fantasia!), anche col consenso dei rispettivi cittadini – gli stessi paladini dei “diritti umani” si fanno piccini piccini, fino a scomparire del tutto davanti all’incombente “Trattato di libero scambio Transatlantico” (TTIP) che manderà definitivamente in rovina le nostre economie e devasterà più di quanto non lo sia già il tessuto sociale delle nostre comunità.

E, chissà, condurrà al recepimento delle medesime normative americane in materia di amministrazione della giustizia, con tanto di carceri private gestite con criteri aziendalistici. Un enorme sistema che per funzionare ha bisogno di creare “delinquenti” per i più svariati motivi, che non sono solo la tipica rapina o l’ancor più classico omicidio.

Un sistema siffatto, dove la persona diventa di fatto uno schiavo (con tanto di tuta arancione modello Guantanamo e poi fornita anche all’ISIS), potrebbe sbarcare dalle nostre parti, qualora il TTIP – questo cavallo di Troia della disumanizzazione di quel poco che resta di sano in Europa – comprendesse anche l’introduzione di un sistema penale e carcerario ad immagine di quello americano, il quale va di concerto con tutto il resto e pertanto è funzionale all’idea stessa di uomo e di società che informa il “modello americano” stesso che tanto manda in solluchero gli eurocrati.

Fantasie? Preoccupazioni senza alcun fondamento?
Sembrerebbe di no, leggendo La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli, di Alain De Benoist, pubblicato da Arianna Editrice e sul quale torneremo in maniera più particolareggiata recensendolo.
Il pensatore francese, dedicando un capitolo al “grande mercato transatlantico”, lo qualifica lapidariamente come una “immensa minaccia”. Una minaccia che sta per diventare realtà, ma nessuno nei “palazzi” dell’Europa sembra accorgersene, intenti come sono a compiacere i loro padroni. Tanto per dirne una, hanno recentemente preparato le condizioni per far invadere i mercati europei dagli Ogm (che Orban ha messo fuori legge), con la massa schiavizzata destinata ad ingozzarsi di una parvenza di cibo mentre solo i ricchi potranno godere, finché dureranno, delle famose “eccellenze” celebrate anche all’Expo.

Eppure basterebbe che qualcuno nelle sedi appropriate – qualcuno non ancora totalmente venduto ed asservito – aprisse gli occhi ed ascoltasse l’ultimo barlume di coscienza rimastogli, per evitare ai suoi compatrioti europei (sempre ammesso che l’Europa sia una “Patria” e non un tragico equivoco) di finire stritolati in nome del cosiddetto “libero commercio”.

Potrebbe anche leggere il libro di De Benoist, e tanto basterebbe per rendersi conto che non ha senso attaccare Orban per poi strisciare davanti a Obama.
Ma potrebbe anche scorrere, uno ad uno, gli articoli della Legge Fondamentale dell’Ungheria, dalla quale il suddetto barlume di coscienza potrebbe ricevere una salutare scossa, ricordandosi di essere prima di tutto un uomo, un uomo radicato in una storia, una lingua e una terra, e non un astratto “consumatore” da sacrificare al “Dio mercato”.

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IMMIGRAZIONE ILLEGALE – INTERVISTA A GABRIELE ABBONDANZA

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Immigrazione illegale: Italia e Australia sono entrambe soggette a forti pressioni migratorie, ma hanno reagito con politiche migratorie opposte per contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare, da Mare Nostrum alla Pacific Solution. Gabriele Abbondanza, ai microfoni dell’emittente nazionale australiana.

 

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“RIDE BENE CHI RIDE ULTIMO”: GEOPOLITICA DELLE VIGNETTE

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Qualcuno, con evidente animo goliardico, negli anni della “Contestazione” scrisse su un muro: “Una risata vi seppellirà”.

Ora, le vignette sono disegnate apposta per farsi una risata. Ma quando se ne fa un uso politico è evidente che l’umorismo è forse l’ultima preoccupazione di chi le commissiona per una testata giornalistica o un’esposizione.
Così si ride a comando, a seconda di come ci si schiera. E ci s’indigna a comando, sempre per lo stesso motivo partigiano.

Allo stesso tempo, c’è chi, a geometria variabile, tira in ballo la “libertà di satira”, filiazione diretta di quella “di espressione”, per giustificare l’opportunità e il sacrosanto diritto di pubblicare determinate vignette. Quand’anche risultassero gravemente offensive per qualcuno. Per non parlare di quelle che insultano intere comunità e, a ben considerare, ledono persino la dignità di qualsiasi essere umano.

Quando l’aperta e dichiarata provocazione è il motivo principale per cui alcune vignette escono su un giornale o vengono esposte in una sala aperta al pubblico, con tanto di reclamizzazione da parte dei soliti media, non si capisce quale “libertà di espressione” abbia parte in tutto ciò.

La riprova che quest’ultimo argomento è falso e pretestuoso è che gli stessi paladini della “libertà” non accetterebbero in alcun modo e per nessun motivo al mondo di dare spazio ad una satira che andasse a colpire ciò che per essi vi è di più sacro ed inviolabile.

Insomma, la questione della “libertà di espressione”, che comprende anche quella “di satira”, e sulla quale è stato sprecato così tanto fiato dopo gli attacchi alla redazione del Charlie Hebdo, è praticamente aria fritta.

Più seriamente, quindi, possiamo sostenere che ciascuno si ritiene in dovere di fare lo spiritoso su quello che in cuor suo considera degno di essere dileggiato e profanato. Pertanto tutta questa “libertà” di cui fanfaroneggiano i cosiddetti “opinionisti” si ferma qui.

Nessuna possibilità, infatti, di ironizzare su cose alle quali si deve esclusivamente tributare – talvolta per legge, ma di fatto per una tacita convenzione sociale – un unanime profondo rispetto…

La questione delle vignette investe dunque quello che per gli antropologi concerne la sfera dei “tabu” e del “sacro”. Chissà se se ne sono accorti, perché non mancherebbe loro – qualora fossero liberi di studiare la materia senza ipoteche “morali” – il modo di portare a conoscenza di un pubblico piuttosto vasto il problema della relatività di ciò che per qualcuno può essere inviolabile mentre per altri non lo è affatto.

Ma non lo faranno. Perché la materia scotta. Scotta talmente tanto che qualcuno s’è bruciato.
Stiamo parlando di chi è tornato nel suo paese dalla prima rassegna di vignette satiriche sull’Olocausto organizzata in Iran. Trattato come un pazzo o un appestato. Per una vignetta, attenzione.

Ma se l’Olocausto è il vero “tabu” dell’Occidente, della religione e dei profeti si può dire, scrivere e… disegnare quel che si vuole, altrimenti le autorità non sosterrebbero pubblicazioni come il Charlie Hebdo che per primi dovrebbe mandare su tutte le furie i cattolici, tanta è l’oscenità delle vignette lì pubblicate che raffigurano il Cristo e la Vergine in pose e situazioni davvero oltre ogni limite di tolleranza anche per un semplice individuo indifferente alla pratica religiosa ma ancora radicato nella sua umanità.

Le vignette irrispettose verso il Profeta dell’Islam sembrano diventate un punto d’onore in Occidente. Al punto che ogni volta che qualche manipolo di scellerati organizza una mostra sul tema, tutti i media rimbalzano la cosa, con la non troppo recondita speranza che accada “il fattaccio”. Che puntualmente si verifica, con il rituale baccano mediatico.

Questo se diamo per buona la versione ufficiale, ovvero che vi è buonafede da tutte le parti. Perché non è particolarmente “complottista” immaginare che gli uni (i profanatori/dileggiatori) e gli altri (attentatori, “false flag” o meno) rispondano a precise catene di comando. Questi qua, per esempio, sono gli organizzatori della recente “mostra su Maometto” tenutasi in Texas, attorno alla quale vi è stata una sparatoria con presunti aderenti all’ISIS. Ciascuno giudichi da sé di chi si tratta in realtà e ne tragga le debite conclusioni: http://freedomdefense.typepad.com/

Come che sia, il risultato è che quest’Occidente alla deriva, che non crede nemmeno più alle sue tanto sbandierate “radici” (greco-romane o giudaico-cristiane che siano), incoraggia la bestemmia e la blasfemia, contro qualsiasi cosa rivesta una sacralità per intere popolazioni. L’islamofobia di queste ultime vignette sul Profeta dell’Islam è difatti l’ultima manifestazione di un discorso che parte da lontano e che ancora oggi trova i suoi estimatori nei difensori a spada tratta del “laicismo”.

Bisogna a tale proposito notare che – a riprova che il punto di vista “esteriore” o exoterico ha sempre un che di insufficiente e limitato – non ci sarebbe per nulla da cantare vittoria se accanto ad un supremo rispetto per la religione cattolica assistessimo al sistematico insulto verso le altre. Per il semplice (si fa per dire) motivo che tutte le religioni (o “tradizioni”) derivano e traggono legittimità da una Tradizione primordiale, traducendo nel linguaggio adatto ad uno specifico “ambiente” l’unicità della dottrina dell’Unità.

Insomma, un cristiano che insulta l’Islam fa torto anche a se stesso, e viceversa, perché tutte le religioni provengono dalla medesima Fonte.

Qualcuno questa cosa l’aveva intuita all’epoca dei nazionalismi ottocenteschi quando sostenne che una sana posizione nazionalista non doveva ledere il legittimo amor di Patria altrui. Su un piano qualitativamente più basso rispetto a quello delle religioni, il concetto rende bene l’idea dell’assurdità dell’assolutizzazione, quale unica “vera”, della propria religione.

Ma, come dicevamo, qui non è questione di innalzare la ‘croce’ per sputare sulla ‘mezzaluna’, dato che tutte le religioni e dunque la sacralità stessa dell’essere umano è messa in discussione da ambienti che sembrano messi su apposta per seminare zizzania.

Detta in altra maniera, potremmo affermare che questi ambienti, che producono fenomeni talmente sguaiati dal risultare immediatamente “sospetti” (si pensi alle Femen o alle Pussy Riot, ma anche a questi “vignettisti”), sono in qualche modo un’emanazione di quella che René Guénon definiva la “Controiniziazione”, la quale, per giungere all’obiettivo di cui è incaricata (ovvero l’avvento dell’Anticristo, o del Dajjâl, “l’Impostore” della tradizione islamica) deve traviare in tutti i modi gli uomini, seminando tra loro la proverbiale zizzania.

Non crediamo perciò di andare molto lontani dal vero interpretando il divieto posto dalla Federazione Russa alla ripubblicazione delle famigerate “vignette” sul Profeta come un fermo segnale inviato a chi pensa di suscitare all’interno di una compagine plurinazionale gli stessi odi che altrove sono riusciti in parte a scatenare calcando la mano il più possibile sul tasto dell’ingiuria verso la religione ed i suoi simboli.

Ma immediatamente, dopo il niet russo, dalle centrali della “libertà di espressione” s’è levata la canea contro il “dittatore” Putin, che ovviamente ha incassato la puntura di spillo e, soprattutto, il plauso delle comunità religiose che popolano la Russia. E questo sarebbe un “provocatore”, un “guerrafondaio”?

Sempre per rimanere sulla Russia, sarà il caso di ricordare che proprio durante la presidenza di Eltsin avevano preso piede, provocando un certo “rumore” mediatico in Occidente, alcuni movimenti che assieme ad un nazionalismo esasperato associavano un anti-ebraismo altrettanto estremo. Tanto estremo dal risultare sospetto. Col nuovo corso putiniano, anche per questi esagerati le luci della ribalta si sono offuscate, eppure il presidente russo non ha smesso di essere sotto il tiro di alcuni “oligarchi” che in un modo o nell’altro si dichiarano ebrei.

Il fatto è – e non lo si ricorderà mai abbastanza – che una cosa è il Sionismo ed un’altra l’Ebraismo. Il primo è sovversivo, il secondo no, traendo anch’esso la sua origine legittima da quella Tradizione primordiale cui accennavamo poc’anzi.

Per questo è facile notare come dietro le peggiori iniziative che – in nome della “libertà d’espressione” – colpiscono i simboli della religione islamica vi sia praticamente sempre qualche organizzazione sionista.

Tutto questo lo sanno bene anche in Iran, dove l’Ebraismo è rispettato ma il Sionismo no, e per questo viene colpito da vignette in un certo senso di segno eguale e contrario a quelle anti-islamiche che circolano nei Paesi occidentali (senza dimenticare però che esse convivono con quelle che insultano tutte le altre religioni).

Al riguardo dell’Iran e delle sue vignette è necessario fare una premessa. Lo Sciismo duodecimano è assai rispettoso verso i simboli della religione cristiana. Ma se l’umorismo sulle persecuzioni anti-ebraiche degli anni Trenta e Quaranta, da una parte, è da leggere come uno strumento propagandistico anti-sionista, dall’altra, fa risaltare, mentre tutti i media occidentali starnazzano come oche impazzite, l’inconsistenza di altisonanti “questioni di principio” di cui gli occidentali stessi vanno fieri, salvo poi smentirle sistematicamente.
Altrimenti non esisterebbe, in parecchi Paesi europei, la galera per gli storici che contestano alcuni aspetti della “storia” delle discriminazioni e delle persecuzioni patite da parte dell’Ebraismo europeo e che una definizione riduttiva e di comodo designa come “negazionisti”.

Pensare che uno studioso possa finire in prigione per i suoi scritti è cosa che non fa ridere nessuno, se non coloro che – come dicevamo all’inizio – a comando trovano fantastico o esecrabile il fatto di fare dell’ironia, anche pesantissima e volgare, su ciò che vi è di più sacro per gli altri.

Ma il punto dirimente è questo: l’Occidente moderno è costruito interamente sulla negazione di Dio, che deve essere espunto da ogni ambito della vita civile, come ha affermato anche di recente – davanti a una platea di professori – uno degli esponenti di punta del “laicismo”. L’Occidente è basato sul “negazionismo” per antonomasia.

Al posto di Dio, siccome un vuoto si deve per forza di cose riempire, anche illusoriamente, è stato messo l’uomo, tramite un “fatto storico” che lungi dall’essere per l’appunto un “fatto”, e dunque indagabile coi normali strumenti dell’inchiesta storica, viene ammantato d’una sacralità abusiva e parodistica. Ad un punto tale che c’è chi ha acutamente osservato che l’Olocausto, imbalsamato in una ‘ortodossia’ indiscutibile, è “l’ultima religione rimasta”. Dell’Occidente, si capisce.

Questo in Iran l’hanno capito bene, e perciò insistono su queste vignette che qua vengono giudicate “antisemite” ma che a ben vedere mettendo in risalto il nesso tra la “Questione palestinese” e l’Olocausto stesso evidenziano in primo luogo il doppiopesismo di cui gli occidentali danno prova quando non vedono oggi ciò che condannano nel passato; in secondo luogo, lo scandalo provocato presso i dirigenti occidentali da quelle vignette ed il contemporaneo plauso da essi tributato ai blasfemi di Charlie Hebdo e simili pone in tutta la sua drammatica evidenza il vuoto morale e di civiltà in cui versa l’Occidente stesso.

Un Occidente che, intendendo ‘seppellire’ con una risata il resto del mondo che ancora crede in qualcosa, si vede di fatto ignorato ed isolato sulla china ridicola che ha preso, rischiando in futuro, se non cambierà atteggiamento verso il sacro e il divino, di veder risolta tutta quest’insana attività sovversiva in una tragica disfatta il cui titolo è già pronto: ride bene chi ride ultimo.

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ALESSANDRO VANOLI, ANDARE PER L’ITALIA ARABA, IL MULINO, BOLOGNA 2014

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Quando visitiamo un Paese o studiamo un periodo storico è sempre bene ricordarsi che noi possiamo o riusciamo a vedere solo quello che i nostri occhi sono in grado di vedere.

Alessandro Vanoli, autore di Andar per l’Italia araba (Il Mulino, Bologna 2014), ciò lo mette in chiaro fin dalle prime battute di questo suo agile e stimolante volumetto, che in 140 pagine, lungi dal pretendere di esaurire l’argomento della presenza araba e islamica in Italia, stimola il lettore ad approfondire una traccia sotterranea della nostra identità.

Che cosa intende esprimere il Vanoli con quell’opportuna avvertenza che riaffiora qua e là nel testo? Che non è affatto scontato che gli uomini che hanno vissuto nella Penisola nei secoli passati abbiano saputo “vedere” quello che per noi, oggi, può risultare di una certa evidenza.
Perché l’interesse per questo o quel “momento” della nostra storia, per esaltarlo o denigrarlo, deriva essenzialmente dal “clima” di un’epoca.

Durante il Fascismo, per esempio, venne incoraggiata al massimo grado la riscoperta delle vestigia romane (e non solo). Poi, col crollo del regime, vi fu un certo ripensamento al riguardo dell’unilateralità di quella prospettiva (per giungere, purtroppo, anche ad eccessi di segno opposto). Insomma, gli uomini di ogni epoca risentono delle idee che circolano, le quali ‘aprono’ loro gli occhi in una direzione o un’altra.

E così, attraverso rapidi e sintetici ‘affreschi regionali’ – dalla Sicilia alla Puglia, dalla Campania alla Toscana, dal Veneto al Piemonte – l’esperto medievista già autore de La Reconquista (2009) e La Sicilia musulmana (2012) ci conduce lungo le tappe a suo parere più significative, storiche ed artistiche, di quella che potremmo definire “l’Italia arabo-islamica”.

