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LE “OPINIONI ERETICHE” DI MICHELE RALLO

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Sarà pure vero che, come insegnavano già gli antichi greci, l’opinione non è una conoscenza certa. E sarà – ma non ci credo – che esistono alcuni “liberali” che darebbero la loro vita perché anche le idee con le quali non sono d’accordo possano essere espresse.

Fatto sta che le “opinioni eretiche” di Michele Rallo contenute in un volume che raccoglie i suoi “zibaldoni” pubblicati dal 2011 al 2013 sulla stampa trapanese meriterebbero di circolare più di quanto non l’abbiano già fatto perché contengono un grado di “verità” superiore a quelle mediamente circolanti sui medesimi argomenti trattati.
Idee chiare, dirette ed appassionate, il che non guasta in tempi d’ipocrite “oggettività” e “scientificità”, espresse con un linguaggio accessibile anche al proverbiale “uomo della strada”. Il quale, purtroppo, non avendo idee “sue” ma abbeverandosi a quelle dei famosi ed “autorevoli opinionisti” viene da questi abituato a pensare a tutto quel che non dovrebbe interessarlo, o ad interpretare ciò che invece lo tocca direttamente in base a categorie e criteri di giudizio falsati e distorti.

In altre parole, “economisti”, “sociologi” e “politologi” di casa sui “grandi giornali”, ben selezionati a monte, svolgono il compito di rendere alternativamente “complicato” quello che, in realtà, è assai semplice da capire; ma anche estremamente “banale” quello che, al contrario, necessiterebbe d’una analisi un tantino più approfondita.

In queste Opinioni e rievocazioni, ripubblicate suddivise per argomenti a cura del Centro Provinciale Studi “Giulio Pastore” di Trapani (Via Corollai 8 – 91100 Trapani), il lettore non troverà le solite banalità e parole d’ordine messe in giro dal circo mediatico in materia di “Europa”, “globalizzazione”, “immigrazione” e “primavere arabe”, tanto per citare alcuni dei temi sui quali Michele Rallo predilige intervenire.
Non servono paginate interminabili per spiegare lo scenario nel quale il suddetto “uomo della strada” si ritrova immerso fino al collo, ovvero quello della “crisi”. Bastano infatti due-tre pagine, che con cadenza regolare ed insistenza battano sempre sui soliti tasti, perché quelle sono le ‘piaghe’ nelle quali l’onesto commentatore mosso da amor di Patria e di Verità dovrebbe ficcare il ‘dito’.
Per questo Rallo insiste in maniera ‘ossessiva’ sulla questione della “sovranità”. Perché a quella è stata disabituata in ogni modo la maggioranza degli italiani.

La truffa del cosiddetto “debito pubblico”, le “riforme” invocate e perseguite da “destra” e “sinistra”, gli oramai regolari “scandali della politica”, la “esportazione della democrazia”, la “politica dell’accoglienza” ed il “terrorismo islamico” sono così, nella prosa dell’Autore, le sfaccettature di quella “crisi” prescritta da chi ha tutto l’interesse a cacciare gli Italiani (e gli europei tutti) in un marasma di durata indefinita al termine del quale, quando e se si placherà, vi sarà una parodia di “pace perpetua” sotto le insegne del mondo ridotto a “mercato” e dell’uomo, conseguentemente, trattato alla stregua di una merce.

Da dove parta quello che a tutti gli effetti è un piano perseguito con particolare metodicità e senza esclusione di colpi Michele Rallo lo ripete in continuazione. Si tratta del dominio da imporre su ogni popolo, incluso il nostro, da parte delle elite finanziarie che si servono in particolare degli Stati Uniti come braccio armato per imporre una “globalizzazione” che altro non è se non l’imposizione di un modello disumano a tutto vantaggio di pochi e a detrimento di molti.

Quei molti che, felici di andare a votare per zuppa o pan bagnato, non sospettano minimamente che i giochi, al di là delle fortune di questo o quel politico, si decidano in altre sedi rispetto a quelle istituzionali della “democrazia”.

Una “democrazia” che l’Autore stesso, Deputato al Parlamento della Repubblica dal 1994 al 2001, ha potuto saggiare quanto sia vuota e parolaia quando nei fatti tutto il potere risiede nelle mani di pochi “signori del denaro” che, per giunta, lungi dal palesarsi per quello che sono mettono su un teatrino ad uso e consumo della limitata capacità di comprensione del poveraccio-medio che, manipolato da “opinionisti” di professione pagati profumatamente ed illuso ogni tot anni con la nuova edizione dei “ludi elettorali”, si spera possa almeno procurarsi una copia di questo libro per cominciare a riordinare le idee su quanto concerne il bene suo e di tutti i suoi connazionali.

Michele Rallo, Opinioni e rievocazioni. Tre anni di collaborazione alla stampa trapanese (2011-2013), Centro Provinciale Studi “Giulio Pastore”, Trapani 2014, pp. 358.

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LE ELEZIONI GENERALI TURCHE E IL QUADRO GEOPOLITICO

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Il quadro politico uscito dalle elezioni appena svoltesi presenta una Turchia più frammentata e instabile. L’AKP – perdendo circa il 9 % dei voti rispetto alla precedente tornata elettorale del 2011 – segna il passo anche se – è bene ricordarlo – un riflusso dopo tre consecutive travolgenti vittorie (2002: 34, 4 %; 2007: 46,6 %; 2011: 49,8 %) è un fenomeno abbastanza fisiologico e in un certo senso prevedibile.

Non ne approfitta il kemalista CHP, mentre sono in crescita il nazionalista MHP e soprattutto l’HDP, partito originariamente identitario curdo ma di fatto aperto all’intera realtà dell’opposizione turca e che in questo ruolo si è posto come alternativa al CHP. L’HDP supera molto bene la soglia del 10 % riuscendo pertanto a entrare in Parlamento.

Le previsioni circa la formazione della nuova compagine governativa spaziano dalla costituzione di un governo di
minoranza AKP a una possibile alleanza AKP-MHP fino a una ripetizione delle elezioni, nel caso entro 45 giorni non si riuscisse a dar vita al nuovo esecutivo.

Al di là delle consuete questioni dibattute a oltranza sulla stampa occidentale (l’”autoritarismo” e la perenne contrapposizione fra islamici e laici, questi ultimi ritenuti meritevoli di ogni elogio) quanto ha contato nel voto elettorale il ruolo internazionale svolto dalla Turchia negli ultimi quattro anni ? Abbastanza in riferimento alla disastrosa gestione della crisi siriana, in quanto l’attiva collaborazione prestata dal governo di Ankara alla deflagrazione dello Stato siriano ha avuto e ha pesantissime ripercussioni sulle popolazioni del sudest, ossia proprio quelle da cui l’HDP ha raccolto un voto di protesta plebiscitario; una sensazione di malessere diffuso per la tragica situazione in corso nel sudest – la cui evoluzione è sempre più preoccupante e incerta – è del resto ben avvertibile in tutto il Paese.

Meno hanno senz’altro pesato altri aspetti del nuovo – rispetto al 2011 – corso geopolitico di Ankara (come i peggiorati e quantomeno problematici rapporti con la Russia, l’Iran e lo stesso Iraq), le cui conseguenze pratiche sono ancora lontane dal verificarsi e dall’essere avvertite.

L’instabilità turca – che rientra del resto in quella prospettiva di generale indebolimento e di “balcanizzazione” del Vicino Oriente favorita, consapevolmente o no, dal mondo occidentale- comprende anche atteggiamenti in controtendenza rispetto alla deficitaria e sconsiderata politica sulla Siria perseguita dal governo Davutoglu: così in aprile l’incontro fra Erdogan e Rohani a Teheran ha rappresentato un punto di attenzione e reciproca considerazione fra Turchia e Iran e forse un’intesa di collaborazione per risolvere la grave emergenza nello Yemen e i bombardamenti sauditi contro i “ribelli” sciiti.

In questo contesto particolarmente interessante si presenta la possibilità di un’intesa turco-iraniana nella fornitura di gas al Vecchio Continente:

http://it.sputniknews.com/economia/20150603/489277.html

Intanto il ministro della Difesa Yılmaz ha preannunciato la possibile adozione di uno scudo antimissilistico indipendente e non integrato alla NATO, alla cui predisposizione partecipa attivamente la Cina; la compagnia cinese suscettibile di essere prescelta è inserita nella “lista nera” statunitense e soggetta a sanzioni da parte di Washington. Tutto ciò acquisterà un senso preciso solo se la Turchia saprà rivestire un ruolo più forte e autonomo nei confronti delle continue pressioni subite da NATO e superpotenza atlantica.