Che altri, producendo volumi davvero pregevoli per quantità e qualità d’informazione, hanno indagato con maggior dovizia di particolari(1).
Ma questo libro, come scrivevamo, è un invito. Un invito a scoprire – o riscoprire – quel passato.

Che convive in noi, anche se spesso non lo vogliamo ammettere o riconoscere, succubi come siamo di una propaganda che vorrebbe tracciare una linea di demarcazione netta tra “noi” e “loro”.
Invece le cose sono fortunatamente un attimo più complesse. E di questa complessità della storia (un elemento sul quale Romolo Gobbi ha invitato a riflettere) Vanoli dà perfettamente conto ricordandoci, per esempio, che mentre “il turco” metteva una gran paura c’era chi, senza tanti sotterfugi, ci faceva lauti guadagni, in nome di quel commercio che, assieme alla cultura, non ha mai sopportato troppe barriere.

I limiti e le differenze tuttavia esistono, essendo probabilmente un dono della Provvidenza (il Corano stesso invita a meditare su questo, proponendo l’immagine di una “misericordia” per gli uomini, affinché nel confronto – e, perché no, nello scontro – si migliorino e si avvicinino alla Perfezione). Altrimenti non potremmo neppure parlare di “Italia araba”, bensì, in assenza di qualsiasi “differenza”, di un tutto indistinto dalle sembianze decisamente inquietanti e disperanti.

Per questo, accogliendo con entusiasmo l’invito dell’autore a mettersi in viaggio alla ricerca di questa “altra storia”, vorremmo ricordare a chi ha in orrore le “identità” che più ve ne sono, in una stessa persona o comunità, e meglio è. Mentre la tragedia è quando non ve n’è più alcuna o, variante sul tema, se ne proclama solo e sempre una, in maniera interessata e sclerotica, per bassi fini che non hanno a che vedere in alcun modo con la tanto sbandierata “cultura” e, tanto meno, con la ricerca della Verità.

E allora mettiamoci in cammino, lungo le vestigia e le storie di questa “Italia araba” che Alessandro Vanoli è stato in grado di “vedere”(2).

NOTE
1) Tra i vari titoli che si possono citare da un’oramai corposa bibliografia: F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli arabi in Italia. Cultura, contatti e tradizioni, Garzanti/Scheiwiller, Milano 1985 (2a ed.); G. Curatola (a cura di), Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia [Venezia, Palazzo Ducale, 30.10.1993/30.4.1994], Silvana Editoriale, Milano 1993; S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, Torino 2003; L. Scarlini, La paura preferita. Islam: fascino e minaccia nella cultura italiana, Bruno Mondadori, Milano 2005; Venezia e l’Islam. 828-1797 [Venezia, Palazzo Ducale, 28.7./25.11.2007], Marsilio, Venezia 2007; A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Laterza, Roma-Bari 2011.
2) Il libro si conclude significativamente con una tappa a Torino, forse la città d’Italia più “araba” dei nostri giorni. A riprova che “l’Italia araba” non è solo questione di testimonianze architettoniche, d’immaginario ispirato all’“Oriente” e di pagine di storia più o meno significative. A testimonianza di un rapporto ed un interesse duraturi che si dipanano tra fasi alterne, luci ed ombre, possiamo annoverare anche la recente rinnovata diffusione dell’editoria specializzata nell’insegnamento della Lingua araba, dopo le prime pionieristiche e per certi versi insuperate grammatiche d’epoca coloniale.

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LA CRISI DEL CAPITALISMO

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Se da un lato l’opinione di molti esperti diverge sulle cause, le conseguenze e le soluzioni da applicare in merito alla crisi economica attuale; dall’altro un fattore li accomuna: il sistema capitalistico è in crisi. Come ha affermato il sociologo, scrittore e docente italiano Luciano Gallino nel suo libro Finanzcapitalismo – La civiltà del denaro in crisi “la crisi economica (ma anche culturale e politica) che stiamo vivendo è la crisi di questa civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario.” Ma come si è arrivati a questa situazione in cui il sistema finanziario, come afferma Gallino, domina la nostra civiltà? E cosa si intende, esattamente, per “finanzcapitalismo”? Prima di tutto cominciamo definendo cosa si intende per “capitalismo”, più precisamente con “economia di tipo capitalistico”. L’economia capitalista è un’economia di mercato, basata cioè sulla produzione e la vendita di grandi quantità di merci. Il principio guida di tale organizzazione è il profitto, ovvero l’accumulazione attraverso le attività di mercato di un surplus finanziario rispetto al capitale originario, impiegato per la produzione e/o la commercializzazione delle merci.

In un periodo nel quale ci si interroga sulla crisi di tale sistema torna sicuramente attuale il pensiero di un filosofo dell’Ottocento che di questo sistema aveva previsto il crollo: Karl Marx. Il filosofo tedesco definisce il capitale come un accaparramento illecito di denaro a danno dei lavoratori: più precisamente il modo di produzione capitalistico, inteso come un enorme produzione e raccolta di merci, è finalizzato non al consumo, bensì al profitto. Infatti a un’economia di consumo tipica della società mercantile, sintetizzata dalla formula M-D-M (dove “M” sta per merce, “D” per denaro), è subentrata un’economia di profitto, data dallo schema D-M-D’ (dove D’ è maggiore di D). In questo secondo tipo di economia, finalizzata all’aumento di denaro, anche il lavoro diventa merce, che viene comprata in cambio di un salario calcolato sul minimo necessario per la sussistenza e, quindi, solo in base a una parte del lavoro impiegato dall’operaio: ciò genera plusvalore e quindi profitto per il capitalista. Tuttavia il capitalista, per poter dirigere la fabbrica e abbattere la concorrenza, è costretto a investire anche in impianti, macchine e materie prime (ovvero il cosiddetto “capitale costante”) pertanto il saggio (o tasso, percentuale) di profitto, che nasce dal rapporto tra plusvalore e la somma tra capitale variabile (salari) e capitale costante, subirà una tendenziale caduta. Con la conseguente concentrazione del capitale in poche mani a causa del fallimento di numerose industrie, la massa dei proletari crescerà sempre di più: secondo Marx “la borghesia crea ciò che la distruggerà: il proletariato”, che sfocerà nel comunismo.

Il primo grande evento che testimoniò l’avvenuta globalizzazione capitalistica delle merci e dei capitali, preannunciata da Marx nella prima metà dell’Ottocento, fu la crisi del ’29: una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni venti. In un contesto storico in cui, in seguito alla prima guerra mondiale, l’Europa cedette il primato economico agli Stati Uniti d’America (creditori di guerra) avvenne proprio nel Nord America il cosiddetto “boom borsistico”, caratterizzato da una fiducia illimitata nella crescita della ricchezza. Ciò generò un clima di euforia sui mercati azionari: oltre alle grandi imprese che, producendo più di quanto i mercati non fossero in grado di assorbire, preferirono investire in Borsa; anche i piccoli azionisti avevano la possibilità di comprare delle quote in Borsa sfruttando i tassi di interesse bassissimi. Una corsa speculativa che, non essendo regolata in alcun modo, crollò in un “giovedì nero” dell’ottobre del ’29: la Federal Reserve, che fino a quel momento aveva promesso alle banche di dilatare i loro debiti, rialzò il tasso di interesse causando una fortissima diminuzione delle quotazioni: chiunque si affrettò a vendere le proprie azioni, ormai prive di valore, innescando una crisi senza precedenti. I prezzi crollarono, le banche fallirono, la produzione si dimezzò, la disoccupazione balzò alle stelle. Due le strade che i governi adottarono in funzione anti-crisi: una politica di tipo deflazionistico (con una moneta forte e il contenimento della spesa pubblica, ma favorendo la disoccupazione) oppure una politica di incremento della spesa pubblica (con la svalutazione della moneta, l’aumento di consumi e occupazione, ma ampliando i deficit di bilancio).

Fautore di quest’ultima corrente di pensiero fu l’economista inglese John Maynard Keynes che, nell’opera intitolata Teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta, promosse un ruolo attivo dello stato in campo economico. Denominatore comune delle sue ricette anti-crisi, l’occupazione: “il capitalismo non crea l’occupazione, ma viceversa”. Ad applicare le teorie keynesiane per uscire dalla crisi fu l’allora presidente degli Stati Uniti d’America F.D. Roosevelt con il “New Deal”: il sistema creditizio venne sottoposto a rigidi controlli, venne promossa la costruzione di grandi opere pubbliche e allestito un sistema di previdenza sociale. Queste misure comportarono un ingente aumento della spesa pubblica, ma favorirono la ripresa dell’economia americana in un quadro di conservata democrazia. I fantasmi della grande crisi del 1929, che Roosevelt era riuscito a scacciare, tornarono però ad aleggiare nel 2007 con il crollo dei beni immobili: un vero e proprio annus horribilis che ha segnato l’entrata nella crisi del cosiddetto “finanzcapitalismo”. Ma cosa si intende esattamente per “finanzcapitalismo”? A differenza della prima grande crisi economica e finanziaria, quella del 1929, che aveva un carattere industriale; quella scoppiata nel 2007 ha, invece, un carattere finanziario. A partire dagli anni ’80 infatti la componente finanziaria ha preso un sopravvento sempre più marcato sulla componente produttiva delle merci dando vita a un sistema con lo scopo di massimizzare il valore estraibile dal maggior numero possibile di esseri umani e dalla natura: mentre il capitalismo industriale produceva accumulazione, come affermato da Marx, secondo il sistema D-M-D’ con l’industria manifatturiera come motore, quello finanziario produce accumulazione impiegando denaro per produrre una maggior quantità di denaro, senza passare per le merci e ha come motore il sistema finanziario stesso (D-D’). E alla sua base c’è il massiccio impiego in un’attività speculativa, basata sul debito privato e pubblico (basti pensare che nel 1980 gli attivi finanziari erano equivalenti al PIL mondiale, mentre nel 2007 lo superavano di oltre quattro volte).

Un’attività speculativa dovuta al fatto che la politica, invece di regolare l’economia, ha adattato la società all’economia: la deregulation di Ronald Reagan negli USA e il “thatcherismo” in Inghilterra degli anni ’80 hanno contribuito, adottando politiche economiche ultraliberiste, a favorire l’attività speculativa di banche e privati non più regolati dallo stato (“il governo non è la soluzione al problema, il governo è il problema” affermava Ronald Reagan).
Questa evoluzione del capitalismo da industriale a finanziario ha fatto sì che gli interessi finanziari diventassero una parte molto più forte del tutto con il settore industriale, e quindi il lavoro, che si ritrova con le spalle al muro. Le ragioni del declino dell’economia capitalista, dunque, si collocano nell’utilizzo sempre più consistente (fatto inevitabile a partire dalla logica concorrenziale che caratterizza questo tipo di sistema economico) della tecnologia come strumento di produzione delle merci, con la conseguente decrescita dell’impiego della manodopera salariata.

In questo contesto il benessere sociale decresce: o meglio, il declino tendenziale dei profitti capitalistici può essere considerato una conseguenza diretta delle minori risorse economiche dei lavoratori. E l’attuale rivoluzione tecnologica non aiuta: se per lungo tempo la maggior parte degli economisti, sulla base di quanto osservato dopo la prima rivoluzione industriale, ha dato per certa la relazione positiva tra innovazione tecnologica e innalzamento occupazionale e salariale, oggigiorno comincia a delinearsi un secondo filone di pensiero secondo cui, invece, nell’attuale era dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informatica il potenziale dell’automazione potrebbe portare a uno scenario meno positivo rispetto a quello osservato nello scorso secolo. Lo ha affermato anche l’ex premier Romano Prodi in un’intervista rilasciata su “La Repubblica”: «a differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro. Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto». L’automazione dei processi produttivi minaccia l’occupazione nelle fabbriche e negli uffici e, come ha scritto il giornalista britannico John Lanchester nel “London Review of Books”, “potrebbe far nascere un mondo in cui la ricchezza si concentrerà nelle mani di chi controlla le macchine, mentre la vita di tutti gli altri diventerà più precaria”, arrivando alla conclusione che “è il capitale che ha tratto il maggior profitto dalla produttività, non la forza lavoro”.

Per uscire da questa situazione bisognerà cercare delle alternative: la soluzione è quella di uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? La questione rimane aperta perché, come diceva il noto economista britannico John Maynard Keynes, “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.

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STEFANO VERNOLE ALL’IRIB:”USA NON VOGLIONO SCONFIGGERE L’ISIS PER MANTENERE UNA SITUAZIONE DI STALLO IN MEDIO ORIENTE”

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L’intervista a Stefano Vernole, vicedirettore di Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici rilasciata all’IRIB su ISIS e strategia statunitense in medio oriente.

IRIB-“Gli Stati Uniti per bombare la Libia di Gheddafi hanno finanziato una enorme cifra. Tutto mentre per loro ci sono gli interessi molto meno per eliminare l’Isis, altrimenti il problema sarebbe stato risolto tanto tempo fa.
L’Isis è stato finanziato dai principali alleati degli Usa come Qatar, Arabia Saudita anche Turchia e Giordania che sono I paesi perno di Washington in area per incentivare il progetto della guerra civile tra iI mondo sunnita e il mondo sciita in Medioriente.
L’Isis ha fatto un grande favore alla strategia di Washington con l’aggressione alla Siria del presidente Assad. Anche gli Usa non vogliono una vittoria totale dell’Isis in Iraq ma sicuramente mantenere una situazione di stallo ed la destabilizzazione permanente di quell’area…”, quelle le parole di Stefano Vernole, vice-direttore della rivista geopolitica Eurasia all’IRIB, sull’egemonia americana sull’Europa”.

http://italian.irib.ir/analisi/interviste/item/188197-stefano-vernole-all-irib-usa-non-vogliano-sconfiggere-l-isis-per-mantenere-una-situazione-di-stallo-in-medi-oriente-audio