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ITALIA E IRAN, UN RAPPORTO DA CONSOLIDARE

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Intervista ad Alì Pourmarjan a cura di Emanuele Bossi (1)

D. Cosa si può dire della diffusione della cultura iraniana in Italia?

R. Risale al 1958(2) la stesura di un protocollo d’intesa culturale, scientifico e didattico regolato da accordi bilaterali tra l’Italia e l’Iran per lo scambio culturale e scientifico tra i due paesi, che ancora oggi è in vigore(3). Dopo questo protocollo, il programma esecutivo è stato firmato diverse volte dalle due parti. Storicamente l’Italia non ha un atteggiamento ostativo nei confronti dei progetti culturali iraniani sul suo territorio. Esistono infatti 400 anni di storia di rapporti culturali più o meno intensi tra le due nazioni(4). Anzi, i rapporti sono stati prima di tutto culturali e poi economici e politici. Intellettuali e artisti provenienti dai due paesi hanno da sempre intrecciato scambi, rapporti e spostamenti. Quella italiana e quella iraniana sono due civiltà antiche (l’Iran è culla della civiltà d’Oriente, l’Italia della civiltà romana), per cui è normale che i due Paesi siano propensi allo scambio ed al contatto. I rapporti economici politici e culturali sono, infatti, soddisfacenti. Molto fervida è per esempio la collaborazione iraniana con archeologi e intellettuali italiani. Di contro, molti docenti iraniani sono stati invitati a portare il loro sapere in Italia(5). Sono attivi programmi di scambi studenteschi e di docenti, lo studio delle rispettive lingue nazionali(6) è costante ed incentivato(7). Il fatto culturale sta alla base dei rapporti politici e non viceversa, per cui non si può dire che sia stato influenzato negativamente dall’appartenenza dell’Italia all’area atlantista. L’Iran intende sfruttare gli ottimi rapporti stabiliti con l’Italia per consolidare i propri rapporti culturali anche con il resto dell’Unione Europea; quindi anche il mondo istituzionale, e non solo quello intellettuale, è propenso ed interessato a farsi coinvolgere nell’ottica dello scambio culturale. Per esempio, sempre per quanto concerne l’Italia, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo durante il governo Letta (28 aprile 2013 – 22 febbraio 2014), on. Massimo Bray, è stato il primo ministro occidentale in materia di cultura ad andare in Iran dopo otto anni, nel gennaio 2014. Positivamente influenzato dall’ambiente iraniano, che conosceva poco, ha potuto smentire i luoghi comuni sull’Iran, approfondendo in maniera oggettiva ed autonoma alcuni aspetti principali e precipui della cultura iraniana(8).

D. Qual è la situazione in cui operano i mezzi di comunicazione iraniani?

R. Giornali e media iraniani hanno tutti un regolamento etico statutario basato su specifici regolamenti costituzionali presenti nella Costituzione Iraniana, voluta dal popolo e da esso sostenuta tramite suffragio, con un numero di voti a favore pari al 98,5% dei votanti(9). Possiamo quindi considerare la Costituzione e tutte le sue emanazioni una sintesi della volontà del popolo iraniano(10). In questo caso la legge sancisce la libertà di stampa, purché non vengano infrante alcune leggi specifiche, per esempio quelle che vietano di trattare temi di sesso e violenza(11), o di offendere in alcun modo una qualsiasi delle tre religioni abramiche: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Gli organi supremi dello stato vigilano attraverso tribunali speciali sul rispetto delle poche ma perentorie leggi, le quali tengono conto della legge islamica, la shari’a. Nel campo dei media il numero dei divieti è molto inferiore a quello delle attività concesse. Forse gli occidentali potranno considerare strani o eccessivi alcuni limiti, che sono perfettamente in linea con la sensibilità e con l’etica del popolo persiano nonché con la religione islamica, maggioritaria in Iran. Noi abbiamo il nostro modo di intendere la parola “limite” e riteniamo che i limiti imposti ai media siano un bene per il popolo; i genitori infatti li approvano per salvaguardare l’integrità morale e intellettuale dei loro figli. Qualsiasi persona munita di scarse difese, come un bambino o un adulto con difficoltà mentali, può tranquillamente guardare i programmi televisivi iraniani senza il controllo di un supervisore e senza essere influenzata negativamente o sconvolta(12); la misura ha particolare rilievo se si considera la grande maggioranza di giovani nella popolazione iraniana. Affinché possa essere mantenuto un controllo efficiente sulle produzioni dei media nazionali, l’ordinamento iraniano stabilisce che questi siano pubblici; l’impresa privata ha un regolamento particolare diverso. I media vanno controllati per la sicurezza della società e allo scopo di proteggerla da quelle influenze esterne che possono suggerire comportamenti estranei alla nostra cultura. Ecco il perché dell’esistenza di commissioni di controllo, come quella sulla stampa.
Al di là della questione morale, però, esiste anche un controllo della stampa sull’attività politica del governo e finalizzata a rispettare la neutralità dei commenti. Quest’attività di inchiesta e informazione è svolta con notevole senso critico da parte degli organi di stampa, che godono di una sostanziale libertà di critica verso i tre poteri dello Stato. La stampa iraniana è un osservatore attento ed imparziale. Bisogna considerare che i partiti iraniani sono oltre trenta(13), anche se sono i partiti politici religiosi(14) quelli in grado di influenzare veramente la vita politica iraniana; sono partiti di orientamento religioso con idee differenti circa gli assetti istituzionali e politici iraniani. Tuttavia l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra molto più sui candidati che non loro partiti. La cultura politica in Iran è diversa da quella italiana, dove è l’adesione al partito ad essere considerata fondamentale; in Iran si tende a valutare di più il candidato.

D. Cosa sta facendo l’Iran per sopperire alla carenza di informazione imparziale ed esaustiva sulla sua situazione interna e sulla crisi siriana(15)?

R. Le sanzioni nei confronti dell’Iran risalgono a 35 anni fa, ovvero al periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Islamica. Prima di tutto abbiamo iniziato a subire sanzioni contro le comunicazioni satellitari, paradossalmente ancor prima di avere un satellite per le comunicazioni(16). L’Iran ha molti canali televisivi in lingua araba(17) e in altre lingue, ma le trasmissioni di alcuni di essi sono molto limitate in Occidente, a causa delle sanzioni imposte ingiustamente dagli USA anche per l’Europa. Tuttavia alcuni canali satellitari come Press Tv ed Al-Alam trasmettono la realtà iraniana al mondo, anche se, data l’aggressione mediatica dell’Occidente contro l’Iran, in Occidente vengono diffuse false informazioni, finché attraverso i canali neutri iraniani a volte abbiamo la possibilità di informare i popoli occidentali sulla situazione mediorientale e iraniana secondo il nostro punto di vista(18).

D. In Occidente un tema di attualità riguarda la sessualità e le questioni di genere, nonché il cambiamento di sesso: cosa ne pensate in Iran?