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INTEGRAZIONE MONETARIA E INTERESSI NAZIONALI

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Alcuni elementi riguardanti l’architettura della moneta unica europea, l’euro, risultano oggi oggetto di particolare discussione.
Perché la BCE non può fare da prestatore di ultima istanza? perché i parametri finanziari retti dal Trattato di Maastricht (1992) sono così rigidi? perché le istituzioni europee tendono a perseguire con tanta insistenza politiche di riduzione della spesa pubblica e di contenimento dell’inflazione?
Questi ed altri punti controversi possono essere spiegati osservando i processi che condussero all’adozione del Sistema Monetario Europeo (1978), a tutti gli effetti il progenitore di Maastricht e dell’euro.
Innanzitutto va spiegato il contesto all’interno del quale nacque un simile progetto di integrazione: dal 1944 (Conferenza di Bretton Woods) al 1971 il sistema monetario internazionale si fondò su due assunti fondamentali: il primo, la convertibilità del dollaro in oro (1) a un valore fisso di 35 dollari l’oncia; il secondo, la rigidità dei tassi di cambio tra le valute aderenti al sistema (2).
Con questo si era cercato di impedire quanto più possibile la gestione unilaterale dei tassi di cambio da parte dei singoli Stati, dinamica questa che -attraverso le politiche protezionistiche che ne erano derivate- aveva condotto direttamente alla Seconda Guerra Mondiale.
Questa situazione convenne a tutti i contraenti (e specialmente agli Stati Uniti, che traevano enorme profitto dal fatto che la loro moneta fosse utilizzata come riserva e mezzo di scambio nelle transazioni internazionali (3)) sino a che l’economia di riferimento del Sistema poté godere di ferrea salute. Ma le cose cambiarono a partire dagli anni sessanta, quando l’egemonia commerciale degli Usa cominciò a venire messa in discussione dalle economie rapidamente emergenti di Germania, Francia e Giappone.
Ora, senza soffermarsi sulle varie dinamiche che caratterizzarono tale mutata situazione, basti sapere che il Presidente Nixon, il giorno di Ferragosto del 1971, annunciò pubblicamente la decisione unilaterale del suo esecutivo di sospendere la convertibilità aurea del dollaro. Venuto meno il legame del biglietto verde con l’oro, gli Stati Uniti poterono passare senza timori ad una politica monetaria espansiva, svalutando il dollaro e cercando così di rilanciare le proprie esportazioni; questo tuttavia trasmise massiccia inflazione sui principali partner commerciali di Washington (i Paesi europei e quelli produttori di petrolio), generando enormi squilibri nelle loro economie e creando un contesto internazionale di completo caos.
Fu per trovare una soluzione a tali problemi che sorse, allora, la volontà di riprendere in mano un progetto di integrazione europea che nei decenni precedenti aveva conosciuto nette battute d’arresto; se i Paesi della Comunità (per i quali gli scambi commerciali intracomunitari rappresentavano la massima parte di quelli totali (4)) avessero creato un sistema monetario comune si sarebbero resi indipendenti dalle influenze esterne e sarebbero stati capaci di costruire un blocco di straordinaria rilevanza nell’universo capitalista, economicamente superiore persino a quello statunitense (per quanto non, almeno nel breve-medio periodo, sotto i profili politico e militare).
Ma se queste furono le spinte maggiori che condussero alla creazione del Serpente monetario, prima, e dello SME, poi, ve ne furono molte altre e molto forti che rendono l’analisi di tali processi più complessa e sottile.
Fu, infatti, anche una storia di interessi nazionali: quelli della Germania, innanzitutto, che vedendo le proprie esportazioni calare sensibilmente, a causa di un marco che seguitava a rivalutarsi in risposta alla svalutazione del dollaro, pensò di creare una banda di oscillazione entro cui vincolare le altre monete comunitarie, in maniera tale da impedire ai Paesi europei (in particolare l’Italia, le cui esportazioni industriali erano trainate dalla lira debole) di effettuare svalutazioni competitive. Allo stesso tempo tuttavia, la Bundesbank -la Banca Centrale tedesca- era fortemente contraria ad un simile progetto, temendo che il marco potesse subire svalutazioni affiancandosi a valute deboli come quella italiana; da ciò nacque una complicata trattativa tra il cancelliere Schmidt e il governatore Emminger, e scaturì quel particolare compromesso tra valutazioni politiche e calcoli finanziari che avrebbe in seguito condotto a fattori quali la rigidità dei parametri di Maastricht e la scarsa autonomia goduta dalla BCE (5).
Poi gli interessi della Francia, la quale aveva compreso quanto rischioso fosse, nel medio-lungo termine, seguitare ad effettuare svalutazioni competitive per permettere all’economia nazionale di respirare in quel momento di crisi economica. Parigi era disposta a far dei sacrifici e a cedere a Berlino la posizione di potenza principe nel continente, ma voleva ottenere dei vantaggi da tale alleanza (vantaggi che un rapporto privilegiato con la Germania poteva garantirle) e, soprattutto, desiderava assicurarsi che tali sacrifici fossero sopportati da tutti i membri della Comunità (anche qui la preoccupazione maggiore era rappresentata dall’Italia e la sua industria), in maniera tale da limitare le perdite.
E ancora la Gran Bretagna, il cui legame con Washington era più saldo che mai e che dunque desiderava soprattutto partecipare ai negoziati per poterli manovrare in opposizione al progetto franco-tedesco (che andava, si capirà, apertamente contro agli interessi commerciali statunitensi e, nel lungo termine, a minacciare la stessa egemonia economica e politica internazionale degli USA); inoltre anche Londra sperava di poter ottenere dei vantaggi pratici dalle trattative, nel senso di raggiungere un accordo che concedesse degli spostamenti di ricchezza dai Paesi più forti (Germania in primis, che stava accumulando enormi quantità di riserve in dollari ed altre attività) verso quelli più deboli.
Infine l’Italia, la quale, per una serie di valutazioni interne al partito allora egemone, la DC, andò invece contro i propri immediati interessi, accettando un compromesso con i tedeschi e acconsentendo ad entrare nel Sistema in cambio di condizioni agevolate rispetto agli altri membri (venne ad esempio concessa una banda di oscillazione più ampia per la lira: ±6,25% rispetto al marco, invece del ±2,25%) (6). Va detto che tale decisione fu fortemente osteggiata da importanti economisti italiani, tra cui l’onorevole Spaventa, il quale pronunciò una netta ed autorevole critica all’ingresso dell’Italia nello SME durante il dibattito parlamentare che precedette il voto sull’adesione al Sistema. E va detto anche che, anche da parte dorotea, non si guardò mai all’adesione come a una fonte di potenziali vantaggi per il Paese, ma piuttosto come a un passaggio politico obbligato se si voleva mantenere Roma vicino alle principali potenze europee (7).
Ciò che rende particolarmente interessante ognuna di queste dinamiche è, senza dubbio, il loro ripetersi con minime differenze negli anni successivi, da Maastricht all’entrata in vigore della moneta unica europea: l’euro, sino ad oggi.

NOTE
1)Si noti bene: soltanto il dollaro era convertibile in oro. Inoltre la convertibilità era limitata ai non residenti ufficiali negli Stati Uniti: ai cittadini statunitensi era precluso il possesso di oro già negli anni trenta e, a partire dagli anni cinquanta, venne impedito anche all’estero. Cfr. Riccardo Parboni, Il conflitto economico mondiale, capitolo 1.9, p. 33.
2)Dunque tutte le valute dovevano mantenere un valore fisso rispetto al dollaro; erano consentite solo lievissime oscillazioni in caso di squilibri fondamentali.
3)Questa condizione prende il nome di signoraggio.
4)Cfr. Riccardo Parboni, Op. cit.
5)EMS: Bundesbank Council meeting with Chancellor Schmidt (assurances on operation of EMS), 30 novembre 1978,[declassified 2008], Margareth Tatcher Foundation Archive.
6)EMS: UKE Rome to FCO (frank accounto on Schmidt-Andreotti talks in Rome on EMS), 2 novembre 1978, [declassified 2008], Margareth Tatcher Foundation Archive.
7)“Il 31 dicembre mi telefonò Giscard. Ero all’aeroporto di Pisa. Mi disse: ‘Ci sono problemi, abbiamo bisogno di un altro po’ di tempo’. Ma ormai era fatta. Se c’è una morale in questa storia è che il varo dello SME, come 13 anni dopo il Trattato di Maastricht, e poi l’introduzione dell’euro, stanno a dimostrare l’importanza del primato della politica”. Ossia del primato delle scelte politiche su quelle economiche (fra gli altri, il governatore della Banca d’Italia Baffi si era detto da subito contrario ad un Sistema monetario europeo organizzato sulla falsariga del già fallito Serpente monetario del 1972). La frase di Andreotti è tratta da: Andreotti: l’adesione allo SME, il sì di Berlinguer e quella notte cruciale con Ciampi, di Felice Saulino, Corriere della Sera, 31 dicembre 2001..

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LA TURCHIA AL VOTO NEL MUTEVOLE CONTESTO INTERNAZIONALE: SFIDE E OPPORTUNITÀ DI UNA “GRANDE POTENZA REGIONALE”

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Le imminenti elezioni politiche possono segnare un punto di svolta nel processo di ridefinizione della politica estera di Ankara. Dalle questioni interne al Vicino Oriente, dall’Asia centrale al rapporto con Russia e Cina, come mutano gli scenari per la Turchia e quali prospettive si aprono per il Paese nel prossimo futuro.

Le elezioni politiche che si terranno in Turchia il prossimo 7 giugno si inseriranno in un contesto regionale e internazionale caratterizzato da profondi cambiamenti. Mentre la quarta affermazione consecutiva dell’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, “Partito della Giustizia e dello Sviluppo”) non è in dubbio, stante anche l’ormai perenne crisi di leadership e programmi del CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, “Partito Repubblicano del Popolo”), resta da vedere se esso riuscirà a formare una maggioranza parlamentare senza ricorrere ad una coalizione di governo, la quale verrebbe verosimilmente formata con il partito ultra-nazionalista MHP (Milliyetçi Hareket Partisi, “Partito del Movimento Nazionalista”). Guardando ai sondaggi delle ultime settimane [1], la sostanziale tenuta dell’AKP sembra infatti accompagnarsi alla crescita dell’HDP (Halkların Demokratik Partisi, “Partito Democratico Popolare”), formazione filo-curda di sinistra che potrebbe superare la fatidica soglia del 10% delle preferenze ed entrare così in Parlamento, sottraendo seggi all’attuale maggioranza. Per l’AKP appare perciò più difficile, allo stato attuale, il raggiungimento della maggioranza dei 3/5 dei seggi che consentirebbe all’esecutivo attualmente guidato da Ahmet Davutoğlu di modificare la Costituzione in senso presidenziale, come da tempo auspicato dal Presidente e già Primo ministro Recep Tayyip Erdoğan.
In generale, l’imperativo della prossima legislatura consisterà, per Ankara, nel riuscire a proporsi nuovamente e con efficacia come promotrice dello sviluppo e della stabilità a livello regionale, abbandonando la politica estera spesso ondivaga, e sostanzialmente infruttuosa, implementata dopo il radicale riassetto di potere verificatosi in gran parte del mondo arabo a partire dal 2010/11.

Guardando alla politica interna, due sono i più pressanti temi che potrebbero condizionare, nel prossimo futuro, alcune mosse di Ankara anche sul piano internazionale: il primo è rappresentato dalla questione curda, il secondo è relativo all’attuale situazione economica del Paese.
Per quel che riguarda il primo aspetto, il processo di pace avviato nel 2012 tra il governo turco e il PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, “Partito dei lavoratori del Kurdistan”) ha prodotto, allo stato attuale, il “cessate il fuoco” proclamato in occasione del Nawrūz nel marzo 2013 dal leader curdo Abdullah Öcalan, detenuto dal 1999. Sebbene caratterizzata da numerose difficoltà e battute d’arresto, una tale iniziativa non ha precedenti nella storia della Turchia repubblicana, apparendo come l’unica soluzione atta a pacificare il Sud-est e a garantire lo sviluppo della regione economicamente più arretrata del Paese, rendendone contestualmente più sicuro l’esteso confine meridionale. Ciò nonostante, la possibile coalizione tra AKP ed MHP potrebbe minare pesantemente i progressi compiuti sino ad ora dal governo, aprendo una nuova fase di ostilità e sfiducia. Le elezioni ci diranno se i cittadini turchi di origine curda preferiranno premiare l’attuale compagine governativa, nella speranza di ottenere una maggiore autonomia sul piano della governance locale o, al contrario, dare fiducia all’HDP con l’obiettivo di superare l’elevata soglia di sbarramento e renderlo la quarta forza politica all’interno della Grande Assemblea Nazionale.
Quanto alla seconda questione, il sistema economico turco, da tempo in affanno, necessita di recuperare lo slancio che ha consentito in pochi anni di triplicare il PIL (da 230 a 820 miliardi di dollari tra il 2002 e il 2013 [2]), determinando la stabile presenza della Turchia tra le prime venti economie mondiali. Perché il Paese sperimenti una nuova fase di crescita è essenziale, in primo luogo, che esso ritrovi la forza di proporsi come attore promotore della pace, della stabilità e della cooperazione nella regione, dove il suo peso geopolitico è decisivo. Come è semplice arguire, infatti, periferie stabili e rapporti positivi con i propri vicini rappresentano precondizioni essenziali per lo sviluppo economico, tanto più nel caso di un Paese posto geograficamente e culturalmente al crocevia di aree vitali, dal punto di vista geopolitico, come Mediterraneo, Vicino Oriente, Nord Africa, Caucaso, Asia centrale e Balcani. In secondo luogo, è necessario che il governo prenda misure atte ad attenuare uno dei più evidenti squilibri macroeconomici del Paese, cioè il massiccio deficit commerciale [3], con l’elevata spesa energetica a rappresentare una delle voci più rilevanti a livello di importazioni. E’ auspicabile, infine, che Ankara cerchi di aumentare, nei prossimi anni, la quota di spesa in ricerca e sviluppo sul totale del PIL, e di rendere il sistema industriale turco – già molto sviluppato nei settori tessile, metallurgico, elettronico e dei macchinari – più competitivo anche nell’ambito della produzione ed esportazione di beni ad alta tecnologia, sulla scia di quanto fatto da altri Paesi emergenti.

Per quanto riguarda le questioni mediorientali, non c’è alcun dubbio sul fatto che la cosiddetta strategia “neo-ottomana” della Turchia sia entrata in crisi manifesta proprio nell’area di suo interesse prioritario, quella del Vicino Oriente. I tumulti politici che hanno interessato il mondo arabo dalla fine del 2010 hanno infatti sconvolto l’efficace sistema di alleanze costruito nel corso degli anni precedenti da Erdoğan e Davutoğlu, fondato tanto sull’interdipendenza economica tra i Paesi coinvolti, quanto sulla valorizzazione dell’influenza culturale della Turchia sui territori un tempo parte dell’Impero ottomano.
La fallimentare politica estera di Ankara riguardo alla crisi siriana è esemplificativa delle difficoltà incontrate dalla leadership turca nel decifrare le dinamiche regionali. L’ostinazione nel perseguire l’obiettivo della rimozione dell’ex alleato Baššar al-Assad, non più alle prese con una ribellione popolare ma con una vera e propria guerra per procura, ha contribuito all’ulteriore destabilizzazione della regione, rendendo vani gli sforzi fatti tra il 2004 e il 2010 nello storico riavvicinamento alla Siria e incrinando al contempo il proficuo rapporto instaurato con l’Iran, che nel maggio 2010, con la partecipazione del Brasile, produsse anche un importante accordo sul nucleare. E’ evidente che le politiche settarie e poco flessibili adottate a più riprese dal governo turco non abbiano prodotto risultati positivi, precipitando invece nel caos un’area sulla quale l’influenza di Ankara è adesso molto meno tangibile rispetto a quattro anni fa (a tutto vantaggio del competitor regionale iraniano). L’estensione della minaccia jihadista rappresentata dallo Stato Islamico e il continuo aumento del numero di rifugiati siriani che raggiungono i confini turchi (oltre 1 milione e settecentomila profughi attualmente nel Paese [4]) ben rappresentano il rovinoso esito di una politica estera volta alla creazione di un fronte sunnita del quale la Turchia intendeva porsi a capo in virtù delle proprie ambizioni geopolitiche e capacità di intervento sul campo.
Non è un caso che – almeno a decifrare le ultime mosse diplomatiche di Erdoğan – Ankara stia cautamente cercando di ricalibrare la propria politica estera mediorientale, smussando alcune posizioni fortemente critiche riguardo ai presunti progetti di egemonia regionale di Teheran e tentando inoltre, secondo alcune indiscrezioni, un primo riavvicinamento all’Egitto del Presidente Abd al-Fattāḥ al-Sīsī [5], del cui potere la Turchia non ha finora riconosciuto la legittimità. Proprio riguardo all’Iran, Paese che ospita peraltro una notevole minoranza turcofona, è opportuno ricordare quanto la restaurazione di buone relazioni interstatali avvantaggerebbe Ankara sia dal punto di vista economico-commerciale (specialmente con il possibile alleggerimento delle sanzioni [6]), sia da quello strategico, costituendo l’altopiano iraniano una vera e propria via d’accesso all’Asia centrale, area nella quale gli interessi turchi sono molteplici e rilevanti. I rapporti turco-iraniani rimangono tuttavia condizionati dalla diversità di vedute dei due Paesi in un certo numero di questioni regionali di primaria importanza, come quella irachena, quella yemenita e, soprattutto, quella siriana.

Altro aspetto passibile di sviluppi rilevanti, nel prossimo futuro, è quello della politica estera asiatica di Ankara. Durante il primo governo a guida AKP (2002-2007) l’inedito attivismo della Turchia nell’ex spazio ottomano nel Vicino Oriente pose in secondo piano le relazioni con gli Stati turcofoni dell’Asia centrale. In realtà, se si eccettua il periodo che seguì alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando (per breve tempo) parte dell’establishment politico credette di poter estendere l’influenza di Ankara agli antichi luoghi d’elezione della turcofonia, il rapporto tra la Turchia e le repubbliche post-sovietiche centroasiatiche non ha mai costituito una priorità strategica. Tuttavia, i cospicui legami etnici, linguistici e culturali con l’Asia centrale costituiscono un asset cui Ankara non sembra disposta a rinunciare, anche in virtù dell’importanza rivestita da alcuni Paesi della regione dal punto di vista delle forniture energetiche. In particolare, rapporti privilegiati si confermano quelli con il Kazakhstan di Nursultan Nazarbayev, con il quale sono stati recentemente firmati accordi commerciali nell’ambito del Consiglio di Cooperazione Strategica turco-kazako. I due Paesi, entrambi alle prese con il rallentamento dei rispettivi tassi di crescita, hanno intenzione di portare l’interscambio commerciale a 10 miliardi di dollari e di creare zone industriali congiunte, ponendo le basi per divenire le reciproche porte di ingresso per l’Asia e per l’Europa [7].
Più in generale, sembra che il totale stallo dei negoziati tra Turchia e Unione Europea stia incoraggiando Ankara a perseguire in Asia una politica estera più attiva e propositiva rispetto al passato. Dall’aprile 2013 Ankara è partner di dialogo dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Shanghai Cooperation Organisation), la più importante piattaforma di cooperazione politica, economica, commerciale, scientifica e tecnologica dell’Asia. Fondata nel 2001 da Cina, Russia, Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, alla SCO partecipano inoltre cinque membri osservatori (India, Pakistan, Iran, Mongolia e Afghanistan) e tre dialogue partner (Bielorussia, Sri Lanka e, appunto, Turchia). Con il graduale spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale verso Est, Ankara appare quindi voler privilegiare e approfondire le relazioni con Mosca e Pechino piuttosto che quelle con Bruxelles. La questione non è del resto pacifica, dal momento che l’appartenenza della Turchia alla NATO potrebbe costituire un ostacolo insormontabile ad una sua futura, completa integrazione nell’Organizzazione di Shanghai: data la natura dei due trattati, infatti, la partecipazione all’uno escluderebbe l’ingresso nell’altro [8].
Non è inoltre da sottovalutare l’impatto futuro del cosiddetto “Turk Stream”, il gasdotto che dovrebbe rimpiazzare il “South Stream”, naufragato a causa delle pressioni dell’Unione Europea sulla Bulgaria, punto d’approdo previsto del gas russo in Europa. Mosca e Ankara, i cui rapporti bilaterali rimangono di altissimo livello a dispetto delle vedute opposte sulla questione siriana, prevedono perciò la costruzione di un gasdotto che, transitando attraverso il Mar Nero, porti il gas – a prezzo di favore – direttamente sulla costa turca settentrionale, per poi proseguire verso l’Europa via Grecia. Il carattere davvero innovativo dell’accordo starebbe comunque nella possibilità data alla Turchia di ri-esportare in Europa il gas, inaugurando quello che è stato definito un vero e proprio “mutamento di paradigma” rispetto al passato [9].

In conclusione è lecito affermare che, tanto a livello interno che internazionale, la prossima legislatura rappresenterà un periodo cruciale per la Turchia. Molto dipenderà, ovviamente, dall’esito delle prossime elezioni, che definiranno i nuovi rapporti di forza in un Parlamento comunque destinato ad una nuova maggioranza AKP.
Sul piano interno, decisiva sarà la capacità delle autorità politiche di Ankara di intervenire con efficacia sull’economia e di gestire la complessa questione curda, suscettibile, come detto, di avere rilevanti riflessi esterni. Sul piano internazionale, il problema più pressante deriva al momento attuale dalla situazione di instabilità generalizzata caratterizzante una vastissima area estesa dal Maghreb al Mashrek, e nella quale Turchia, Iran e Israele rappresentano di fatto le uniche entità statuali dotate di stabilità istituzionale e capaci di un effettivo controllo del territorio. In tale contesto, la priorità della Turchia deve essere quella di recuperare la funzione di polo di stabilità continentale che essa aveva ricoperto con successo sino al 2011. Solo così facendo essa potrà ambire a riguadagnare influenza su scala regionale e globale.

Andrea Puzone, dottore in Relazioni Internazionali

NOTE:
1) http://www.jamesinturkey.com/elections/turkeys-general-election-2015/rolling-average/
2) Paolo Magri, Introduction, The Uncertain Path of the “New Turkey”, ISPI, 2015
3) Mustafa Kutlay, Turkish Political Economy in the Post-2011: A Turbulent Period, in The Uncertain Path of the “New Turkey”, ISPI, 2015
4) http://data.unhcr.org/syrianrefugees/country.php?id=224
5) http://www.limesonline.com/nello-scontro-tra-iran-e-arabia-saudita-la-turchia-rimane-ambigua/76730
6) http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2015/04/turkey-iran-how-will-benefit-from-lifting.html
7) http://www.dailysabah.com/economy/2015/04/16/turkey-and-kazakhstan-to-cooperate-in-boosting-trade-throughout-eurasia
8) http://english.pravda.ru/world/asia/04-02-2013/123669-turkey_shanghai_cooperation_organization-0/
9) http://www.naturalgaseurope.com/turk-stream-paradigm-between-russia-and-turkey

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IL CONTROLLO DELL’ARTICO

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L’effetto del riscaldamento globale ha nella regione polare la sua maggiore evidenza. La riduzione della superficie ghiacciata potrebbe rendere navigabile il Passaggio a Nord Ovest e la rotta verso il Nord Est. Questo ha ingenerato un contenzioso sulla territorialità dell’Artico fra Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. L’annessione dello spazio artico garantirebbe ai contendenti un aumento dell’estensione dei confini statuali e lo sfruttamento delle risorse naturali, e questi sono i passaggi fondamentali per aumentare la propria influenza a livello globale.
La giurisprudenza delimita la regione artica in quella che circonda il Polo Nord ivi compreso l’Oceano Artico, le estreme propaggini della Groenlandia e dei territori continentali euroasiatici ed americani. Convenzionalmente il limite dello spazio artico viene indicato nell’area dell’isoterma dei 10° rilevato nel mese di luglio. La regione gode del regime di internazionalità decretato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, ma il trattato non è stato ratificato dagli Stati Uniti, che sostengono ferventemente la libertà di navigazione. La mancata adesione degli USA, di fatto sancisce l’assenza di regolamentazioni internazionali in materia forense. Nel 1966 venne inaugurato il Consiglio Artico, i cui membri sono gli attuali contendenti, allo scopo di promuovere una politica ambientale artica, ma l’unico riferimento normativo rimane la Convenzione dell’ONU, senza il placet statunitense, che disegna una zona economica esclusiva, ZEE, di 200 miglia dalla costa dello Stato rivierasco, su cui quest’ultimo può estendere la propria sovranità e sfruttare le risorse naturali. È possibile una ulteriore estensione pari a 150 miglia, laddove lo Stato interessato dimostri alle Nazioni Unite che il margine continentale della sua piattaforma si prolunga oltre le 200 miglia. Tutti gli Stati artici hanno inoltrato, o sono in procinto di farlo, la richiesta di estensione dei propri confini.
L’American Geological Survey stima che sul fondale artico sia presente una quantità pari al 25% delle attuali riserve mondiali di petrolio e gas naturale. In termini numerici questo si traduce in 90 miliardi di barili di petrolio, ed il 30% della produzione mondiale di gas, pari a circa 1.700 miliardi di piedi cubi. Le maggiori concentrazioni delle riserve naturali sono nel Mare di Kara e di Barents. L’Artico è ricco di nichel, rame e platino, ma anche di risorse ittiche che si attestano al 15% del valore mondiale. Sono queste le cause scatenanti al controllo della regione polare con un acutizzarsi delle relazioni internazionali. La componente del commercio ittico è la concausa del confronto geopolitico fra gli attori principali, ma anche la possibilità di poter usufruire di una nuova rotta che congiungerebbe l’Atlantico al Pacifico, con un notevole vantaggio temporale rispetto all’attraversamento del Canale di Panama. In base alle osservazioni della NASA, oltre al Passaggio a Nord Ovest, in un futuro prossimo, lo scioglimento dei ghiacci favorirebbe un’altra rotta verso Nord Est e questo significherebbe la congiunzione del Mare di Laptev, a nord della Siberia, con l’Oceano Pacifico, ossia un collegamento rapido verso i porti asiatici di Cina e Giappone; in pratica la distanza fra Yokohama ed Amburgo sarebbe ridotta di circa 5.000 miglia nautiche e garantirebbe la certezza di non essere attaccati dai pirati, una delle principali minacce globali al trasporto marittimo. Le prospettive di percorribilità di queste rotte potrebbero essere però inficiate dalle condizioni climatiche: infatti è possibile che anche durante l’estate possano non essere libere dai ghiacci. Per ovviare a tale criticità si renderebbe necessario il rinforzo dello scafo delle navi. L’ipotesi implica una maggiore spesa per gli armatori, non solo a livello tecnico ma anche assicurativo; non è da escludere che le tariffe contro le coperture dei rischi possano lievitare sensibilmente in considerazione della perigliosità delle rotte dell’estremo Nord.
Lo scenario geopolitico che si sta delineando nello spazio artico non è di semplice ed immediata intuizione. La Russia sembra essere in vantaggio sugli altri competitori in quanto dispone di due componenti fondamentali: la migliore flotta rompighiaccio e la presenza numericamente più importante di abitanti nell’area contesa. Di fatto questo le garantirebbe una più semplice percorribilità delle rotte artiche ed una manodopera già abituata al clima severo. La Russia sta tentando di recuperare lo status di superpotenza basandosi anche sulle immense risorse energetiche di cui dispone, ma queste sono in esaurimento e dunque la necessità di garantirsi un monopolio energetico ha spinto la sua leadership verso il Polo Nord, tracciando una politica artica per tutto il 2020. Infatti l’Artico sostiene gli interessi vitali della Russia con il 60% della produzione di petrolio, il 95% dei metalli del gruppo del platino ed il 95% del gas naturale. Cifre che rappresentano il 15% del PIL russo. Gli Stati Uniti sostengono il diritto alla libertà di navigazione e questo atteggiamento ha provocato una frizione con il Canada, che considera il Passaggio a Nord Ovest come parte integrante delle sue acque interne. Unitamente alla Russia, l’obiettivo è quello di implementare le risorse naturali nazionali, infatti la BP World Energy Survey ha stimato in dieci anni l’esaurimento delle riserve petrolifere statunitensi. Questo problema fa dell’accesso ai giacimenti artici, una questione primaria per l’Amministrazione USA, ma la mancata ratifica della risoluzione dell’ONU sul diritto del mare, potrebbe essere motivo di svantaggio sui competitori. Infatti, causa l’assenza di un rappresentante in sede di commissione delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti non possono confutare le posizioni dei Paesi Membri. Come atto dimostrativo, l’Amministrazione Obama ha dato il via libera alla ripresa delle perforazioni della Shell nell’Artico alla ricerca di idrocarburi al largo delle coste dell’Alaska. Per effettuare le prospezioni il colosso dell’energia sta spostando verso nord le enormi strutture per le perforazioni offshore. Il Canada rivendica il diritto di sovranità sul Polo Nord, ma i mezzi a disposizione del paese nord-americano non sono paragonabili a quelli dei due attori principali, pertanto il Governo canadese, per affermare la propria presenza nell’area, ha scelto sia la strada delle esplorazioni scientifiche quanto quella giuridica, dove ha avanzato una soluzione all’ONU per dimostrare che la dorsale di Lomonosov, facente parte del proprio zoccolo continentale, collega il territorio del Canada al Polo Nord, e dunque le dà diritto di sovranità sull’Artico. Le pretese della Danimarca traggono origine dalla Groenlandia, la cui popolazione ha però espresso il volere di indipendenza dalla governance danese. Tale soluzione garantirebbe alla Danimarca una notevole riduzione delle spese statali, sia in materia economica che di difesa, ma fletterebbe notevolmente il diritto di rivendicazione sui territori artici ed inoltre registrerebbe una diminuzione degli introiti del settore ittico e sulle riserve di acqua dolce, di cui la Groenlandia è ricchissima. Come il Canada anche la Danimarca ha implementato le spedizioni esplorative sostenendo un esborso finanziario a favore della Geological Survey of Danmark and Greenland, sempre nel tentativo di inserirsi nel contesto dei grandi esportatori di energia. La Norvegia ha nelle isole Svalbard l’unico possedimento artico, ma rimane un player agguerrito in quanto la produzione di greggio vale il 25% del PIL ed il 50% delle esportazioni. Infatti, è in piena produzione il giacimento artico norvegese, mentre la centrale di Snohvit estrae il gas naturale per l’esportazione sul mercato europeo ed americano. Un impatto rilevante sull’economia della Norvegia è segnato dal settore ittico, che lo promuove ad uno dei grandi produttori a livello globale. L’Italia non può essere inserita tra i candidati principali al controllo dello spazio artico, ma mantiene lo status di osservatore, essendo stata accolta come singolo Paese e non con il ruolo di membro della UE. L’Unione Europea ha, infatti, nel Canada, Stati Uniti e Russia degli attivi oppositori, dove l’oggetto del contendere riguarda il veto europeo sulla commercializzazione delle pelli di foca. L’Italia trova però una sua collocazione come paese dedicato alle ricerche scientifiche e per le eccellenze tecniche rappresentate dall’ENI e Finmeccanica, aziende che collaborano soprattutto con la Russia: L’ENI ha una partnership con la russa Rosneft sulle prospezioni artiche, e la Finmeccanica è appaltatrice per la produzione delle navi rompighiaccio.
L’egemonia su un territorio viene esercitata anche con la deterrenza delle armi. Il Canada ha istituito una formazione militare specializzata nel combattimento in ambienti estremi e sono stati dislocati a Resolute Bay, a 600 chilometri dal Polo Nord. A nord-est dell’isola di Ellesmere, il Canada ha installato una centrale di ascolto per monitorare le trasmissioni russe inerenti ai movimenti aerei, marittimi e terrestri. Una postazione analoga è basata a Leitrim, nelle vicinanze di Ottawa, ma quest’ultima è specializzata nell’intercettazione delle comunicazioni satellitari. La Danimarca mantiene costantemente unità di superficie nell’Artico, con compiti di controllo e negazione delle acque territoriali. Inoltre sta sviluppando la componente navale con l’acquisizione di fregate, corvette e pattugliatori. L’apparato di superficie è protetto dall’aviazione, i cui piloti sono ben addestrati ad operazioni marittime. La Norvegia ha ammodernato la sua flotta con unità Aegis, a cui si sono aggiunte sei Surface Effect Ships con capacità stealth e dall’elevata velocità, e nel 2016 varerà una unità di superficie per la raccolta dati elettronici che sembra essere la più avanzata al mondo. La Marina Militare finlandese, il 27 aprile 2015, ha ottenuto un grande successo sulla Russia dimostrando una buona capacità di reazione: la rete di sorveglianza subacquea della Finlandia ha dapprima rilevato un contatto sommerso nelle proprie acque territoriali, poi, a seguito di un secondo contatto, ha inviato unità di superficie della Marina Militare e della Guardia Costiera, allo scopo di dissuadere l’intruso a permanere nell’area antistante Helsinki. Il battello sommerso è stato costretto ad abbandonare la zona con l’ausilio del dispositivo MSS, progettato per esplodere a circa 3 metri sotto la superficie, e creare un suono udibile a due miglia di distanza dagli equipaggi dei sommergibili. Per gli Stati Uniti, gli scenari che si potrebbero prefigurare sono inquadrati nella sicurezza nazionale, infatti il sistema di difesa all’estremo nord è volto a garanzia dell’integrità territoriale. Pertanto diventa necessaria una rivisitazione degli schemi navali per operare in ambienti estremi ed ostili, e migliorare il sistema di difesa antimissilistico. Gli Stati Uniti hanno dislocato in Alaska una notevole forza di interdizione, composta principalmente da quasi 25.000 militari, supportati da velivoli da combattimento ed unità della Guardia Costiera. Inoltre, sull’isola di Shemya è impiantato il radar Cobra Dane facente parte dello scudo missilistico, ed a Fort Greely sono schierati i missili intercettori Patriot. In Groenlandia, la base NATO di Thule è parte integrante del sistema antimissilistico, in quanto collega i centri di comando e controllo della California alle forze navali dell’Oceano Pacifico e del Sud-Est Asiatico. Da Thule vengono inviati i comandi operativi alla rete satellitare statunitense, stimata ad oltre 140 unità posizionate in orbite variabili dalle 120 alle 24.000 miglia. Fra questi anche i 90 dedicati esclusivamente alla sorveglianza del territorio russo, che viene sorvolato circa 20.000 volte l’anno. Nelle acque artiche sono in costante navigazione unità Aegis, con capacità di intervento sulle frontiere marittime russe, e sommergibili strategici a propulsione nucleare. Il controllo di un’area passa anche attraverso una efficiente catena di comando che non può essere tale senza un efficace sistema di comunicazione: gli Stati Uniti hanno messo a punto il Mobile User Objective System, MUOS, costituito da quattro terminali terrestri collegati con una rete di satelliti geostazionari. Questo garantisce alla Marina Militare statunitense una connessione con le unità in navigazione nel Mar Glaciale Artico. La funzionalità del MUOS è stata testata nell’addestramento Ice Exercise 2014. L’ICEX 14 ha avuto come protagonisti il Comando delle forze subacquee del COMSUBFOR, ed i tecnici della Lockheed Martin, l’Azienda realizzatrice del MUOS. Sono stati trasmessi una notevole quantità di dati con una connessione protetta e stabile nella regione artica in circa 150 ore di attività. Sostanzialmente, si è verificato uno scambio di informazioni dall’Ice Camp Nautilus, a circa 100 chilometri dalla Prudhoe Bay in Alaska, con i sottomarini USS New Mexico, classe Virginia, e USS Hampton, classe Los Angeles, in navigazione sotto il ghiaccio artico e rischierati nel Submarine Artic Warfare Program. Il programma addestrativo prevedeva prove di emersione, l’attracco e la sosta nella banchisa polare. In questo periodo il MUOS ha operato per l’Ice Camp Nautilus, le cui antenne ed i sistemi tecnologici avanzati hanno garantito la supervisione e le comunicazioni fra le unità sommerse ed il centro di comando e controllo. ICEX 14 ha permesso di monitorare e mettere a punto non solo le comunicazioni, ma anche i sistemi di combattimento e di navigazione in modo realistico dei sottomarini strategici a propulsione nucleare, mezzo fondamentale per l’interdizione marittima e particolarmente adatti ad operare in ambienti ostili ad alta conflittualità. Infatti le condizioni climatiche avverse possono inficiare le operazioni di identificazione in immersione, il lancio dei siluri e le funzioni del sonar a causa della specificità dei profili della propagazione delle onde sonore che possono risultare imprevedibili. I satelliti statunitensi sorvolano l’artico ogni 30 minuti, con una media di circa 17.000 passaggi annui, e sono coadiuvati da velivoli senza pilota configurati per la raccolta dati. La questione artica è per la Russia una priorità geopolitica, ne è la dimostrazione l’ammodernamento dell’apparato militare. Il dispiegamento difensivo ha nelle basi aeronavali nella Terra di Francesco Giuseppe e nelle Isole della Nuova Siberia la sua testa di ponte. Queste saranno implementate con due brigate artiche che dovrebbero essere operative nel 2017: il gruppo Artico Nord sarà composto da formazioni di fanteria meccanizzata schierate nella regione di Murmansk e nel distretto di Jamal-Nenets. Il reggimento da guerra elettronica della Flotta del Nord è di stanza ad Alakurtti. La difesa aerea è per il momento affidata al sistema d’arma Pantsir, ma probabilmente subirà una revisione a favore di SAM più moderni. Dal 1° dicembre 2014, è attivo il Comando Strategico per l’Artico, inquadrato nella Flotta Settentrionale, ma con l’ambizione di renderlo indipendente dopo l’accorpamento di una divisione della Difesa Aerea. Gli aeroporti regionali sono tutti in fase di ammodernamento, ed al termine dei lavori dovrebbero essere 13 quelli pienamente operativi. In particolare quello di Tiksi assumerà una posizione strategica. Questi sono una unione di altri tre aerodromi minori che, al tempo della Guerra Fredda, ospitavano i bombardieri a lungo raggio. Nei progetti russi, Tiksi tornerà a rivivere gli antichi fasti e vi saranno rischierati anche gli intercettori MIG-31. I droni, oramai assorti a sistema d’arma fondamentale per la difesa, saranno basati ad Anadyr, ed un reggimento di SAM S-400 sarà di base nella penisole di Kola, nella Kamchatka e nell’arcipelago di Novaja Zemla. L’attenzione alla questione artica ha avuto conferma nell’improvvisa esercitazione ordinata da Putin. Le manovre straordinarie si prefiggevano la verifica della capacità della Flotta del Nord nel garantire la sicurezza militare russa nell’Artico. Alle esercitazioni hanno preso parte 38.000 militari, 41 unità di superficie, 15 sommergibili e 110 tra aeromobili ad ala fissa ed elicotteri, oltre a paracadutisti e reparti del distretto militare occidentale. Fra i velivoli erano coinvolti anche i bombardieri, nome in codice “Orso-H”, che trasportano armi nucleari. Infatti, la base russa dei bombardieri strategici Tupolev 95 Bear-H nella regione di Amur, era in stato di allerta per partecipare alle manovre nel distretto militare orientale. La flotta subacquea russa è numericamente inferiore rispetto a quella statunitense, ma gli ultimi battelli entrati in servizio sembrano vantare una silenziosità maggiore se paragonata a quella degli avversari, e questo dovrebbe riequilibrare le forze in campo.
Gli interessi geopolitici intorno all’Artico sembrano acuirsi notevolmente, forse anche a causa del contrasto sulle vicende ucraine. Resta valido un arbitrato dell’Onu che possa appianare le contese ed evitare un innalzamento del livello di scontro, ma anche trivellazioni non concordate che potrebbero peggiorare le condizioni ambientali dell’Artico.