R. Cominciamo col dire che alcuni tra i medici più importanti negli USA e in Europa sono iraniani, come per esempio il presidente dei neurologi europei, e che in Iran si possono svolgere in piena sicurezza interventi chirurgici tra i più invasivi e complessi, come per esempio anche il cambiamento di sesso. Esistono pochi casi in cui in cui i pazienti iraniani devono essere operati all’estero ed è allora che il ministero della salute si attiva per provvedere alle spese. Esiste inoltre una associazione medica italo-iraniana per lo scambio di informazioni, banche dati, esperienze e le cure reciproche dei pazienti, la quale opera secondo l’ottica del “nessuno escluso” dal sistema sanitario. Dati questi presupposti dobbiamo chiarire che l’Islam sciita, assolutamente maggioritario in Iran, è capace di rispondere ad ogni genere di esigenza dell’uomo relativa alla sua relazione in società, come per esempio il cambio di genere. Considerandolo alla stregua di un fenomeno sociale, lo analizza e propone le soluzioni pratiche per risolvere questo problema.
Comprendere i fenomeni sociali significa anche adattarli alle esigenze dell’individuo e della collettività(19). Quanto al fenomeno dell’omosessualità, questo tema è spesso utilizzato dalle potenze a noi avverse per indebolire la nostra nazione. Si cerca di influenzare i nostri costumi, legati ad un’idea pudica e riservata della sessualità, che noi consideriamo un valore ed un punto di forza; si cerca di sminuire il nostro popolo, presentandolo come arretrato e fondamentalista solo perché non accetta il libertinaggio(20) occidentale e lo ritiene contrario ai valori morali. Si tratta di un tentativo di colpire la cultura e la legge islamica, di far passare la religione come un ostacolo e quindi di criticare la società iraniana, che si basa sulla morale religiosa. I problemi legati alla sessualità richiedono comunque soluzioni giuridiche (e quindi religiose) e non politiche. Per quanto riguarda il cambiamento di sesso, questo viene accettato quando si può dire che una persona dimostra di soffrire un disagio psicologico nella situazione in cui è nata; tale disagio deve essere confermato attraverso il consulto medico e da un’altra commissione specialistica. Non viene accettato se si ritiene che si tratti di una decisione estemporanea, magari frutto di un condizionamento esterno.
Come ormai da anni anche l’Occidente ammette, la donna è al centro della società iraniana. Essa è figura presente ed attiva nel campo scientifico, accademico (dove le donne occupano una posizione numericamente elevata) e politico; la donna, presente nel governo e nel parlamento, può essere eletta per posizioni esecutive di rilievo, giudiziario e anche militare. La donna nelle forze di polizia è particolarmente attiva per quanto riguarda la criminalità femminile e minorile: in generale non ha limiti di accesso alla società civile. L’Occidente concentra la sua attenzione sul velo (hijab)(21), che fa parte della cultura islamica. Il velo è previsto dalla Costituzione per le donne di ogni confessione. Il numero delle donne che non vorrebbero portarlo è minoritario; perciò, come nelle democrazie, non può decidere per la maggioranza. La nostra società segue criteri basati sulla maggioranza e le manifestazioni pubbliche sono considerate espressione della legge.

 

D. La crisi siriana. Qual è il ruolo dell’Iran nella sua soluzione?

R. La crisi siriana è causata dall’ingerenza occidentale in Siria. Da anni l’Occidente e gli USA in particolare tentano di indebolire gli assi portanti della Resistenza(22), considerata l’obiettivo numero uno nella loro partita in Vicino Oriente. Per colpirla hanno deciso di abbattere il governo di Bashar al-Assad, nostro alleato strategico(23). Credono che eliminarlo significhi abbattere la Resistenza. Assad è stato uno dei pochi capi di Stato del Vicino Oriente ad aver mantenuto da sempre rapporti con Hezbollah. Le potenze occidentali hanno commesso l’errore di usare la forza, elemento che non porta mai a nulla. Peraltro anche dal punto di vista della propaganda hanno commesso errori gravi, diventando pubblicamente vittime della loro incoerenza. Hanno tentato di far passare l’aggressione alla Siria come una rivolta popolare dei Siriani contro il loro governo; poi, quando la guerra civile è degenerata in tutta la sua cruenta realtà, si è cominciato a parlare di “crisi siriana” e degli ingestibili effetti collaterali a cui si è giunti. Era logico aspettarselo, visto l’ingaggio di molti mercenari provenienti da paesi stranieri(24) nemici della Siria(25), riforniti di armi americane e di denaro proveniente dai paesi del Golfo Persico(26). Questi ultimi non hanno problemi di denaro, potere o petrolio, che non finirà presto come alcuni credono. Il loro problema è la capacità di ragionamento: non hanno prospettive lungimiranti nella loro politica internazionale. Nemmeno in quella interna hanno agito bene, dando spazio all’estremismo religioso come fattore politico. Anche gli occidentali sono responsabili di aver istigato negli estremisti sentimenti di distruzione e azioni criminali che nulla hanno a che fare con la ragione: nemmeno nel passato peggiore della storia dei popoli arabo-islamici abbiamo assistito a comportamenti così barbari, basati sull’ignoranza. Gli americani, che dicevano di voler democratizzare il Medio Oriente, hanno appoggiato gente del genere; dopo gli attentati dell’undici settembre tutti i gruppi della galassia di Al-Qaida sono stati definiti terroristi, ma ora le stesse sigle vengono definite come portatrici di democrazia in Siria. Gli USA, a livello internazionale, stanno vivendo la situazione imbarazzante di essere finiti vittima delle loro stesse strategie; non possono più né sostenere né abbandonare questi terroristi e si trovano in un vicolo cieco, però praticamente sostengono i ribelli in Siria. Parlano della necessità di una soluzione politica e non militare della crisi siriana, vedendo che i ribelli stanno per essere sconfitti, mentre l’Iran sostiene da sempre la necessità di una soluzione politica e non militare della crisi siriana. Ora, bisogna prima fermare i terroristi, poi pensare alla soluzione dei problemi interni alla Siria. Il presidente Assad ha regolarmente vinto le elezioni politiche, anche se l’Occidente contesta il volere del popolo siriano democraticamente espresso27. Insomma, gli Stati Uniti e l’Occidente seguono una politica ambigua nei confronti della Siria, per poter raggiungere i loro obiettivi strategici nel Medio Oriente. Vogliono sconfiggere la Resistenza nella regione, promuovere la divisione nel mondo dell’Islam e rafforzare la loro presenza nella regione mediorientale. Cercano di servirsi di metodi non democratici per rovesciare il governo legittimo di Assad e sostengono i gruppi fondamentalisti, estremisti e terroristici; è proprio per questo che l’identità politica degli Stati Uniti viene fortemente messa sotto accusa.

D. Come definirebbe, in sintesi, la situazione geopolitica iraniana?

R. L’Iran vuole avere ottimi rapporti economici e politici con i paesi islamici confinanti; esso non ha nulla in contrario a convivere coi paesi arabi e con quelli limitrofi. Tuttavia l’Iran non intende avere relazioni con governi o gruppi estremisti, i quali a volte sono così forti da riuscire ad inficiare le relazioni tra governi. Ovviamente non ha relazioni con il regime oppressore che ha occupato Al-Quds, poiché non lo considera uno Stato che possa essere legalmente riconosciuto, non lo considera legittimo. Evidentemente ciò porterà sempre a problematiche internazionali e ad un perenne gelo diplomatico con l’entità sionista, la quale viene criticata nella sua sostanza strutturale anche da molti ebrei. Non per questo lo stato iraniano ha difficoltà a relazionarsi con persone di fede ebraica; anzi, in Iran ci sono circa 20.000 ebrei che convivono in modo del tutto soddisfacente con la popolazione islamica e coi seguaci di altre fedi e godono di una loro rappresentanza in parlamento.
L’Iran, con la politica “né Occidente né Oriente, solo Repubblica Islamica”, è contro ogni sistema di governo dittatoriale e agisce politicamente per eliminare le tensioni nella regione e per contrastare ogni ingerenza straniera nella regione. La Repubblica Islamica dell’Iran ha sostenuto da sempre il ruolo dei popoli per decidere il proprio destino. L’Iran per la sua posizione geografica cerca di avere relazioni amichevoli e improntate a rispetto reciproco con i paesi confinanti. Oggi i confini terrestri, marittimi ed aerei sono considerati sicuri e le forze dell’ordine dell’Iran hanno il controllo dei confini, sicché l’Iran viene considerato tra i paesi più sicuri del mondo, in particolare del Medio Oriente.
Il giurisperito islamico, che è componente principale del governo islamico dell’Iran, ha dato al governo di Tehran una stabilità politica che impedisce ogni genere di estremismo e di violenza nell’ambito nazionale ed internazionale e cerca di promuovere il pensiero religioso nella società.
L’Iran nella sua storia non ha mai attaccato o violato un altro paese; il pensiero sciita invita i fedeli alla pace ed alla convivenza con gli altri. Tutto ciò fa dell’Iran un paese sicuro e pacifico, anche perché il popolo di questa nazione ha una civiltà rigogliosa, è fedele al suo credo islamico e segue il giurisperito islamico.
Nonostante la propaganda mediatica dell’Occidente contro di noi, l’Iran ha trovato la sua stabilità politica ed economica, che l’ha portato a diventare anche un polo scientifico regionale.

* Alì Pourmarjan è direttore dell’Istituto Culturale presso l’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran. Emanuele Bossi, collaboratore del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo, è autore con Alì Mansour del saggio Nel cuore di Hezbollah (Anteo, 2012).

NOTE

1. Le note devono considerarsi approfondimenti dell’intervistatore successivi all’intervista, ovvero concetti non emersi in questa sede.
2. Il principale strumento normativo di riferimento è rappresentato dall’Accordo quadro di Cooperazione Culturale tra Italia e Iran, firmato nel 1958, e dal Protocollo Esecutivo del 2000. In tale ambito gli istituti culturali delle sedi diplomatiche assicurano in particolare:
– la promozione della conoscenza della cultura italiana nei suoi vari aspetti, artistici, scientifici, letterari e tecnologici;
– il mantenimento dei rapporti con le Autorità iraniane per l’attuazione dei programmi previsti dal Protocollo Esecutivo di Cooperazione Culturale;
– la cura dei rapporti con i Lettorati di italiano presso le Università in Iran;
– l’assegnazione delle borse di studio offerte annualmente dal Governo italiano;
– le informazioni sugli aspetti della vita e della cultura italiane. (Fonte: www.ambteheran.esteri.it).
3. Gli accordi bilaterali in materia di scambio culturale tra i due paesi sono oggi in fase di revisione. Esiste infatti la volontà congiunta di ampliarli ed intensificarli, ottemperando agli interessi dei rispettivi governi.
4. Il picco negativo nei rapporti tra le due nazioni si è registrato nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Islamica Iraniana del 1979. Nonostante il parziale raffreddamento diplomatico si è sempre conservata una sorta di stabilità nei rapporti tra i due paesi, un atteggiamento che ha saputo attendere il raffreddamento della situazione internazionale per poi riprendere senza disgregare tutto quel background di rapporti preesistenti. Per altro è interessante notare che di fatto le relazioni tra i due paesi non sono mai state interrotte nemmeno durante le crisi internazionali più profonde.
5. Tra tutti i paesi islamici l’Iran è senz’altro tra i più studiati nelle università italiane sotto il profilo culturale e linguistico e quello a cui sono dedicate il maggior numero di cattedre monotematiche; di norma nel caso di altri paesi islamici si parla sempre di gruppi di paesi, di aree, regioni o territori a cui è intitolato l’insegnamento.
6. Non va dimenticato che la cultura e la lingua iraniana o farsi (questo sostantivo indica il nome della lingua persiana, ma è anche divenuto di uso comune con valore di aggettivo per esprimere il concetto di “persiano”) sono di origine indoeuropea e non arabo-semitica. Nella linguistica infatti non mancano affinità lessicali e strutturali come perfino si può dire di quelle antropologico-fisiognomiche. Sarà utile ricordare per la successiva lettura che l’Iran è un paese islamico ma non un paese arabo, non è per esempio incluso nel gruppo dei paesi della Lega Araba.
7. Fondamentale in questo senso è l’operato degli istituti culturali delle ambasciate che portano all’estero la cultura del proprio paese, promuovendo iniziative di approfondimento, studio e diffusione della propria cultura nazionale nonché incentivano attraverso appositi circuiti internazionali fieristici meeting di settore per traduttori ed editori.
8. I media occidentali tendono a dare dell’Iran e della sua politica interna ed estera una visione parziale e non obiettiva, creando una certa disinformazione, della quale a volte sono vittima, come si è visto anche tra i membri di più alto rango delle istituzioni occidentali. Questo modo quasi capzioso di fare informazione nei confronti dell’Iran da parte di alcuni media italiani è piuttosto curioso se considerati i rapporti cordiali e di cooperazione che esistono tra questo paese e l’Italia.
9. Per approfondimenti vedi: La costituzione della repubblica islamica dell’Iran, M. Pistoso S. Curzu, in “Oriente Moderno” anno 60 n. 1/6 pp. 245-271.
10. Effettivamente gran parte dell’ordinamento giuridico e costituzionale iraniano e delle sue manifestazioni si appoggiano su un sostanziale sostegno popolare espresso attraverso il sistema del voto. C’è però da chiedersi, qualora il sostegno popolare dovesse venir meno o dovesse essere messo in discussione da successive elezioni, quali sarebbero le reali possibilità del popolo iraniano di modificare il proprio ordinamento giuridico. Per ora possiamo prendere ad esempio le sentenze della magistratura che godono di molto interesse e risalto da parte della carta stampata. Queste se non incontrano il favore popolare spesso vengono sovvertite nei gradi più alti di giudizio, dove l’interesse per il volere della piazza è curiosamente molto elevato lasciando dubbiosi gli osservatori che si chiedono se si tratti di demagogia o piuttosto di un altissimo senso di civiltà che interpreta la giurisprudenza anche come la capacità di realizzare (e non frustrare come a volte avviene in Italia rispetto a certi crimini odiosi che non trovano una condanna per semplici cavilli di forma) la sensibilità e la morale di un popolo.
11. Nel caso della cronaca giudiziaria esiste una sorta di etica giornalistica la quale prevede che dell’imputato, soprattutto se su di esso ricadono accuse pesanti, per preservarne la reputazione non vengano diffuse le generalità fino alla sentenza definitiva (l’unica cosa che comunque può essere pubblicata) in caso di colpa accertata. E’ consentita tuttavia la descrizione delle fasi processuali.
12. In pratica nella tv e nel cinema iraniano non esistono programmi o produzioni vietate ai minori contenenti scene di sesso e violenza.
13. Bisogna precisare che il numero totale dei partiti registrati risulta 160, ma la maggior parte sono inattivi.
14. Come la Comunità del clero combattente, la Comunità dei religiosi combattenti, la Comunità dei docenti della scuola teologica di Qom (Houza)
15. Sui media occidentali, italiani in particolare, si tende talvolta a dare un immagine distorta dell’Iran, come se fosse un paese arretrato, fondamentalista, aggressivo e potenzialmente pericoloso per la nostra sicurezza e per la nostra civiltà, ma per l’Iran il problema della disinformazione riguarda forse più canali islamici che occidentali. Nella battaglia oggi in atto per il controllo geopolitico del Medio Oriente notiamo che il campo mediatico, assolutamente strategico, è terreno di scontro non meno aspro di quello militare. In occidente, per esempio, abbiamo molta familiarità e facilità d’accesso a canali satellitari arabi come Al-Jazeera e Al-Arabiya (le cui trasmissioni partono da paesi arabi alleati con i paesi del Patto atlantico), nomi che conosciamo molto bene. Ma pari facilità di accesso non la riscontriamo per tutte quelle emittenti satellitari, come per esempio quelle iraniane o siriane, antagoniste a quelle precedenti, che sarebbero in grado di darci un punto di vista differente o più completo.
16. Sembra inoppugnabile che l’intento delle potenze sanzionatrici sia stato quello di “tappare la bocca” ai media iraniani ed impedire la loro attività d’informazione internazionale.
17. I media iraniani, se non ci fossero le sanzioni, vorrebbero aprirsi anche al mondo arabofono.
18. Appare ora evidente, per paesi distanti dal punto di vista delle relazioni diplomatiche, l’importanza di enti come gli istituti culturali, unica autorevole fonte possibile di scambio culturale. Non è tuttavia troppo chiaro l’atteggiamento del nostro governo che, pur politicamente distante da quello iraniano, cerca di avere con questo dei floridi rapporti culturali, quasi a volersi svincolare da una situazione come quella dell’embargo più imposta che desiderata.
19. A differenza dell’Islam sunnita, in particolare di certe scuole giuridiche integraliste, l’Islam sciita non ha atteggiamenti di rifiuto aprioristico nei confronti di alcun fenomeno naturale. Anzi, nei confronti di ogni manifestazione del reale e quindi del vero, vi è innanzitutto un interesse scientifico e poi un desiderio di comprenderne ragioni ed eventuali benefici morali e intellettuali. L’Islam sciita per il suddetto motivo non contempla forme di oscurantismo puritano, considerato un bigottismo distante dal volere di Dio. Non per questo esso non sa essere intransigente nel rifiutare o negare fenomeni o comportamenti giudicati nocivi o contrari all’etica religiosa.
20. Probabilmente si può parlare dei costumi sessuali di un popolo o per meglio dire del tentativo di agire su di essi come di una vera e propria forma di soft-power. Nell’ottica dell’egemonia della globalizzazione possiamo parlare anche di globalizzazione dei costumi sociali e sessuali. I popoli nemici dell’Iran cercano di fare in modo che il popolo iraniano sia vittima di un processo di omologazione ai costumi occidentali, desiderando un certo stile di vita che non appartiene alle sue tradizioni, in modo che le infiltrazioni occidentali sul suo territorio iraniano risultino più facili e ottengano un certo riscontro e supporto da parte del popolo, le cui usanze, a ben guardare, per alcuni aspetti non sono poi così distanti da quelle in uso anche nel nostro paese fino al secondo dopoguerra, fin quando cioè non c’è stato più nessun controllo e resistenza nei confronti delle infiltrazioni culturali americane. Il mondo della cultura iraniano tuttavia reagisce con molta intelligenza a questi tentativi di influenza culturale, forte della millenaria saggezza persiana. Orgoglioso delle sue tradizioni e della sua storia, cerca di non rinunciarvi, pur andando incontro al progresso, considerando le due cose affatto in antitesi tra loro. Anzi esiste il tentativo di esportare e proporre la cultura iraniana con vari mezzi come ad esempio il cinema. Esso, che tratta con inaspettata disinvoltura anche temi spinosi, tenta di mostrare la società iraniana con le sue forze e le sue criticità. Recentemente in Italia si è svolto un festival del cinema iraniano (patrocinato dall’Istituto Culturale, e qui torna l’importanza di queste istituzioni) dove sono state proiettate pellicole interessantissime non solo per il valore artistico ma anche per il valore politico. È per esempio il caso del film Facing mirrors che tratta il tema del cambio di genere in Iran, le prospettive sociali e il difficoltoso percorso umano.
21. Quanto meno curiosa è l’attenzione anche mediatica occidentale su un fenomeno esteriore e di irrisoria rilevanza politica come l’uso del velo. Siccome esso è anche uno dei simboli per cui l’Islam in Occidente è più noto, aprire la polemica sul suo uso coercitivo sembra un tentativo di voler ingigantire un pettegolezzo; peraltro, sapendo perfettamente che questa è manifestazione dell’Islam esteriore ma irrinunciabile, parlare alla società islamica di una sua progressiva scomparsa per saggiarne il reale desiderio di modernizzarsi sembra più che altro assumere i toni della provocazione.
22. Il riferimento esplicito è alla resistenza libanese, in particolare al partito di Hezbollah e alla sua ala militare.
23. La Siria è un alleato strategico della resistenza libanese. Oltre all’appoggio politico la sua posizione geografica consente di dare vita ad un’unione territoriale tra Libano, Siria e Iran. Avere dei confini amici è un asset che rafforza enormemente l’alleanza tra i paesi alleati, evitando peraltro di dover bypassare confini ostili per l’eventuale passaggio di materiale e risorse umane.
24. Islamici e non. I servizi di sicurezza siriani stanno registrando la presenza di molti cittadini europei e australiani convertiti all’Islam da gruppi radicali sunniti e poi inviati a combattere in Siria.
25. È ormai accertato l’invio in Siria di mercenari (i servizi siriani di sicurezza stimano circa 38 i paesi di provenienza) integralisti appartenenti ai gruppi più radicali violenti e oscurantisti, che, va detto, adottano un’interpretazione del tutto autonoma ed arbitraria del Corano, discostandosi dai suoi precetti soprattutto per quanto concerne lo stile di vita e le modalità di combattimento, nel loro caso particolarmente cruento. Oltre a ciò sono molti i religiosi islamici, anche di alto rango, che prendono decisamente le distanze dal loro impianto dottrinario, nemmeno definibile tale. Secondo alcuni si tratta di una semplice orda di tagliatori di gole che compiono il sacrilego crimine di coprirsi dietro alla parola “Islam” per attuare le loro atrocità nefande. Essi in realtà offrono semplicemente alle potenze occidentali che li manovrano e ad alcuni paesi del Golfo che li finanziano la possibilità di servirsi di loro per indebolire la Siria oltre che, secondariamente, per distruggere la sua civiltà basata sulla convivenza inter-religiosa.
26. Arabia Saudita e Qatar sono tra i maggiori finanziatori dei gruppi mercenari combattenti in Siria.
27. Anche gli alleati più vicini ad Assad riconoscono la necessità di dover migliorare e modificare alcuni aspetti degli assetti politici interni alla Siria per modernizzare il paese nel probabile tentativo di volerlo far uscire da quella situazione anomala di totale identificazione istituzionale e politica con la dinastia degli Assad, che ormai pare aver raggiunto la fine della sua oggettivazione e realizzazione storica; ciò anche per dare un’immagine più credibile stabile e meno isolazionista del paese all’estero, evitando peraltro di fornire alibi per ingerenze straniere. Tuttavia si sono recentemente svolte nel paese regolari elezioni politiche che hanno confermato il sostegno popolare a Bashar al-Assad e che parte della stampa occidentale si è affrettata a definire in modo non meglio specificato “scontate” e quindi prive di valore politico. Naturalmente il valore politico di queste elezioni è invece notevole, soprattutto in quanto queste si sono svolte senza accuse di brogli o irregolarità e hanno confermato un largo sostegno ad un uomo politico definito dall’occidente un tiranno che il popolo siriano desiderava abbattere e dimenticare. Smentita giunta puntualmente.