Antonio Mazzeo, “Il MUOS per ipermilitarizzare e depredare l’Artico”. Mosaico di Pace, 2014
Romaric Thomas, “Artico, questione di sicurezza nazionale della Russia”. Aurora, 2014
Tatiana Santi, “La geopolitica dell’Artico”. La voce della Russia, 2014
Duncan D. Quartz, “Come la Russia potrebbe annettere l’artico”. Defense One, 2015
Dario Gentile, “Geopolitica dei ghiacci”. Osservatorio dell’Istituto di Studi Militari Marittimi, 2009
Fabio Ragno, “Russia: un comando per le forze aeree dell’Artico”. Analisi Difesa
James Bamford, “Frozen Assest”. Foreign Policy

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L’ARTICO E LA “PRIMAVERA RUSSA”: AUMENTA LA TEMPERATURA GEOPOLITICA NELLA REGIONE POLARE?

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«[…] l’Artico diventerà la grande zona di transito del futuro poiché fornirà il percorso più breve al cuore del continente eurasiatico […] i lidi del Canada settentrionale e della Siberia diventeranno una nuova frontiera di contatto tra il Vecchio ed il Nuovo Mondo e, in questo campo, gli Stati Uniti domineranno con il loro enorme potere aereo».
(N. J. Spykman, The geography of the peace, 1944)(1)

Sotto il profilo del diritto internazionale lo statuto giuridico dello spazio artico, come ha osservato Dmitri Trenin,(2) è definito solo da una manciata di accordi, tra cui il Trattato delle Svalbard (1920) (3) e l’UNCLOS (United Nations Convention on the Law of the Sea) o Convenzione di Montego Bay firmata nel 1982 ma ratificata in tempi diversi dai Paesi firmatari. Come è noto, la Convenzione consente agli Stati costieri firmatari di estendere i diritti esclusivi allo sfruttamento delle risorse naturali in una Zona economica esclusiva fino a 200 miglia nautiche adiacente a quello spazio di 12 miglia che delimita le acque territoriali a partire dalla linea di base. Ma è ciò che sta al di sotto della superficie emersa a costituire oggetto di disputa territoriale: l’estensione della piattaforma continentale, il naturale prolungamento sommerso della terraferma del continente, che può superare le 200 miglia nautiche fino ad un massimo di 350 miglia e dà diritto allo Stato che ne è sovrano di sfruttarne le risorse naturali non viventi. Attorno alla definizione di tale area si sono sviluppate recentemente alcune controversie in una regione che rappresentò una sorta di territorium nullius fin dagli inizi del XIX secolo.
Rivendicazioni di sovranità su regioni polari artiche furono già avanzate dal Canada nel 1909 e, con due anni di anticipo sull’URSS, dagli Stati Uniti nel 1924, unico Paese del litorale artico che tuttora non ha ratificato l’UNCLOS, e che perora una politica di internazionalizzazione dello spazio artico,(4) dunque di opposizione alle rivendicazioni territoriali polari. Recentemente la proposta avanzata dall’ex ammiraglio della U.S. Navy James Stavridis di un “Arctic Treaty” che sottrarrebbe la regione artica alle rivendicazioni territoriali tutelando la regione come “patrimonio comune dell’umanità”, (5) ha trovato esplicita convergenza con le motivazioni ecologico-salvazioniste di ONG come Greenpeace, già protagonista del tentativo di sabotaggio della piattaforma “Prirazlomnaya”. Tra i propositi avanzati dall’ex ammiraglio vi sono quelli di porre limiti significativi alle attività militari e strategiche in una regione, quella polare, in cui la Russia rappresenta la più grande nazione artica con 20,000 km² di litorale. I tentativi di elaborare i fondamenti teorici e giuridici per porre sotto tutela internazionale la regione artica non sono avulsi dagli equilibri di potere in seno all’Arctic Council, dove 5 degli 8 Paesi che lo compongono sono membri della NATO (segnatamente Norvegia, Danimarca, Islanda, Canada e Stati Uniti).
Si deve infatti registrare il fatto che la più grande esercitazione militare norvegese dal 1967 ad oggi si è svolta proprio nel marzo 2015 vicino al confine russo nella contea di Finnmark, e a detta del colonnello Ivar Moen fu pianificata già nell’autunno del 2013.(6) Il Canada ha boicottato l’incontro dei membri dell’Arctic Council tenutosi a Mosca il 14-15 aprile 2014 per protestare contro l’unione referendaria della Crimea alla Federazione Russa, ed alcuni think tank neo-con statunitensi, tra cui la Heritage Foundation, hanno sostenuto la necessità di recuperare terreno nell’Artico dando seguito ad un programma di esercitazioni militari NATO nella regione, a partire dall’operazione “Cold Response” nel marzo 2014,(7) e di coinvolgimento in un’agenda comune dei membri atlantisti non-artici, come Gran Bretagna e Paesi baltici.(8)
La Federazione Russa, nel quadro dell’UNCLOS ratificato nel 1997, in conformità all’articolo 76, paragrafo 8 della Convenzione, aveva presentato nel 2001 la richiesta di estendere la propria sovranità territoriale sulle piattaforme continentali della dorsale Lomonosov (scoperta dai sovietici nel 1948) e la dorsale Mendeleev come estensioni del continente eurasiatico. (9) La richiesta fu respinta l’anno successivo da parte della Commissione UNCLOS, che raccomandò ulteriori studi. Fu un segnale di inizio della corsa per l’Artico.
Nel 2013 è la volta del Canada, che con un certo ritardo rispetto alla Federazione Russa nella ratifica dell’UNCLOS (2003), ha sottoposto alla Commissione della stessa uno studio di 200 milioni di dollari, circa il quadruplo della somma investita dalla Federazione Russa, per documentare che la dorsale Lomonosov costituisca l’estensione sommersa dell’isola di Ellesmere. (10) Benché il 2014 sia stato un anno positivo per le prospettive politiche artiche di Mosca, che si è vista riconoscere all’interno della propria giurisdizione l’area di 52000 km² del mar di Ochotsk, dopo aver risolto nel 2010 una disputa quarantennale con la Norvegia per il mar di Barents,(11) la Danimarca ha recentemente presentato richiesta alla Commissione UNCLOS la rivendicazione di un territorio pari a 20 volte la stessa penisola danese, includendovi il Polo Nord e la parte meridionale della dorsale Lomonosov. (12)
La posta in gioco è alta: secondo studi dell’US. Geological Survey condotti nel 2008, la regione polare celerebbe il 13% delle riserve petrolifere mondiali non esplorate, il 30% di quelle di gas naturale, ed il 20% di gas liquido.(13) Naturalmente la valutazione di queste stime oscilla tra prospettive ottimistiche secondo le quali entro i territori polari rivendicati da Mosca le riserve petrolifere ammonterebbero al doppio di quelle della penisola araba,(14) e prospettive pessimistiche che le ridurrebbero a solo un terzo delle risorse petrolifere esplorate dall’Arabia Saudita.(15) L’opera di trivellazione da parte del partenariato ExxonMobil e Rosnef presso il pozzo Universitetskaya-1, il più a nord del mondo, fu avviata nell’agosto 2014. Il 27 settembre 2014, tre mesi prima della rivendicazione territoriale danese all’UNCLOS ed una settimana prima delle sanzioni anti-russe,(16) Rosneft annunciava la nuova scoperta nella regione del mar di Kara di un giacimento petrolifero che potenzialmente potrebbe diventare tra le più grandi aree di produzione di petrolio greggio con un’estensione superiore al Golfo del Messico. (17) La scoperta del giacimento “Pobeda” (Vittoria) non altera la politica artica russa, già impostata sul lungo periodo a partire dal 2008 con la pubblicazione del “Foundations of the Russian Federation’s state policy in the Arctic until 2020 and beyond”, rafforzandone piuttosto i vettori strategici. Nel documento si affermava la centralità strategica del passaggio a nord-est (Northern Sea Route, acronimo: NSR), la più rapida via marittima per connettere l’est e l’ovest russi, la necessità di una sorveglianza militare della zona artica della Federazione Russa (IV. 8, b), e ancora «la creazione e sviluppo di un sistema di gestione di infrastrutture e comunicazioni del NSR per risolvere i problemi del trasporto eurasiatico» (VI. 11, b). (18) Tali direttrici strategiche trovano conferma di ulteriore continuità in altri più recenti documenti strategici russi,(19) e nelle parole del vice Primo Ministro Dmitry Rogozin, che ha definito l’Artico «una prova fisica dello status unico della Russia come eccezionale potenza energetica», ribadendo l’importanza del passaggio a nord-est come «via più breve dall’Asia all’Europa».(20)
Benché il traffico presso la NRS sia ad oggi enormemente inferiore rispetto a quello che transita attraverso il Canale di Suez,(21) vi è ragione di credere che con la riduzione del 40% del ghiaccio negli ultimi 30 anni il trasporto marittimo nella regione artica possa aumentare progressivamente attraendo altri partner eurasiatici. Il porto russo di Murmansk dista infatti da Shanghai 10,600 km, circa il 40% in meno rispetto alla distanza di 17,700 km che lo separa dal tragitto attraverso il Canale di Suez(22) ed il 60% più breve rispetto alla via lungo il Capo di Buona Speranza.(23) Lo sviluppo dell’arteria marittima a nord-est si configura dunque per la Federazione Russa come un imperativo strategico-geopolitico analogo e complementare alla nuova Via della Seta cinese, in una prospettiva di integrazione delle linee di traffico e comunicazione eurasiatiche. Le positive aspettative russe che si sono dischiuse con lo scioglimento di parte della banchisa polare devono però far fronte al nuovo raffreddamento delle relazioni internazionali con l’Occidente.

 

Verso la fine della cooperazione artica?