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LETTERA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO MEDIA ITALIA (PORTAVOCE DELLA COMUNITÀ ERITREA IN ITALIA), DERRES ARAIA, AL PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI.

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Egregio Presidente Dott. Vincenzo Iacopino,
Le scriviamo nuovamente per informarLa che la Comunità Eritrea in Italia promuove assieme alle Comunità eritree di tutta Europa una manifestazione a Ginevra contro il falso rapporto della Commissione d’Inchiesta delle Nazioni Unite che mira a destabilizzare la sovranità e l’esistenza del nostro paese. Noi eritrei della diaspora ci ribelliamo alle menzogne delle Nazioni Unite che sin dal 1952 ci hanno negato ogni diritto umano compreso quello dell’autodeterminazione dei popoli. Andremo a Ginevra per dir loro “Basta!”

Avremmo voluto invitare i giornali italiani alla nostra manifestazione se solo fossimo stati sicuri della loro onestà intellettuale e della loro imparzialità. Invece, visti gli ultimi sviluppi nati in seguito al discusso rapporto e il continuo infierire sulla nostra Patria accusata di crimini contro l’umanità, ci siamo ulteriormente convinti del loro coinvolgimento nella maledetta politica del regime-change che da qualche decennio sta rendendo il mondo un inferno. Come comunità eritrea percepiamo il gioco sottile, il martellare quotidiano dei giornali militarizzati, un gioco psicologico al massacro fatto di falsi scoop per sfiancarci e per deprimerci fino all’estremo. Dopo aver dato per morto il nostro Presidente (per la seconda volta in poco tempo) oggi l’Avvenire titola: “Dittatura, Eritrea, fallito nuovo colpo di Stato”

Nel frattempo, dopo averLe scritto la prima lettera, il Manifesto ha rimosso dal suo sito pieno di menzogne tutti i commenti scritti da cittadini eritrei fregandosene altamente della libertà di stampa così come, da tempo, ci hanno abituato la Repubblica e l’Espresso. Gli altri giornali non sono da meno quando traducono articoli provenienti da oltreoceano o quando permettono ai loro lettori di chiedere agli americani di intervenire militarmente.

A questo punto egregio Dottore, la Comunità Eritrea in Italia vuole difendere il proprio Paese da futuri drammi che sono già successi altrove e vuole altresì tutelare se stessa e i propri figli con doppia cittadinanza da scompensi psicologici perché continuano a farci domande preoccupati: “Perché ce l’hanno tutti con noi?” E’ per rispondere a loro che abbiamo deciso di reagire per contrastare questa guerra mediatica che giornali e giornalisti italiani hanno dichiarato all’Eritrea e a tutta la sua Comunità.

L’altro motivo per cui le scriviamo è per dirLe che La riteniamo responsabile, insieme ai media italiani, di questa guerra mediatica in atto contro di noi che da molti anni viviamo in Italia lavorando onestamente. Visto e costatato che a nulla sono valse le nostre suppliche, che Lei stesso ha ignorato non ritenendole neppure degne di una risposta, siamo pronti ad intraprendere una class action contro l’Ordine Dei Giornalisti che Lei rappresenta.

Siamo un popolo abituato a lottare e contro la vostra categoria lotteremo legalmente con tutti i mezzi a nostra disposizione.

Comitato Media Italia, portavoce della Comunità Eritrea residente in Italia

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LA COMUNITA’ ERITREA MANIFESTA CONTRO L’OSTILITA’ DELL’ONU A GINEVRA

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Per tutta la giornata di lunedì 22 giugno la comunità eritrea in Europa ha tenuto a Ginevra, davanti al Palazzo delle Nazioni Unite, una grande manifestazione di protesta alla quale hanno partecipato oltre settemila persone.
I rappresentanti di varie organizzazioni eritree ed europee hanno condannato l’atteggiamento di preconcetta ostilità mantenuto dalla Commissione delle Nazioni Unite nei confronti dell’Eritrea.

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SUL “MANCATO ARRESTO” DEL PRESIDENTE SUDANESE

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Ha destato sorpresa e sconcerto nei vari ambienti dell’atlantismo il mancato arresto del presidente sudanese Omar al-Bashir durante il suo soggiorno in Sud Africa dove si trovava per partecipare al XXV vertice dell’Unione Africana.

Sulla sua testa pendono infatti due mandati d’arresto, spiccati dalla Corte Penale Internazionale nel 2009 e nel 2010, che il Sud Africa, in quanto firmatario dello Statuto di Roma (in vigore dal 2002), avrebbe dovuto far rispettare mettendo le manette ai polsi dell’illustre ospite giunto da Khartoum.

La rivista di geopolitica Limes, particolarmente avversa al “regime sudanese”, è arrivata a sostenere che Il mancato arresto di Bashir crea un precedente.

E sarà anche così, ma perché mai – riflettiamo un attimo – un capo di Stato dovrebbe essere arrestato all’estero perché una “corte internazionale” lo ritiene responsabile di “crimini di guerra”?

Oltretutto, di questa altisonante “istituzione” cui aderiscono centoventitré paesi non sono membri gli Stati Uniti e il cosiddetto “Stato d’Israele”, che non hanno mai ratificato il suddetto Statuto.

Che questi due soggetti si guardino bene dal darsi la zappa sui piedi lo si comprende fin troppo bene. Gli Stati Uniti sono praticamente sempre in guerra contro qualcuno causando immani stragi e distruzioni, mentre “Israele” trova assolutamente giustificabile la perpetua mattanza dei palestinesi. Sono, a tutti gli effetti, dei “criminali di guerra”, dagli albori della loro breve storia.

Sia Washington che Tel Aviv sono però in prima fila nel pretendere la testa del “boia di Khartoum”, e per giungere allo scopo non lesinano gli sforzi, da quelli consueti militari e d’intelligence a quelli più subdoli come le campagne di “sensibilizzazione” assegnate a divi di Hollywood.

A noi però l’ipocrisia e la manipolazione non piacciono per niente, quindi pensiamo che piuttosto che ricorrere a simili metodi ammantati di “legalità” sarebbe più onesto avere il coraggio di andarselo a prendere a casa sua, il “criminale”. Spiegando per filo e per segno a tutti che lo si va a prendere perché ci sta antipatico e perché non si piega ai nostri ordini.

Oltre a ciò, se proprio di “criminale” si tratta – e per giunta circondato, nel consesso delle nazioni africane, da perfette mammolette immacolate e, guarda caso, alleate dell’Occidente… – sarà il popolo del Sudan a doversene sbarazzare.

Ma – commenteranno i fautori ad oltranza (ma a geometria variabile) del “diritto internazionale” – è proprio contro la popolazione sudanese (quella del Darfur) che Omar al-Bashir ha scatenato tutta la sua efferatezza.

Qui, però, onestà intellettuale vorrebbe che si riconoscesse la posizione strategica del Sudan stesso, che difatti ha dovuto sopportare la secessione del sud, voluta fermamente dagli occidentali quando solo poco prima,a Nairobi, le parti in conflitto erano pervenute ad uno storico (e scomodo, per l’Occidente) accordo.

Il Sudan, posto praticamente al crocevia dell’Africa occidentale e di quella australe, il cui controllo determina anche quello dell’Egitto (per non parlare delle ricchezze minerarie e di quelle idriche), è una preda ambitissima da chi aspira al dominio planetario.

Che per essere raggiunto deve passare per quello, intermedio, da imporre a livello macroregionale, eliminando negli specifici contesti tutti quei soggetti refrattari ad una “normalizzazione” e all’appiattimento su un’unica “alleanza” che, automaticamente, ne esclude altre.

In altre parole, se al Sudan conviene e parecchio l’alleanza strategica con la Cina, la quale investe e garantisce prosperità ai suoi partner, non si capisce che cosa abbia da guadagnare da un allineamento all’America e ai suoi diktat, tanto più che con il potenziamento del dispositivo Africom non mostra alcuna intenzione di portare pace e benessere nel Continente Nero.

Ne sa qualcosa Gheddafi, che nell’Africa credeva molto: anch’egli nelle mire di queste ipocrite “istituzioni internazionali” che come tutte le altre rappresentano il paravento di chi, non avendo il coraggio di esplicitare le proprie intenzioni bellicose, ha l’esigenza di rivestirle di “nobili intenzioni”.

E a proposito di “precedenti”, non sarebbe forse il caso che qualche autorevole analista cominciasse a chiedersi se l’ignobile e proditorio attacco alla Jamahiriyya non ne abbia per l’appunto creato uno davvero sbalorditivo ed insopportabile?

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LE RADICI “MODERNE” DEL FANATISMO RELIGIOSO IN TUNISIA

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C’è una domanda che da qualche tempo è in attesa di una risposta.

Come mai la Tunisia è il paese arabo che fornisce il maggior numero di effettivi combattenti nelle file dell’ISIS?

Considerando le caratteristiche salienti del paese nordafricano, con una popolazione di soli undici milioni di abitanti (ed una consolidata “identità nazionale” che origina da una storia di svariati secoli), molti analisti non riescono a darsi conto di questa “stranezza”. E non si capacitano come mai, proprio dove la “Primavera araba” – con le sue domande di “democrazia” e di “libertà” – avrebbe avuto un certo successo, così tanti giovani si fanatizzino ad un punto tale da sparare addosso ad inermi turisti.

C’è poi chi cerca di spiegare un’elevata percentuale di aderenti alle ideologie islamiche che convergono nel “Califfato” rilevando la povertà, l’esclusione sociale, e la rabbia e la frustrazione che quelle si portano dietro. Ma altri sottolineano al contrario la “contraddizione” tra un relativo benessere, un discreto livello d’istruzione (se paragonato con quello di altri paesi arabi) e l’infatuazione per ideologie “totalizzanti”.
Ma girano tutti a vuoto e non verranno mai a capo del “problema”.
Questo perché sono innamorati delle loro idee fisse. Delle loro fisime “moderne”.

Lo si comprende bene quando alcuni che scrivono su giornali e riviste “autorevoli” restano sbalorditi dal fatto che nel paese arabo più “laico” possano venire su tutti questi “integralisti”.

Non lo volete capire che è proprio la laicizzazione, e cioè l’esclusione della religione da ogni ambito della vita pubblica, da tutto ciò che gli occidentali concepiscono come “profano”, a creare le premesse per il dramma in atto?

Intendo dire che in una società dove un famoso “padre della Nazione”, Habib Bourghiba, si compiacque addirittura di scolarsi pubblicamente un bicchier d’acqua in pieno Ramadan con la scusa della “guerra al sottosviluppo” (e fornito di regolare – si fa per dire – fatwa di un giurisperito cortigiano); e dove il successore, in mezzo ad un’innegabile “stabilità” e qualche successo economico, ha perseguito con tenacia e ferocia la cura “laicista” per la Tunisia; ecco, con simili premesse, non ci si può sorprendere se poi quando una parte della gioventù “torna” alla religione lo fa nella maniera sbagliata.

In poche parole, quando si fa tabula rasa della religione, riducendola al limite ad un fatto intimistico e escludendola assolutamente dall’ambito pubblico, accade che prima o poi una popolazione, alla ricerca di se stessa, pretende di “tornare” ad una pretesa “origine” inscenandone invece una parodia.
La disaffezione verso un Islam radicato nella tradizione locale a favore di quello dei telepredicatori e dei “mufti on line”, tra i quali abbondano i wahhabiti e i loro derivati, ha completato il disastro.

Si scorrano le biografie di tutti questi novelli “jihadisti”. Di questi “eroi” che sbarcano dal canotto per mitragliare famiglie sulla spiaggia.

Nessuno di loro che seguisse una guida spirituale autentica. Tutti mezze tacche, sfigati esistenziali che fino a un paio d’anni prima caricavano filmini patetici su YouTube scimmiottando i rapper o ballando la breakdance. “Religiosi” tanto quanto lo poteva essere un giovane occidentale infarcito di propaganda ideologica negli anni Settanta.

Esclusi (o autoesclusi) anche dalle moschee “normali” perché eccessivi, per non parlare dei centri spirituali, ancora attivi in Tunisia, nei quali operano ancora degli shaykh (guide spirituali) a favore di un Islam vivente e sostanziale. Centri preclusi per definizione a chi nella religione cerca solo la “lettera” e un pretesto per giustificare la propria agitazione.