Il recente aggiornamento della politica statunitense per l’Artico contenuto nel “U.S. Navy’s Arctic Roadmap: 2014-2030” del febbraio 2014, rispetto al precedente documento del 2009, estende l’assioma geopolitico statunitense della politica di libertà di navigazione all’Oceano Artico, ed annovera tra le missioni della marina la capacità di esercitare una “proiezione di potenza” «per rispondere a crisi, contribuire alla deterrenza e rafforzare la stabilità regionale».(24) Il ministro della Difesa norvegese Ine Eriksen Søreide, annunciando la fine dei rapporti di normalità tra Norvegia e Federazione Russa e lamentando una certa lentezza nella struttura decisionale dell’Alleanza Atlantica, ha non solo invocato un maggiore coinvolgimento della NATO nella regione artica in risposta alla politica russa, ma ribadito il sostegno incondizionato ad un membro esterno alla NATO: parteggiando per Kiev nel conflitto contro gli indipendentisti della Novarussia. (25)
La volontà di Oslo di porsi alla testa di un rinnovato impegno strategico-militare dell’Alleanza Atlantica nell’Oceano Artico pare trovare conferma nella crescita del suo bilancio militare. Agli inizi del mese di maggio è stato comunicato l’aumento di circa 500 milioni di dollari alla difesa da parte della Norvegia con lo sviluppo della combinazione di batterie anti-aeree IRIS-T a corto raggio e NASAMS 2 a medio raggio, e l’aggiornamento di 38 carro armati Leopard 2 tedeschi delle 52 unità totali che la Norvegia aveva acquistato dall’Olanda. (26) Nel programma militare norvegese vi è anche l’espansione della base aeronautica presso Ørland che costerà attorno ai 190 milioni di dollari. Ancora agli inizi di maggio si è registrato un fatto senza precedenti per la politica di Helsinki: le forze armate finlandesi hanno convocato circa 900000 riservisti, quasi un quinto della popolazione, giustificando il loro coinvolgimento in relazione ad un’imminente “situazione di crisi” regionale, ma negando per voce del ministro della difesa Mika Kalliomaa una connessione con eventuali minacce russe.(27) Il 4 maggio ha visto per la prima volta il coinvolgimento della Svezia nell’esercitazione annuale NATO “Dynamic Mongoose”, con sottomarini di 10 Paesi dell’alleanza Atlantica, 13 unità militari di superficie e 2 navi oceanografiche, una norvegese e l’altra statunitense,(28) mentre nel mese di marzo il parlamento svedese approvava un aumento della spesa militare pari a 1,8 miliardi di dollari per il periodo 2016-2020 al fine di “garantire stabilità e pace nel Nord Europa”.(29) L’apertura di un fronte ulteriore nella Nuova Guerra Fredda in funzione di contenimento della Russia nello spazio artico risale ad un momento precedente alla costosa caccia rivolta al fantomatico sottomarino russo iniziata il 17 ottobre 2014 da parte della Svezia,(30) e precisamente alla stesura segreta di un memorandum stilato con la NATO nel maggio 2014 attorno a 57 “mutui obbiettivi” da perseguire, con la manifesta volontà di fare della Finlandia un “Paese ospite” della NATO, provvedendo ad un’attiva cooperazione e supporto logistico ai membri dell’Alleanza.(31) Il coinvolgimento di Helsinki e Stoccolma, formalmente esterni alla NATO, entro la strategia atlantista per la regione scandinava, ha trovato recente conferma con la dichiarazione congiunta dei ministri della difesa di Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca ed Islanda del 9 aprile 2015, i quali hanno definito la Russia come “principale sfida alla sicurezza europea”, rendendo vane le prudenti riserve finlandesi espresse precedentemente circa i rapporti con la Russia.(32)
Alla sospensione da parte norvegese di cooperazione militare con la Federazione Russa decisa nel maggio 2014, e reiterata nel dicembre 2014 fino alla fine del 2015 (33) con l’esplicito proposito di estendere la pressione anti-russa sul fronte artico, Mosca ha risposto con una grande prova di dinamismo strategico-militare nella regione artica.
Tra il 19 e il 25 settembre 2014 si svolse infatti il “Vostok-2014”, la più grande esercitazione militare post-sovietica russa nella regione di Kamchatka, che ha visto la partecipazione di 100000 uomini su 1500 carro armati, 120 aerei, 70 navi e l’impiego di 5000 pezzi di artiglieria.(34) A questa operazione è seguita il 16 marzo 2015 un’esercitazione anti-terroristica a sorpresa con il coinvolgimento di 38000 unità, 41 navi, 15 sottomarini, 110 jets ed elicotteri,(35) protrattasi fino al 21 marzo con un totale di 80000 uomini in servizio. (36) Nel quadro di un aumento del 20% del bilancio russo alla difesa, la strategia russa elaborata nel documento “Russian military throughout 2015 and beyond” prevede il dislocamento di due terzi della flotta nella regione artica russa, la formazione di un nuovo gruppo di 6000 unità suddivise in due brigate di fanteria motorizzata basata a Murmansk e nella regione autonoma di Yamal-Nenets, l’installazione presso l’arcipelago di Novaja Zamlja del sistema di difesa aereo avanzato S-400, e l’installazione di radar ed altri sistemi di rivelazione presso la terra di San Giuseppe, l’isola di Wrangel e Capo Schmidt. (37) Nel gennaio 2015 media ufficiali russi hanno comunicato il programma di costruzione di altri 10 campi d’aviazione nella regione artica da completare entro fine 2015, per un totale di 14 campi, con la riapertura delle basi dell’aviazione sovietica presso Novaja Zemlja, Naryan-Mar, e l’isola di Graham Bell.(38)
Lo sviluppo della NSR richiede nuovi investimenti nella flotta atomica dei rompighiaccio e nelle sue strutture ed unità di appoggio. Una nuova flotta di rompighiaccio è attesa, con almeno 14 navi in cantiere (39) e l’annuncio da parte di Rogozin della costruzione della prima nave rompighiaccio a propulsione nucleare di nuova serie entro il 2017,(40) l’LK-60, che affiancherà i 5 vascelli in funzione della precedente classe Arktika, tra cui le celebri NS Yamal e NS 50 Let Pobedy (“50 anni di Vittoria”). La politica di contenimento atlantista sull’Artico deve misurarsi non solo con la crescita del potenziale strategico-militare russo, ma anche col fatto che la Federazione Russa è l’unico Paese a disporre di una flotta di rompighiaccio nucleari nella regione artica.
Lo spazio artico si impone come nuovo teatro economico-commerciale con l’apertura della NSR al traffico mercantile da parte della Russia nel 2010. Nonostante la NSR sia aperta al transito straniero solo dal 1991, secondo la giurisdizione russa solo navi rompighiaccio russe possono provvedere assistenza alle navi nella NSR. Il documento del 2008 parla infatti della NSR come di un «sistema nazionale di comunicazione e trasporto integrato» (I. 4, c). Lo sviluppo della NSR attraverso i sette mari artici si può configurare nell’attuale fase dei rapporti internazionali come un fenomeno di globalizzazione regionale russo-asiatica, da cui risulterebbero esclusi attori occidentali.
In occasione del summit dell’APEC nel 2013 Putin invitò i partner asiatici ad investire per la cooperazione e lo sviluppo del NSR, che consentirebbe una considerevole riduzione di tempi e costi di percorrenza per il traffico marittimo. (41) Tre circostanze in particolare contribuiscono secondo Ekaterina Klimenko ad un’ulteriore avvicinamento di Cina e Federazione Russa nella cooperazione per l’Artico: in primo luogo la Cina rappresenta un mercato fondamentale per l’energia dell’Artico; è uno dei clienti più interessati ed al contempo potenziali investitori della NSR, ed infine la Cina può sopperire al bisogno di capitale necessario per lo sviluppo della regione artica bilanciando il ritiro degli investimenti occidentali.(42) Nel 2012 la nave Xuelong (“Snow Dragon”) è stata la prima rompighiaccio cinese ad attraversare l’Artico fino in Europa,(43) e nel 2013 è la volta di Yong Sheng, la prima nave cargo cinese a transitare lungo la NRS.(44) Le compagnie statali Atomflot e COSCO (China Ocean Shipping Company) hanno programmato di incrementare la cooperazione e l’assistenza per il trasporto sulla NSR, che consente alle navi cargo cinesi di risparmiare circa 15 giorni di viaggio rispetto alla tradizionale via attraverso il Canale di Suez e Mediterraneo.(45)
Diversi osservatori occidentali temono le aspirazioni della più grande nazione artica sullo stesso spazio Artico, tra cui il colonello statunitense David Hunt, il quale pochi giorni fa in un articolo pubblicato su “American Thinker” ha dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero “fare tutto il possibile” per mantenere il controllo sulle risorse naturali artiche, guadagnando terreno rispetto a Russia e Cina, e chiedendo all’amministrazione Obama di «ostacolare l’avanzata russa».(46) Il governo statunitense, in effetti, sembra essersi già orientato in questo senso, con la crescente attività di spionaggio spaziale statunitense sulla regione siberiana rivelata dai droni russi e resa pubblicamente nota verso la fine dello scorso aprile. (47)
Ai toni simili a quelli del colonnello Hunt si affiancano studi occidentali sulla geopolitica russa dell’Artico che alludono ad un nuovo Lebensraum nordico di Mosca. Significativo è il paragrafo intitolato The nationalist reading of the Arctic: Russia’s new Lebensraum contenuto nel recente studio di Michelle Laurenne.(48) Nella ricostruzione offerta dall’autrice il minimo comune denominatore di queste prospettive patriottiche è l’interpretazione dell’Artico come elemento cruciale per il revival dello status di grande potenza della Russia, e giusta compensazione per l’egemonia perduta con la dissoluzione dell’URSS. Lo scrittore russo Artur Indzhiev ha prospettato una guerra per il controllo dell’Artico ed il coinvolgimento della Russia in una Terza Guerra Mondiale. Altri analisti occidentalisti hanno parlato di realpolitik russa dal “sapore stalinista”,(49) interpretando riduttivamente le mosse russe sull’Artico come mere ambizioni patriottiche della classe dirigente russa.
Certamente il raffreddamento dei rapporti tra Mosca ed il blocco BAO ha consentito alla Federazione Russa di rilanciare con maggiore determinazione la sua strategia di sicurezza, la sua sovranità territoriale ed il suo status di attore eurasiatico e mondiale di primo piano. Le rivendicazioni sull’Artico, terreno geografico periferico, riflettono le incertezze dell’attuale fase geopolitica di consolidamento di un ordine multipolare: solo «in un mondo bipolare – poteva concludere Kenneth Waltz nel 1979 – non ci sono periferie»; (50) in un mondo unipolare nemmeno. Il vice Primo Ministro Rogozin è autore della prefazione al libro Alaska Betrayed and Sold: The History of a Palace Conspiracy, di Ivan Mironov, pubblicato nell’ottobre 2014, in cui è avallata la tesi revisionista di tradimento della patria con la vendita della regione agli Stati Uniti nel 1867 da parte dello zar Alessandro II, nel tentativo di sottrarre la regione agli appetiti britannici. Alla recente visita alle isole Svalbard da parte di Rogozin, sottoposto alle sanzioni occidentali, la quale ha suscitato prevedibili proteste da parte di esponenti sotto l’ombrello dell’Alleanza Atlantica, è seguita la nota del deputato del Partito Comunista della Federazione Russa Leonid Kalashnikov, il quale ha posto in dubbio che il Trattato delle Svalbard riconosca l’estensione della sovranità norvegese sull’intero arcipelago.(51)
Quale che sia il destino geopolitico dello spazio artico, è chiaro che l’ottimistica insistenza sul programma di cooperazione e di trasparenza reciproca tra i membri dell’Arctic Council delineato nella Dichiarazione di Ilulissat nel maggio 2008, (52) appare obsoleta dopo la crisi ucraina. L’unilaterale sospensione di collaborazione con la Federazione Russa da parte dei membri NATO in seno all’Arctic Council e la correlata “atlantizzazione” aggressiva della regione segnano uno spartiacque nella storia quasi ventennale del forum multilaterale.
Nella lettura dei recenti giochi della geopolitica artica il modello competitivo di “lotta per l’Artico”(53) sembra più realisticamente attendibile rispetto a modelli cooperativi, per lo meno nel breve e medio termine, come sembrano suggerire i recenti documenti strategici, ed i tentativi occidentali di separare la Russia dall’Artico.

 

NOTE
1) N. J. Spykman, The geography of the peace, edit. by H. R. Nicholl, Archon Books, Hamden 1969, p. 55.
2) D. Trenin, The Arctic: a front for cooperation not competition, Carnegie Endowment for International Peace, Washington D.C. 2010, p. 7.
3) Si veda il testo del Trattato reperibile sul sito: http://emeritus.lovdata.no/traktater/texte/tre-19200209-001.html.
4) N. Malishevski, Fight Over Arctic Region and the Russian Path Towards Peace, “Oriental Review”, 12 maggio 2012, http://orientalreview.org/2012/05/12/fight-over-arctic-region-and-the-russian-path-towards-peace/.
5) J. Stavridis, Lessons From the White Continent, “Foreign Policy”, 23 febbraio 2015, https://foreignpolicy.com/2015/02/23/lessons-from-the-white-continent-arctic-antarctica-nato-russia-north-pole-arctic/.
6) Massive Military Drills Near Russian Border Not Provocation – Armed Forces, “Sputnik News”, 18 marzo 2015, http://sputniknews.com/military/20150318/1019681740.html.
7) Cold Response: Nato exercises in the Arctic Circle, “BBC”, 19 marzo 2014, http://www.bbc.com/news/world-26627368.
8) L. Coffey – D. Kochis, NATO Summit 2014: Time to Make Up for Lost Ground in the Arctic, “The Heritage Foundation”, 21 agosto 2014, http://www.heritage.org/research/reports/2014/08/nato-summit-2014-time-to-make-up-for-lost-ground-in-the-arctic.
9) Si veda il documento pubblicato sul sito dell’UNCLOS: http://www.un.org/depts/los/clcs_new/submissions_files/submission_rus.htm.
10) Canada to include the North Pole in its claim for Arctic territory, resources, “Russia Today”, 10 dicembre 2013,
http://rt.com/news/canada-arctic-north-pole-claims-965/.
11) E. Klimenko, Russia’s evolving Arctic strategy. Drivers, challenges and new opportunities, SIPRI n° 42, settembre 2014, p. 12.
12) Denmark, Greenland claim more territory in Arctic, including North Pole, “TASS”, 15 dicembre 2014, http://tass.ru/en/world/766899.
13) 90 Billion Barrels of Oil and 1,670 Trillion Cubic Feet of Natural Gas Assessed in the Arctic, “U.S. Geological Survey”, 23 luglio 2008, http://www.usgs.gov/newsroom/article.asp?ID=1980&from=rss_home#.VUM60pMas3A.
14) D. Trenin, cit., p. 5.
15) P. K. Baev, Russian policy in the Arctic: a reality check, Carnegie Endowment for International Peace, Washington D.C. 2010, p. 21.
16) T. Nilsen, Discovers Kara Sea oil a week before sanctions hit, “Barents Observer”, 29 settembre 2014,
http://barentsobserver.com/en/energy/2014/09/discovers-kara-sea-oil-week-sanctions-hit-29-09.
17) Rosneft Discovered a New Hydrocarbon Field in the Kara Sea, http://www.rosneft.com/news/pressrelease/27092014.html.
18) Parzialmente reperibile nella traduzione inglese di P. Burgess al sito: http://icr.arcticportal.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1791%3.
19) Si tratta del Russian strategy of the development of the Arctic Zone and the Provision of National security until 2020 licenziato nel 2013, e ancora del Transport strategy of the Russian Federation for the period up to 2030, dell’anno scorso.
20) Russia starts Arctic industrialization — deputy PM, “TASS”, 14 aprile 2015, http://tass.ru/en/russia/789256.
21) Klimenko, riferisce una bassa percentuale intorno allo 0,2-0,3%; cfr. E. Klimenko, cit., p. 11.
22) Russia opens short-cut Asia sea route, “The Hindu”, 27 agosto 2010,
http://www.thehindu.com/todays-paper/tp-international/russia-opens-shortcut-asia-sea-route/article597061.ece.
23) C. Bartlett, Is Arctic shipping Russia’s answer to the Suez Canal?, “Seatrade Global – Maritime News”, 11 novembre 2013, http://www.seatrade-global.com/news/asia/is-arctic-shipping-russias-answer-to-the-suez-canal.html.
24) U.S. Navy’s Arctic Roadmap: 2014-2030, febbraio 2014, p. 17: www.navy.mil/docs/USN_arctic_roadmap.pdf.
25) M. Craver, Norway: ‘We are faced with a different Russia’, “CNN”, 26 febbraio 2015, http://edition.cnn.com/2015/02/25/world/amanpour-norway-ine-eriksen-soreide/.
26) G. O’Dwyer, Norway Adds $500M To Bolster High North, “DefenseNews”, 4 maggio 2015,
http://www.defensenews.com/story/defense/policy-budget/budget/2015/04/30/norway-budget-increase-russia-ukraine-baltic-air-defense-nasams-leopard-tank-f35/26661873/.
27) F.Capon, Finnish military preparing 900,000 reservists for ‘crisis situation’, 1 maggio2015,
http://europe.newsweek.com/finish-military-preparing-900000-reservists-crisis-situation-326712.
28) Anti-submarine warfare exercise ‘Dynamic Mongoose’ starts off Norwegian coast, 4 maggio 2015,
http://www.nato.int/cps/en/natohq/news_119146.htm.
29) Sweden Raises Defense Budget Amid Russia Concerns, “DefenseNews”, 17 aprile 2015,
http://www.defensenews.com/story/defense/2015/04/17/sweden-raises-defense-budget-amid-russia-concerns/25951203/.
30) N. Pollar, Sweden steps up hunt for ‘foreign underwater activity’ in Baltic Sea, “The Washington Post”, 18 ottobre 2014, http://www.washingtonpost.com/world/sweden-steps-up-hunt-for-foreign-underwater-activity-in-baltic-sea/2014/10/18/8b71b062-5717-11e4-809b-8cc0a295c773_story.html.
31) Secret document of Finland-NATO partnership leaked, “Finland Times”, 4 settembre 2014, http://www.finlandtimes.fi/national/2014/09/04/9793/Secret-documents-of-Finland-NATO-partnership-leaked.
32) B. Koranyi – T. Solsvik, Nordic nations agree on defense cooperation against Russia, 9 aprile 2015,
http://www.reuters.com/article/2015/04/09/us-nordics-russia-defence-idUSKBN0N02E820150409.
33) T. Pettersen, Norway suspends military cooperation with Russia until end of 2015, 12 dicembre 2014,
http://barentsobserver.com/en/security/2014/12/norway-suspends-military-cooperation-russia-until-end-2015-12-12.
34) Russia tests 100,000 troops in ‘Vostok 2014’, biggest-ever post-Soviet drills, “Russia Today”, 23 settembre 2014,
http://rt.com/news/189900-kamchatka-military-drills-shoigu/.
35) Massive surprise drills launched in Arctic on Putin’s orders, “Russia Today”, 16 marzo 2015,
http://rt.com/news/241021-miliary-drills-unplanned-readiness/.
36) Arctic pacification & terrorist elimination: Russia’s military drills continue, “Russia Today”, 20 marzo 2015,
http://rt.com/news/242197-russia-military-drills-video/.
37) Russia’s Plans for Arctic Supremacy, “Stratfor”, 16 gennaio 2015.
38) G. Jennings, Russia to build more Arctic airfields, “HIS Jane’s 360 Defence Weekly”, 12 gennaio 2015,
http://www.janes.com/article/47831/russia-to-build-more-arctic-airfields.
39) A. Staalesen, New icebreakers open way for Russia in Arctic, “Barents Observer”, 5 maggio 2015,
http://barentsobserver.com/en/arctic/2015/05/new-icebreakers-open-way-russia-arctic-05-05.
40) Russia to have first new nuclear icebreaker in 2017 – deputy PM, “TASS”, 21 aprile 2015,
http://tass.ru/en/russia/790788.
41) R. Falyahov, Putin invites Asia-Pacific leaders to invest in major Russian infrastructure projects, “RBTH”, 9 ottobre 2013, http://rbth.asia/economy/2013/10/09/putin_invites_asiapacific_leaders_to_invest_in_major_russian_infrast_48919.html
42) E. Klimenko, cit., pp. 23-24.
43) G. Viglundson – A. Doyle, First Chinese ship crosses Arctic Ocean amid record melt, “Reuters”, 17 agosto 2012,
http://www.reuters.com/article/2012/08/17/us-china-environment-idUSBRE87G0P820120817.
44) A. Staalesen, First container ship on Northern Sea Route, “Barents Observer”, 21 agosto 2013,
http://barentsobserver.com/en/arctic/2013/08/first-container-ship-northern-sea-route-21-08.
45)Chinese cargo ship sets sail for Arctic short-cut, 8 novembre 2013, http://www.cosco.com/art/2013/8/11/art_45_40190.html.
46)D. Hunt, Could the U.S. Lose its Arctic Energy War to Rivals?, “American Thinker”, 2 maggio 2015,
http://www.americanthinker.com/articles/2015/04/could_the_us_lose_its_arctic_energy_war_to_rivals.html.
47)T. Durden, Russia Deploys Tactical Drones In The Arctic, Exposes Rarely-Seen US Spy Satellite Images, “Zero Hedge”, 26 aprile 2015, http://www.zerohedge.com/news/2015-04-26/russia-deploys-tactial-drone-arctic-exposes-rarely-seen-us-spy-satellite-images.
48)M. Laruelle, Russia’s Arctic Strategies and the Future of the Far North, M.E. Sharpe, New York 2014, pp. 39-43.
49)P. K. Baev, cit., pp. 25-26.
50)K. N. Waltz, Theory of international politics, 1979, trad. it. Teoria della politica internazionale, Il Mulino, Bologna 2013, p. 314.
51)T. Nilsen, Norway summons Russian Ambassador, “Barents Observer”, 20 aprile 2015,
http://barentsobserver.com/en/politics/2015/04/norway-summons-russian-ambassador-20-04.
52)Si veda il documento The Ilulissat Declaration Arctic Ocean Conference, Ilulissat, Greenland, 27 – 29 MAY 2008, reperibile al sito: http://www.arctic-report.net/?post_type=products&p=859&lang=en.
53)L. Savin, Fighting for the Arctic, “Geopolitica.ru”, 21 agosto 2014, http://www.geopolitica.ru/en/article/fighting-arctic-0#.VUhnrZMas3B.

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SYCYLIA: GEOPOLITYKA WYSPY W SERCU ŚWIATA

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W 1966 r. Fernand Braudel, mówiąc o Sycylii, opisywał ją jako „miniaturowy kontynent”. Abstrahując od rozważań natury historyczno-kulturowej, definicja ta znajduje swoje odzwierciedlenie w niezwykłej różnorodności geologicznej i klimatycznej oraz w bogatym ukształtowaniu terenu, które wyróżniają największą wyspę Morza Śródziemnego.
Sycylia, usytuowana na południowych peryferiach Włoch oraz Europy, skupionej wokół osi francusko-niemieckiej, cechuje się w rzeczywistości centralnym położeniem geograficznym, które na przestrzeni wieków uczyniło ją celem podbojów Greków, Fenicjan, Rzymian, Wandalów, Ostrogotów, Bizantyjczyków, Arabów, Normanów, Francuzów, Hiszpanów, Piemontczyków, Austriaków i ponownie Hiszpanów aż do przyłączenia jej w 1861 r. do Królestwa Sardynii.

Położona w połowie drogi między Cieśniną Gibraltarską a Kanałem Sueskim stanowi integralną część zarówno Europy, jak i Afryki, przynależąc do pierwszej z geograficznego punktu widzenia, a do drugiej z punktu widzenia geologicznego. Jej położenie w centrum Morza Śródziemnego, w którego basenie, przynajmniej do czasu odkrycia Ameryki, pojawiły się najważniejsze cywilizacje znanego wówczas świata, wyjaśnia kluczową rolę sycylijskich elit, jaką pełniły one w społeczeństwach ludów kolejno przejmujących panowanie nad wyspą. Podczas, gdy syrakuzański uczony i matematyk Archimedes oraz filozof i poeta Empedokles z Agrygentu uważani są za największych geniuszy greckiej cywilizacji, nie mniejszy był wkład innego Sycylijczyka, Dżawhara as-Sikilli, w rozwój cywilizacji muzułmańskiej: generał przewodzący podbojowi Afryki Północnej na rzecz dynastii Fatymidów był także założycielem miasta Kairu oraz prestiżowego Uniwersytetu al-Azhar, jednego z najstarszych funkcjonujących do dziś uniwersytetów. Związek między Sycylią i Islamem, pomijając okresy walk, przejawiał się w rozkwicie wyspy podczas rządów Arabów, którzy lepiej niż jakikolwiek inny lud potrafili uchwycić jej kluczowe, centralne położenie. W tej perspektywie bardzo wymowna jest treść inskrypcji umieszczonej na jednych z arabskich fontann na Sycylii: „Jestem w sercu ogrodu, ogród ten jest sercem Sycylii, a Sycylia jest sercem świata”.

Kluczowe położenie Sycylii, którą Arabowie nawet po objęciu panowania na wyspie przez Normanów pojmowali jako nieodłączną część muzułmańskiego świata, jest ściśle związane z lokalizacją otaczającego ją morza. Morze Śródziemne, ograniczone od zachodu przez Cieśninę Gibraltarską, a od wschodu przez Kanał Sueski, było jeziorem Starego Świata, umożliwiającym komunikację południowych wybrzeży Eurazji z Północą Afryką. Znajduje się ono w tej samej przestrzeni geopolitycznej, do której przynależy także Rosja, otoczona wodami połączonego z nim w sposób naturalny Morza Czarnego. Stąd też bierze swoją nazwę – mediterraneus, „między lądami” – nadaną mu przez Rzymian, a następnie przejętą przez Arabów, którzy zwykli je nazywać al-Baḥr al-Abyaḍ al-Mutawassiṭ – Białe Morze Środkowe.

Biorąc pod uwagę, że Morze Śródziemne pełni funkcję globalnego szlaku komunikacyjnego, łączącego Atlantyk, którego jest częścią, z Oceanem Indyjskim, jest oczywiste, iż jego basen stanowi w rzeczywistości jądro szerzej rozumianego regionu Śródziemnomorza, sięgającego poza Suez, a tym samym stwarzającego warunki dla nieustannego przepływu towarów, osób i kapitału z Chin oraz Indii aż do Europy. Tutaj tkwi ogromne znaczenie Sycylii, która jest skrzyżowaniem dróg w samym sercu tego obszaru. Parafrazując słowa Halforda Mackindera, możemy stwierdzić, że „ten, kto kontroluje Sycylię, kontroluje Morze Śródziemne; kto kontroluje Morze Śródziemne, kontroluje szeroko rozumiany obszar Śródziemnomorza, a ten kto kontroluje tenże obszar, kontroluje cały świat”. Nieprzypadkowo geopolityczna kontrola nad Sycylią stanowiła jedną z kluczowych kwestii dla anglosaskiej supremacji w ostatnich trzech stuleciach. Kontrolę tę udało się zdobyć Anglikom w XIX w., dzięki poparciu Londynu dla zjednoczenia Włoch i umocnić po II wojnie światowej w wyniku przystąpienia Włoch do NATO. Co ciekawe, globalny wymiar Śródziemnomorza sięga czasów przed otwarciem Kanału Sueskiego, zwanego tętnicą zachodu. Przez wieki towary pochodzące z południowo-wschodniej Azji były transportowane tak zwanym Szlakiem kadzidlanym do Delty Nilu –drogą lądową przez Pustynię Arabską, a później, na północ od pierwszej katarakty, drogą wodną. Był to system analogiczny do tego, dzięki któremu jezioro nazywane powszechnie Morzem Kaspijskim zyskało połączenie z Morzem Czarnym, a co za tym idzie – także z Morzem Śródziemnym poprzez koryta żeglownych rzek, Donu oraz Wołgi.

Przyłączając się do Włoch, Sycylia stała się największym i najbardziej zaludnionym regionem kraju. Jednocześnie był to hamulec dla rozwoju geopolitycznego potencjału wyspy. Gdyby była niepodległa, mogłaby – nie bez uzasadnienia – odzyskać zwierzchnictwo nad Maltą. Zgodnie z paradoksalną logiką, która zawsze rządziła historią tej ziemi, gdy wyspę podbiła obca armia, a ściślej wojska amerykańskie, na nowo odkryto jej strategiczne znaczenie. Obecnie Sycylia wraz ze swoimi szesnastoma bazami NATO stanowi jeden z głównych bastionów amerykańskiego imperium, którego zadaniem jest umacnianie sojuszu poprzez budowę naziemnej stacji MUOS (satelitarnego super-systemu telekomunikacji marynarki wojennej Stanów Zjednoczonych) w Niscemi oraz przekształcenie bazy lotniczej Sigonella w główną bazę operacyjną AGS – programu połączonych sił zbrojnych NATO, mającego na celu nadzorowanie terytorium z powietrza. Uwaga, jaką Waszyngton darzy Sycylię, sięga odległych czasów, kiedy to, nazajutrz po kapitulacji Włoch w Cassibile, w pewnych sektorach amerykańskiej administracji, powiązanych z sycylijską mafią, zaczęto rozważać możliwość odłączenia się wyspy od Włoch, by następnie przyłączyć ją, jako 50. stan, do USA. Podobna idea zrodziła się także kilkadziesiąt lat później, gdy pułkownik Muammar Kaddafi snuł plany o przyłączeniu Sycylii do libijskiej Dżamahirijji.

Szczególne zainteresowanie, jakim cieszy się Sycylia, nie jest więc zjawiskiem nowym, na przestrzeni wieków połączyło wiele znacznie różniących się od siebie ludów. Stoi ono jednak w opozycji do nikłej świadomości Sycylijczyków na temat strategicznego znaczenia rodzimej ziemi, której interesy często przedstawia się jako drugorzędne względem interesów światowych mocarstw. Wzmożona aktywność militarna w basenie Morza Śródziemnego, nie tylko amerykańska, ale także rosyjska i, w mniejszym stopniu, chińska, wskazują na to, że Sycylia posiada wszystkie niezbędne karty, by odegrać główną rolę w ponownym zdefiniowaniu równowagi sił na świecie, począwszy od tej części globu. Jednak, by stało się to możliwe, włoska klasa rządząca musi wziąć pod uwagę interesy Włoch, nie jako siły wyłącznie europejskiej, lecz właściwie euroafrykańskiej, którą kraj ten zawdzięcza właśnie swojemu małemu (a zarazem wielkiemu) kontynentowi – Sycylii.

 Giovanni Valvo jest niezależnym analitykiem geopolitycznym wyspecjalizowanym w sprawach eurazjatyckich.

(tłumaczenie z języka włoskiego: Marzena Pałys)
Tłumaczenie artykułu ukazało się na portalu geopolityka.org

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UCRAINA: COME LA RUSSIA PUÒ VINCERE PERDENDO

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Chiunque abbia una qualche dimestichezza con il gioco del bridge sa come, in questo gioco, sia possibile vincere anche perdendo. Prima della partita, infatti, ad una delle due coppie di giocatori viene dato un contratto da rispettare, consistente in un numero di prese da compiere per poter vincere, e carte migliori, che almeno in teoria dovrebbero consentirle di raggiungere l’obiettivo. Qualora l’altra coppia riuscisse a far compiere agli avversari meno prese rispetto a quanto avrebbero dovuto, la vittoria e i punti andrebbero a lei a prescindere dal numero di prese eseguite. Il gioco del bridge ha molti punti in comune con la geopolitica: quest’ultima, infatti, prevede dei contratti non dichiarati da rispettare, e il loro mancato rispetto, non di rado, è equivalente a una sconfitta, a prescindere dal risultato complessivo.

Nella storia geopolitica del Novecento, un caso esemplare di vincitore sconfitto è dato dalla Finlandia. Attaccato dall’Unione Sovietica in seguito al Patto Molotov-Ribbentrop, che nel 1939 assegnò il Paese alla Patria del Socialismo Reale assieme al trio baltico e ad alcuni territori all’epoca polacchi o romeni, l’anno successivo, a seguito di alcune sconfitte, il Paese scandinavo fu costretto a cedere all’URSS alcuni territori in Carelia. Nel 1941 la Finlandia, divenuta alleata dei nazisti, dichiarò a sua volta guerra all’Unione Sovietica, al fine di recuperare i territori perduti e annettere i territori sovietici con forti minoranze etniche ugro-finniche (Grande Finlandia), ma una seconda sconfitta militare, tre anni più tardi, comportò per il Paese non solo la rinuncia definitiva alla Carelia meridionale, ma anche la cessione della zona di Petsamo (l’attuale Pečenga), in precedenza suo unico sbocco sull’Artico, e la concessione decennale di una base navale nei pressi di Helsinki.

Eppure la Finlandia viene oggi ricordata come un Paese vincitore. Malgrado la sua netta inferiorità militare rispetto al suo vicino orientale, dopotutto, il Paese scandinavo è riuscito ad evitare l’occupazione militare, e ciò gli ha consentito di evitare tanto la sorte delle Repubbliche Baltiche, annesse all’Unione Sovietica, quanto quello di quei Paesi dell’Europa centro-orientale nei quali la liberazione dal giogo nazista ha significato l’instaurazione di regimi comunisti. Il destino della Finlandia è stato piuttosto la sua “finlandizzazione”, ossia una relativa perdita di autonomia in politica estera in cambio del mantenimento di un sistema politico democratico, di un’economia di libero mercato e di stretti rapporti commerciali con l’URSS. Tutto ciò ha consentito al Paese di iniziare una fase di forte crescita economica che lo avrebbe portato ad allinearsi al resto della Scandinavia.

Il paragone tra l’attuale crisi ucraina e la Seconda Guerra Mondiale in Finlandia può sembrare a prima vista azzardato. Sebbene quella tra la Russia e gli Stati Uniti sia chiaramente una guerra asimmetrica, la sproporzione tra i due Paesi in termini di potenza è nettamente inferiore a quella a suo tempo esistente tra Finlandia e Unione Sovietica. Inoltre, a differenza della Finlandia, la Russia di oggi non vive minacce dirette alla propria indipendenza: sebbene a Riga, Varsavia e Washington non manchi chi spera in una frantumazione della Grande Madre (1), chi conta si “accontenta” della caduta di Putin, della perdita da parte della Russia di ogni influenza dominante sui propri vicini occidentali e di una sua finlandizzazione in senso filoccidentale. Inutile aggiungere che, per i falchi dell’antiputinismo, il paragone tra Putin e Mannerheim suona nel migliore dei casi come una bestemmia. Eppure le comunanze sono non meno importanti delle differenze. La contesa tra Russia e Stati Uniti, al pari di quella tra Finlandia e URSS degli anni Quaranta, è anche una lotta tra una forma di internazionalismo e una forma di pannazionalismo. È difficile non accorgersi dei traits d’union tra l’universalismo comunista e quello libertario-occidentalizzante oggi dominante, così come non mancano i punti in comune tra le mire russe sulla Crimea e quelle finniche sulla Carelia orientale. Tuttavia ad unire i due conflitti è soprattutto l’esito che oggi appare più probabile: malgrado l’Occidente disponga di carte migliori, la buona capacità della Russia di giocare le proprie fa sì che quest’ultima abbia buone chances di concludere la partita, se non da vincitrice, quanto meno da vincitrice sconfitta.

Per capire il perché di questa possibilità, è necessario fare qualche passo indietro. La crisi ucraina è iniziata ufficialmente il 21 novembre 2013, quando l’allora Primo Ministro ucraino Nikolaj (Mykola) Azarov ha annunciato la sua decisione di sottoscrivere un Accordo di Associazione con l’Unione Europea – che, tra le tante cose, avrebbe creato un’area di libero scambio tra Ucraina e UE dalla quale sarebbero però rimasti esclusi i prodotti agricoli – al fine di rafforzare i legami con la Russia e gli altri Paesi della CSI, ma le tensioni covavano da molto tempo. Se gli anni Duemila si sono chiusi all’insegna del “reset” tra USA e Russia, che sotto la guida di Obama e Medvedev sembravano sul punto di chiudere definitivamente l’epoca della Guerra Fredda per creare qualcosa di simile ad un’alleanza, nei primi anni Dieci le Primavere Arabe, il ritorno di Putin al Cremlino e l’ostilità dichiarata per lo Zar da parte dell’establishment a stelle e strisce hanno iniziato a far vacillare i rapporti tra i due Paesi. Il caso Snowden, le divergenze sulla guerra civile siriana e l’imminente lancio dell’Unione Economica Eurasiatica, paragonata da Hillary Clinton a “una nuova Unione Sovietica”, hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco, e alla vigilia di quel fatale 21 novembre 2013, sebbene ancora non si parlasse di una “nuova Guerra Fredda”, i rapporti tra il Cremlino e la Casa Bianca erano già piuttosto tesi.

Le proteste ucraine contro il passo indietro di Azarov sull’Accordo di Associazione, inizialmente pacifiche e circoscritte ma poi violente e massicce, hanno goduto dell’immediato supporto degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei, in primis Polonia e Repubbliche Baltiche ma anche di una Germania che, malgrado i suoi forti rapporti economici con la Russia, ha abbandonato quella pragmatica Ostpolitik che ha costituito il fondamento dei rapporti sovietico-tedeschi – e poi russo-tedeschi – da Brandt a Schröder per assumere una linea più schiettamente moralistica che, secondo l’analista russo Dmitrij Trenin, è legata anche alle ambizioni di Berlino di superare la tradizionale diarchia franco-tedesca e proporsi come Paese leader dell’Unione Europea (2). È molto difficile diventare il Paese leader dell’Unione Europea senza il supporto di Washington e di realtà emergenti – e tradizionalmente russofobe – quali la Polonia e il terzetto baltico, e ciò ha avuto delle inevitabili conseguenze sui rapporti con la Russia. Durante Euromaidan i leaders occidentali hanno spesso criticato il Cremlino per aver percepito la crisi ucraina come una sfida geopolitica alla Russia da parte di Stati Uniti e Unione Europea, cercando di rassicurarlo sull’assenza di intenzioni antirusse; ma le azioni dei vari Obama, Merkel, Kerry e Ashton non facevano che confermare i sospetti moscoviti, e una contesa geopolitica è un gioco a somma zero. Né hanno contribuito a rasserenare gli animi le polemiche sulle “minoranze sessuali”, che proprio nei giorni più caldi di Maidan hanno implicato ripetuti inviti al boicottaggio delle Olimpiadi Invernali di Soči, l’assenza di quasi tutti i leaders occidentali alla cerimonia inaugurale delle stesse (una notevole eccezione, sotto questo punto di vista, fu costituita dall’allora Primo Ministro italiano Enrico Letta) e la decisione di Obama di mettere due atlete lesbiche alla guida della delegazione statunitense. Quella che per gli attivisti LGBT e molti governi occidentali è una battaglia per i diritti umani, per il Cremlino è soltanto un pretesto per mettere la Russia in cattiva luce oltre che una forma di imperialismo culturale. Ma il punto di non ritorno è stato il 22 febbraio 2014, quando, in una sorta di congiura di palazzo (3), il Presidente Janukovič è stato dichiarato decaduto dal Parlamento e sostituito con un deputato del partito della Tymošenko. Stessa sorte è toccata qualche giorno dopo al governo Arbuzov (4), rimpiazzato da un nuovo esecutivo composto dai partiti che hanno guidato il Maidan, tra cui l’ultranazionalista Svoboda. Per il Cremlino è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Tralasciamo, a questo punto, i tragici eventi seguiti alla Rivoluzione Ucraina – la crisi in Crimea, la Guerra del Donbass, la guerra non convenzionale che Russia e Occidente stanno combattendo a colpi di sanzioni economiche e propaganda e quell’atmosfera di generale tensione da molti ribattezzata come la nuova Guerra Fredda – per spostare lo sguardo su un evento che, come e ancor più delle Olimpiadi di Soči, avrebbe dovuto consegnare l’immagine di un Cremlino isolato sul piano internazionale, o comunque tagliato fuori dall’Occidente: le celebrazioni per il 70° anniversario della fine di quella Grande Guerra Patriottica che da sempre occupa il posto d’onore nella mitologia storica nazionale, avvenute il 9 maggio 2015. Presenze e assenze, dopotutto, sembrano essere l’emblema del compimento di un processo che andava avanti già da diversi anni ma che ha vissuto una decisa accelerazione dopo lo scoppio della crisi ucraina: il progressivo riorientamento geopolitico del Paese verso Est. Da un lato un Occidente sostanzialmente assente, dall’altro un non-Occidente (5) presente con personalità del calibro di Xi Jinping, Abdel Fattah al-Sisi e Nicolas Maduro. Ciò, però, costituisce solo una parte del quadro: nei giorni successivi, infatti, alcuni pezzi importanti di quello stesso Occidente che aveva boicottato le celebrazioni sono tornati a Canossa. All’indomani della parata, infatti, Angela Merkel si è recata in visita a Mosca per incontrare Putin, e il 12 maggio è toccato al Segretario di Stato statunitense John Kerry prendere il volo per Soči per incontrare Putin e Lavrov. Entrambi, nel corso delle loro visite, hanno ricordato il ruolo dell’Armata Rossa nella sconfitta del nazismo, toccando una corda emotiva tuttora molto importante per il popolo russo, e ciò, assieme alle loro dichiarazioni concilianti, sembra essere sintomatico di una certa volontà di trovare quanto prima una soluzione alla crisi.