Certo, non vogliamo nascondere che anche i “rappresentanti” di un Islam “quietista” portino le loro responsabilità, avendo sottaciuto e perciò avallato di fatto tante ingiustizie dei regimi impostisi nel Maghreb e nel Mashreq nel secondo dopoguerra. Ma quelli dovevano stare come tra l’incudine e il martello, tra le due false opposizioni del “laicismo” e del “fondamentalismo”, per cui hanno badato a salvare l’essenziale. Per questo, anche in Stati cosiddetti “laici”, la vita della maggioranza della gente, del “popolo”, scorre ancora in maniera abbastanza tradizionale.

Ma per tornare alla domanda dell’inizio, non escludendo a priori altri fattori concomitanti, per cominciare a capire qualcosa della cosiddetta “radicalizzazione” (meglio sarebbe dire “fanatizzazione” o “manipolazione”) di migliaia di tunisini si dovrebbe avere l’umiltà di capire che questo “mostro” che ci fa tanta paura nasce dal ventre della “modernità” e non dalla “tradizione”, come ancora qualche mestatore fornito di credenziali accademiche e/o giornalistiche intende far credere.

Non, dunque, con nuove campagne “democratizzanti” si dovrebbe procedere in quei contesti, bensì con un’azione pervasiva, dal basso e con l’appoggio delle istituzioni, per una riscoperta delle radici autentiche della propria tradizione religiosa.

Questo è un buon “radicamento”, mentre la “radicalizzazione” di cui cianciano certi “esperti” è solo un artificio lessicale per nascondere le responsabilità, in questa tragedia, di un “laicismo” che dietro di sé, oltre a stuoli di giovani assolutamente indifferenti alla religione, ha lasciato individui insoddisfatti in preda alle peggiori illusioni di una religiosità fai da te, appresa su internet o in televisione, che come quella del cosiddetto “fondamentalismo” ha molto più a che fare con la “modernità” di quanto possa averne con una “tradizione” vittima dell’attacco congiunto dei prodotti ideologici di quest’epoca di disordine e di falsità.

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USO OCIDENTAL DO ISLAMISMO

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Em seu famoso livro “O Choque de Civilizações” Samuel Huntington afirma que o verdadeiro problema do mundo ocidental não é o fundamentalismo islâmico, mas o Islã em si. O ideólogo americano explica que o Islã é um inimigo estratégico do Ocidente, porque o confronto entre os dois é um conflito existencial entre valores seculares e valores religiosos, direitos humanos e direito divino, democracia e teocracia. Portanto, enquanto o Islã permanecer o Islã e o Ocidente permanecer o Ocidente, o conflito marcará suas relações mútuas.

A afirmação de Huntington indica não apenas o inimigo estratégico do Ocidente, mas também seu aliado tático, que é o fundamentalismo islâmico. Porém em 1996, quando “O Choque de Civilizações e a Reconstrução da Ordem Mundial” foi publicado, tal aliança tática já existia.

Um ex-embaixador árabe, que já havia servido nos EUA e na Grã-Bretanha, escreve: “É um fato que os EUA tem estipulado alianças com a Fraternidade Muçulmana para expulsar os soviéticos do Afeganistão e que desde então os EUA tem cortejado a corrente islamista, apoiando sua propagação por todo o mundo muçulmano. Em relação aos islamistas, a maioria dos governos ocidentais tem seguido o exemplo de seu principal aliado e tem adotado uma atitude que vai da neutralidade benevolente à conivência resoluta”. (1)

O apoio ocidental ao dito integralismo ou fundamentalismo islâmico não começa no Afeganistão em 1979, onde seis meses antes da intervenção soviética a inteligência americana havia começado a ajudar a guerrilha afegã (como o ex-diretor da CIA Robert Gates escreve em seu livro “Desde as Sombras”). Esse apoio data dos anos 50 e 60 do último século quando Grã-Bretanha e EUA, considerando o Egito nasserista como o principal obstáculo para a hegemonia ocidental no Mediterrâneo, prestaram sua ajuda à Fraternidade Muçulmana. Um genro do fundador do movimento, Sa’id Ramadan, que criou um importante centro islâmico em Munique, recebeu dinheiro e instruções do agente da CIA Bob Dreher. Segundo o projeto explicado por Sa’id Ramadan a Arthur Schlesinger Jr.: “Quando o inimigo está armado com uma ideologia totalitária e é servido por regimentos de crentes devotos, aqueles com políticas opostas devem competir ao nível popular de ação e a essência de suas táticas deve ser a contra-fé e a contrarrevolução. Apenas forças populares, genuinamente envolvidas e genuinamente reativas por si próprias, podem confrontar a ameaça infiltradora do comunismo”. (2)

A exploração dos movimentos islamistas úteis à estratégia atlantista não terminou com o recuo do Exército Vermelho do Afeganistão. A ajuda fornecida pela administração Clinton ao separatismo bósnio e kosovar, o apoio americano e britânico ao terror wahhabi no Cáucaso, o apadrinhamento dado por Brzezinski a movimentos fundamentalistas na Ásia Central, a intervenção na Líbia e Síria, são episódios de uma guerra travada contra a Eurásia, na qual os norte-americanos e seus aliados se voltaram para a colaboração islamista.

Rachid Ghannouchi, que em 1991 recebeu elogios de George Bush pelo papel desempenhado na mediação do acordo entre facções afegãs, tentou justificar o colaboracionismo islamista, rascunhando uma imagem idílica das relações entre os EUA e o mundo muçulmano. Falando com um jornalista francês que lhe perguntou se ele considerava os norte-americanos mais conciliatórios em relação aos muçulmanos do que os europeus, o fundador da An-Nahda respondeu afirmativamente, porque “um colonialismo americano jamais existiu nos países muçulmanos; nenhuma Cruzada, nenhuma guerra, nenhuma história”; ademais, Ghannouchi relembrou a luta comum de norte-americanos, britânicos e islamistas contra o inimigo bolchevique (3).

A “Nobre Tradição Salafista”

Como um orientalista italiano escreve, a corrente islamista representada por Rachid Ghannouchi “remete à nobre tradição salafista de Muhammad Abduh e possui uma versão mais moderna no movimento da Fraternidade Muçulmana” (4).

Retornar ao Islã puro dos “pios antepassados” (as-salaf as-salihin) e fazer uma varredura da tradição originada pelo Corão e pela Sunnah do Profeta no curso dos séculos: esse é o programa da corrente reformista cujos iniciadores foram Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e Muhammad Abduh (1849-1905).

Al-Afghani, que em 1883 fundou a Sociedade Salafiyya, em 1878 havia sido iniciado em uma loja maçônica do rito escocês em Cairo. Ele introduziu seus discípulos na Maçonaria; entre eles, Muhammad Abduh se tornou o Mufti do Egito em 1899 com o consentimento das autoridades britânicas.

“Eles merecem todo encorajamento e apoio que possa ser dado. Eles são os aliados naturais do reformador ocidental” (5). Esse reconhecimento explícito do papel desempenhado pelos reformistas Muhammad Abduh e Si Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) foi dado pelo Lorde Cromer (1841-1917), um dos principais arquitetos do imperialismo britânico no mundo muçulmano. De fato, Ahmad Khan afirmou que “a dominação britânica da Índia é a coisa mais bela já vista pelo mundo” e que “não é islamicamente legítimo se rebelar contra os ingleses até que eles respeitem o Islã e os muçulmanos tenham permissão de praticar sua religião”, enquanto Muhammad Abduh transmitiu as ideias racionalistas e cientificistas do Ocidente ao milieu islâmico. Segundo Abduh, na civilização moderna não há nada que contraste com o Islã (ele identificava os jinns com os micróbios e estava persuadido de que a teoria evolucionista de Darwin estava contida no Corão); daí a necessidade de revisar e corrigir a doutrina tradicional, submetendo-a ao juízo da razão e saudando as contribuições científicas e culturais do pensamento moderno.

Após Abduh, o líder da corrente salafista foi Rashid Rida, que após o fim do Califado Otomano planejava o nascimento de um “partido islâmico progressista” capaz de criar um novo Califado. Em 1897, Rashid Rida havia fundado uma revista, “Al Manar”, que foi difundida no mundo árabe e também por outros lugares; após a morte de Rida, seu editor foi outro representante do reformismo islâmico, Hasan al-Banna (1906-1949), o fundador da Fraternidade Muçulmana.

Enquanto Rashid Rida teorizava o nascimento de um novo e reformado Estado Islâmico, na Península Arábica nascida o Reino Saudita, governado por outra ideologia reformista: o wahhabismo.