Particolarmente significativa è stata la visita di Kerry con annesso incontro con Putin, non solo perché rappresenta la prima in territorio russo di un alto funzionario statunitense dallo scoppio della crisi ucraina, ma anche in quanto totalmente inattesa. I più hanno sottolineato la presenza di forti interessi comuni tra Russia e Stati Uniti, in primis sulla lotta ad uno Stato Islamico tutt’altro che sconfitto e sulla questione del nucleare iraniano, in un contesto in cui la prospettiva di un Iran dotato di armi nucleari non viene vista di buon occhio neanche dalla Russia (6). Tuttavia non si può trascurare il ruolo di almeno altri quattro fattori. Il primo è il fattore C (Cina): i rapporti tra i due Paesi, forti già prima della crisi ucraina, hanno vissuto una notevole accelerazione dopo lo scoppio della stessa, complici le sanzioni contro la Russia e la comune ostilità nei confronti del predominio statunitense. In economia, a differenza che nella geopolitica, le relazioni tendono a svilupparsi secondo logiche di win-win, ed è proprio puntando su questo fattore che il fu Celeste Impero sta puntellando la propria ascesa geopolitica. Ciò vale anche nei rapporti con la Russia, e non è un caso che i due Paesi non vedano in termini antagonistici i loro piani strategici, come dimostra l’accordo per coordinare lo sviluppo dell’Unione Economica Eurasiatica e della Nuova Via della Seta voluta da Pechino, sottoscritto durante la visita di Xi Jinping a Mosca nel maggio scorso (7). Il secondo è il rischio di una pace separata tra Russia e Unione Europea, cosa che richiede un ruolo attivo di una Germania che ha assunto la leadership europea anche nei rapporti con la Russia. Secondo George Friedman, Direttore dell’agenzia di intelligence Stratfor, uno dei principali moventi delle mosse degli Stati Uniti in Ucraina è stato quello di impedire la formazione di un asse economico e strategico tra Russia ed Unione Europea basato sulla condivisione di risorse naturali e hard power da un lato e di capitali, tecnologie e soft power dall’altro (8). La Germania, e in generale l’Europa, è di gran lunga più interessata a una pacificazione dell’Ucraina e a una normalizzazione dei rapporti con il Cremlino di quanto non lo possano essere i suoi partner d’Oltreatlantico, e una pace separata implicherebbe una forte perdita di credibilità degli States nonché, agli occhi dei non-Occidentali, la fine del mito dell’unità di un Occidente che in più occasioni, anche recentemente, ha mostrato forti divergenze.

La terza è il sostanziale fallimento della politica delle sanzioni. L’obiettivo delle stesse è stato sin dall’inizio politico, e l’imposizione di sanzioni economiche era legato alla speranza che, in un contesto in cui la popolarità di Putin è dovuta anche, se non soprattutto, al significativo miglioramento delle condizioni di vita della popolazione russa negli anni della sua presidenza (la Russia è oggi annoverata dalla Banca Mondiale tra i Paesi ad alto reddito (9)), un peggioramento delle condizioni economiche del Paese avrebbe spinto i Russi a rivoltarsi contro il loro Presidente. Ciò, tuttavia, presuppone un popolo russo sostanzialmente disinteressato alla crisi ucraina e guardante all’Occidente come a una sorta di giudice. Una logica chiaramente assurda, e chiunque abbia una conoscenza anche solo elementare della Russia e della sua cultura difficilmente sarà rimasto stupito del fatto che la politica occidentale verso Mosca abbia risvegliato i mai sopiti timori storici di un’invasione da ovest e aumentato in patria la popolarità di Putin, per il quale è stato sin troppo facile ergersi a paladino della riscossa nazionale e accusare l’Occidente di voler affossare la Russia. Viste le dichiarazioni intrise di Schadenfreude sullo stato dell’economia russa da parte di numerosi esponenti politici occidentali (soprattutto americani), dopotutto, non si può parlare di mera retorica putiniana. Ciò si ricollega a un ultimo punto: gli Stati Uniti, malgrado l’avanzata di potenze quali Cina e India e di attori non statali dichiaratamente ostili alle stelle e strisce, a cominciare dal fondamentalismo islamico, restano la prima potenza mondiale, ma la loro leadership morale è in crisi, e sono ormai in molti a vedere gli States come un giocatore che pretende di essere un arbitro.

È tuttavia ancora presto per festeggiare la fine della crisi ucraina. Il cessate il fuoco continua ad essere fragile, e da entrambi i fronti si registrano frequenti violazioni, specie nelle zone di Doneck e Mariupol; ma, più ancora delle violazioni del cessate il fuoco, ad essere particolarmente preoccupanti sono le motivazioni di fondo di Russia e Occidente. La prima, infatti, non punta a ridisegnare la mappa dell’Ucraina seguendo le linee di faglia etnico-culturali sulla falsa riga di quanto avvenuto, ad esempio, in Bosnia; se è vero che Putin punta a fare del Donbass una sorta di variante ucraina della Repubblica Serba di Bosnia, è anche vero che, a differenza che per la Jugoslavia di Milošević, a cui la Russia attuale è stata frequentemente paragonata, ciò per la Russia non costituisce il fine, ma soltanto un mezzo, laddove il fine è fare in modo che l’Occidente riconosca lo spazio ex-sovietico come una zona di influenza russa e l’Ucraina riconosca l’illusorietà dei suoi sogni europei. Allo stesso modo, l’Occidente non punta tanto a preservare l’Ucraina come Stato unitario, bensì ribadire la sua leadership globale, costringere la Russia ad accettare lo status di potenza di secondo piano a cui i Paesi occidentali, USA in primis, hanno cercato di relegarla sin dalla fine della Guerra Fredda e mandare un messaggio chiaro a tutti i rivali reali o potenziali degli States, a partire da una Cina che, anche per questo, non vuole vedere una Russia sconfitta. Indicative, sotto questo punto di vista, sono le recenti dichiarazioni di Angela Merkel secondo cui “non si parla di sfere di influenza nell’Europa del XXI secolo”: fine delle sfere di influenza, in concreto, significa riconoscimento della vittoria di un’area di influenza su un’altra, e la Merkel, con queste parole, ha di fatto abbracciato le motivazioni americane sulla crisi ucraina.

Probabilmente la tendenza generale sarà verso un rasserenamento, e nei prossimi mesi non è improbabile un alleggerimento delle sanzioni antirusse; ma, al momento, resta molto limitata la probabilità di raggiungere in tempi brevi quella Dayton in salsa ucraina da molti auspicata per mettere fine alla crisi che da ormai un anno e mezzo attanaglia il Paese dell’Europa Orientale. In Ucraina, a differenza che nella Bosnia-Erzegovina, la guerra non è solo il frutto avvelenato dello scontro tra nazionalismi reciprocamente ostili, ma scaturisce anche, e forse soprattutto, da questioni di natura geopolitica. È probabile, anzi, che quella in corso nel Donbass rimarrà una guerra a bassa intensità fino al verificarsi di almeno una di queste condizioni: un cambio di regime in Russia, un serio impegno pacificatore del governo ucraino e/o un cambiamento delle priorità geopolitiche dell’Occidente, soprattutto degli States. Una conclusione della guerra attraverso la caduta di Putin e l’insediamento di un governo filoccidentale al Cremlino costituisce l’obiettivo primario dell’Occidente, ma è da escludersi per i motivi già visti in precedenza. Per l’Occidente, anzi, la carta del cambio di regime è altamente rischiosa: come afferma il blogger Aleksej Naval’nyj, che pure non è certo un ammiratore dell’attuale Presidente russo, chiunque cerchi di sostituire Putin dovrà compiere mosse ancora più nette e decise di quelle dell’attuale Presidente russo per poter raggiungere la sua popolarità (10). Il verificarsi della seconda o della terza posizione, d’altro canto, darebbe alla Russia un forte potere negoziale; e, sebbene sia difficile prevedere i termini della pacificazione, è molto probabile che tra gli stessi ci saranno la neutralità dell’Ucraina, il riconoscimento dell’autorità delle Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk sul territorio da esse controllato, sia pure nel contesto dello Stato ucraino, e l’accettazione del ritorno della Crimea alla Russia – o perlomeno la non-opposizione allo stesso –. Ciò, per la Russia, costituirebbe una vittoria anche qualora il bilancio complessivo dovesse essere negativo. Per l’Occidente, invece, rispettare il contratto consiste nell’imporre alla Russia i propri termini di pace, al più con qualche concessione su temi secondari quali la questione linguistica. L’Occidente deve rispettare il contratto perché gioca con le carte migliori, e il mancato raggiungimento dell’obiettivo si trasformerebbe automaticamente in una sconfitta.

NOTE
1) In un articolo sul bimestrale di geopolitica The American Interest, ad esempio, l’analista statunitense di origini polacche Janusz Bugajski afferma che “è possibile indebolire la mano forte del Cremlino sostenendo un vero federalismo, il decentramento, i diritti delle minoranze, l’autodeterminazione delle varie regioni e i vari movimenti indipendentisti attivi in una Federazione Russa fin troppo estesa ma ancora allo stato embrionale” (fonte: http://www.the-american-interest.com/2014/09/01/russias-choice-putinism-or-progress/).
2) http://carnegie.ru/eurasiaoutlook/?fa=57511
3) Secondo la Costituzione ucraina, la procedura di impeachment del Presidente prevede una denuncia formale nei confronti dello stesso, l’approvazione della denuncia da parte della Corte Costituzionale e un successivo voto a maggioranza qualificata (3/4 del totale dei deputati, ossia non meno di 338 deputati) da parte della Verchovna Rada, il Parlamento ucraino, per ratificare la destituzione. La destituzione di Janukovič, avvenuta con un semplice voto della Rada con 328 voti favorevoli, è quindi da considerarsi illegale.
4) Sergej (Serhij) Arbuzov ha sostituito Azarov alla guida del governo ucraino il 28 gennaio 2014.
5) Va comunque precisato che, a dispetto di quanto vuole una certa retorica terzomondista, i Paesi non-occidentali non costituiscono un blocco compatto; al contrario, malgrado la possibile presenza di interessi convergenti, le differenze reciproche tra i Paesi non-occidentali hanno spesso un peso non inferiore a quelle tra questi ultimi e i Paesi occidentali.
6) D. Trenin, Post-Imperium: a Eurasian story, Carnegie Endowment for International Peace, Washington DC 2011, p. 125.
7) http://oilprice.com/Energy/Energy-General/Could-The-New-Silk-Road-End-Old-Geopolitical-Tensions.html
8) http://www.pandoratv.it/?p=3256
9) http://data.worldbank.org/about/country-and-lending-groups#High_income
10) http://www.forbes.com/sites/dougbandow/2015/05/11/ukraine-fight-flares-again-u-s-should-keep-arms-and-troops-at-home/4/

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LA DISCESA LIBERA DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA

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Le consultazioni elettorali avranno presto il sapore di una cena per pochi intimi. Nemmeno a livello locale i partiti possono più contare sulla loro vecchia e abbondante platea di elettori: i dati sull’affluenza delle recentissime elezioni regionali –sette regioni al voto spalmate sull’intero territorio nazionale, dal Veneto alla Campania- sono veramente significativi. Con facilità si deduce che oggi mezza Italia, delusa e indebolita dalla crisi, non va a votare. In alcuni regioni si è superata a fatica la soglia del 50%, in altre la si è appena sfiorata, in altre ancora non s’è nemmeno raggiunta; e le statistiche dicono che vi è stato un netto scatto di affluenza nelle ultime ore di apertura delle urne, quasi per commiserazione verso dati che appartengono davvero a una democrazia dimezzata. Quarant’anni fa, nel pieno degli anni Settanta di veraci passioni politiche e partiti quasi onnipotenti, l’ascesa vertiginosa del consenso verso i comunisti divenne realtà dopo un grande exploit alle elezioni regionali. In quel contesto votò oltre il 92% degli aventi diritto. Qualcuno dirà che erano altri tempi, che l’appartenenza politica aveva allora un vero significato, che la mobilitazione delle masse in quel decennio era parte integrante della vita pubblica e privata. Che dire allora delle elezioni del 2005, dove votò circa il 72% degli aventi diritto, e del 2005, appena cinque anni fa, dove si presentò ancora oltre il 64% degli elettori? Cosa giustifica un calo così drastico in un lasso di tempo così breve?

Non tutto si può ricondurre ai degradanti scandali che hanno colpito alcuni partiti nel corso dell’ultimo lustro. Noi italiani non siamo campioni di memoria e abbiamo la tendenza a rimuovere in fretta i cattivi ricordi. Si veda il risultato della Lega Nord, in crisi alle politiche del 2013 (4%) e alle europee dell’anno scorso (6%) e ora già risorta, non solo in termini percentuali ma anche assoluti: abbondantemente in doppia cifra quasi dappertutto, quando presente, persino in Toscana dove, pur non vincendo, ottiene un inaspettato 16%, e nelle Marche. Nemmeno si può imputare tutto il crollo di partecipazione all’infausto posizionamento della tornata elettorale, a ridosso della festività del 2 giugno, poiché per molte famiglie le vacanze, anche brevi, sono ogni anno e sempre di più un miraggio. No, la bassa affluenza è una tendenza che rivela un aumento di consapevolezza di una democrazia italiana in fase di decomposizione acuta.

Non si può infatti infilare sempre la folla degli astensionisti nel calderone dell’indifferenza. Chi si astiene quasi mai è un semplice conformista, aderente alle volontà altrui. Più spesso il non voto è una dimostrazione di interessato dissenso. Non solo dissenso nei confronti dei partiti, tutti i partiti, che sono in crisi da trent’anni e che pur pretendono ancora di rappresentare le grandi maggioranze in modo tradizionale. Ma dissenso verso un modello generale di gestione dell’apparato amministrativo, quasi mai all’altezza nel soddisfacimento dei veri bisogni comuni, e che ancora ai partiti fa troppo riferimento con logiche spesso antitetiche all’efficienza e alla meritocrazia. Dalle comunità locali, linfa insostituibile del Paese, potrebbe un giorno nascere un nuovo modello di amministrazione, innovativo nel rapporto fra il pubblico e il privato, slegato dal clientelismo, applicabile poi anche allo Stato nazionale? Sì, a patto che queste si liberino dei partiti e della loro influenza, e che si costruisca un federalismo autentico, architettato per soddisfare concretamente le necessità del cittadino libero inserito nel suo contesto pubblico –la regione, la città, il villaggio- senza le ingerenze tipiche dello Stato odierno, accentratore e onnivoro, incapace di limitarsi. Restituire ad ambiti essenziali della vita, quello culturale in primis, l’autonomia necessaria per esprimersi con la dovuta libertà, è un bisogno vero. Credo che nel mondo dell’astensionismo sia vivo, fondamentalmente, un sonoro disprezzo, ben comprensibile, per ciò che i partiti si sono ridotti a rappresentare nell’epoca del tramonto ideologico, cioè una serie di burocrati intrallazzati e mantenuti, alla meglio scaltri figuranti, alla peggio inetti “figli di”; raramente seri e competenti. In più in alcune zone d’Italia non solo essi non garantiscono la dovuta efficienza amministrativa, ma scialacquano denari pubblici e privati e patteggiano con le cosche, le quali mantengono il vero controllo sull’economia (l’enorme disaffezione per il voto al Sud è anche un grido contro la politica corrotta, di chi sa dove è concentrato il vero potere). È auspicabile che oltre a quel disprezzo però vi sia l’attesa produttiva di qualcosa, di una vera novità, fuori dagli schemi tradizionali ai quali decenni di partitocrazia ci hanno abituato.

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