A Seita Wahhabi

O nome da seita wahhabi vem do patronímico de Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), um seguidor da escola hanbali que se tornou entusiástico pelos textos da jurisprudência literalista de Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). Um intérprete de símbolos corânicos desde uma perspectiva antropomórfica e inimigo mortal do sufismo, Ibn Taymiyya foi frequentemente acusado de heterodoxia e mereceu a definição de “pai dos movimentos salafistas” (6). Seguindo seus ensinamentos, Ibn Abd al-Wahhab e os wahhabis condenaram como politeísmo idólatra (shirk) a fé na intercessão de profetas e santos, de modo que eles consideravam como “politeístas” (mushrik) também o crente devoto invocando o Santo Profeta ou orando a Deus próximo ao altar de um sheik.

Os wahhabis atacaram as cidades sagradas dos xiitas, saqueando suas mesquitas; após tomarem posse de Meca e Medina, eles demoliram as tumbas dos Companheiros e mártires e até violaram o túmulo do Profeta Maomé; eles baniram as organizações iniciáticas e práticas dos sufis, aboliram a celebração do aniversário do Santo Profeta, extorquiram dinheiro dos peregrinos, suspenderam a Peregrinação à Santa Casa de Deus, emitiram as proibições mais bizarras e estranhas.

Após terem sido derrotados pelo exército otomano, os wahhabis se separaram apoiando duas dinastias rivais (Saud e Rashid) e durante um século suas guerras civis cobriram a Península Arábica com sangue, até que Ibn Saud (1882-1953) modificou a condição da seita. Sendo apoiado pela Grã-Bretanha, que em 1915 havia instaurado relações oficiais com ele e tornado o Sultanato de Najd um “semiprotetorado” (7), Ibn Saud ocupou Meca em 1924 e Medina em 1925. Dessa maneira ele se tornou “Rei do Hedjaz e Najd e suas dependências”, segundo o título deferido a ele pela Grã-Bretanha no Tratado de Jeddah em maio de 1927.

“Suas vitórias – disse um famoso orientalista – o tornaram o mais poderoso soberano na Arábia. Seus domínios alcançam o Iraque, Palestina, Síria, o Mar Vermelho e o Golfo Pérsico. Sua personalidade proeminente se impôs pela criação do Ikhwan, i.e. os Irmãos: uma fraternidade de ativistas wahhabis que o inglês Philby chamou de ‘uma nova maçonaria’.” (8)

O Philby mencionado era Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), organizador da revolta árabe anti-otomana, que “na corte de Ibn Saud ocupava o assento do falecido Shakespeare” (9), como escreveu hiperbolicamente outro orientalista. Esse novo Shakespeare expôs seu projeto a Winston Churchill, Jorge V, o Barão Rothschild e Chaim Weizmann: um reino saudita usurpando a custódia dos Lugares Santos (tradicionalmente devido à dinastia hashemita) seria capaz de unificar a Península Arábica e controlar a via marítima Suez-Aden-Mumbai em nome da Inglaterra.

Após a Segunda Guerra Mundia, durante a qual a Arábia Saudita observou uma neutralidade pro-inglesa, o patronato britânico foi gradualmente substituído pelo norte-americano. Em 1 de março de 1945, a bordo do Quincy, Roosevelt teve um encontro histórico com Ibn Saud, que “sempre havia sido grande admirador da América, a qual ele preferia à Inglaterra” (10), como orgulhosamente observou um compatriota do presidente americano. De fato, desde 1933 a monarquia saudita havia entregue a concessão pra exploração de petróleo à Standard Oil Company da Califórnia e desde 1934 a companhia americana Saudi Arabian Mining Syndicate teve o monopólio da escavação e mineração de ouro.

A Fraternidade Muçulmana

Para conter o pan-arabismo nasseriano, o nacional-socialismo ba’athista e – após a revolução islâmica no Irã – a influência xiita, a nova família real de Saud precisava de uma “Internacional” como apoio para sua hegemonia no mundo muçulmano. Assim, a Fraternidade Muçulmana pôs à disposição de Riad sua rede de militantes, que foi fortalecida por financiamento saudita. “Após 1973 rendas melhores derivadas do mercado petrolífero são designadas para a África e para as comunidades muçulmanas no Ocidente, onde um Islã não muito bem estabelecido corre o risco de abrir as portas para a influência iraniana” (11). Porém, a sinergia entre a monarquia wahhabi e o movimento fundado por Hasan al-Banna (1906-1949) está baseada em um fundamento ideológico comum, porque a Fraternidade Muçulmana é “herdeira direta, ainda que nem sempre estritamente fiel, da salafiyyah de Muhammad Abduh” (12) e porta em seu DNA a tendência a aceitar a civilização ocidental moderna, com todas as devidas reservas.

Tariq Ramadan, neto de Hasan al-Banna e representante da intelligentsia reformista muçulmana, interpreta o pensamento do fundador do movimento: “Como todos os reformistas que o precederam, Hasan al-Banna nunca demonizou o ocidente. (…) O Ocidente permitiu à humanidade dar grandes passos desde o Renascimento, com o início de um amplo processo de secularização (uma contribuição positiva, considerando a especialidade da religião cristã e da instituição clerical” (13). O intelectual reformista lembra que seu avô, realizando a atividade de professor escolar, derivou inspiração nas teorias pedagógicas ocidentais mais recentes e reporta uma passagem significativa escrita por ele: “Das escolas ocidentais e seus programas devemos tomar o constante interesse pela educação moderna, seu método de lidar com demandas e a preparação para o aprendizado (…) Nós devemos tirar vantagem de tudo isso, sem timidez: a ciência é um direito de todos” (14).

A tal “Primavera Árabe” provou que a Fraternidade Muçulmana, apoiada pelos EUA na Líbia, Tunísia, Egito e Síria, está disposta a aceitar aqueles pontos ideológicos ocidentais fundamentais que – como Huntington ressaltou – conflitam com o Islã. O partido egípcio “Liberdade e Justiça”, nascido da iniciativa da Fraternidade e controlado por ela, apela aos direitos humanos, defende a doutrina democrática, apoia a economia capitalista, não recusa empréstimos das instituições usurocráticas internacionais. O irmão muçulmano tornado presidente egípcio estudou nos EUA, onde foi palestrante assistente na Universidade do Estado da Califórnia; dois de seus filhos são cidadãos americanos. Ele declarou imediatamente que o Egito observará todos os tratados estipulados com outros países (incluindo Israel); ele fez sua primeira visita oficial à Arábia Saudita e declarou sua vontade de fortalecer as relações egípcias com Riad; ele proclamou um “dever ético” de apoiar a oposição armada lutando contra o governo sírio.

Se a tese defendida por Huntington sobre o Islã e o islamismo precisa de uma prova, parece que ela foi dada pela Fraternidade Muçulmana. 

NOTE
1. Redha Malek, Tradition et revolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p.218.

2. http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm

3. “Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? — A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… — Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains а vous soutenir… — Sans doute, mais la Grande- Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…“ (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http:// plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

4. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

5. Quoted by Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

6. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

7. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol.I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

8. Henri Lammens, L’Islаm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

9. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

10. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

11. Alain Chouet, L’association des Frиres Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm.

12. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica“,a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

13. Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Cittа Aperta, Troina 2004, pp. 350-351.

14. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath“, Sept. 19th 1929, quoted by Tariq Ramadan, Il riformismo islamico, p. 352.

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LA TATTICA DELLA “GUERRA SENZA RISCHI” CON L’UTILIZZO DEGLI UAV

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Gli investimenti programmati per l’implementazione dei sistemi d’arma, sono stanziati principalmente per la robotica ed i sistemi cibernetici. La finalità è ridurre il tempo che intercorre fra il rilevamento dell’obiettivo ed il suo ingaggio. La continua evoluzione dello spazio bellico e l’asimmetricità delle minacce, hanno consentito lo sviluppo ed il conseguente impiego di sistemi a controllo remoto, un mercato che vale 950 milioni di dollari, con un trend positivo che potrebbe raggiungere i 2 miliardi nei prossimi anni sino a raggiungere i 28 miliardi di dollari fra dieci anni. La strategia d’impiego dei velivoli a pilotaggio remoto segue la dottrina della “Guerra senza rischi”. Questo concetto è fondato sulla tattica di posizionare le proprie forze armate lontano dagli ambienti ad alta conflittualità e condurre le operazioni in aree prive di rischi. Ciò, però, costringe gli strateghi ad una riformulazione delle strategie militari ed a ridisegnare lo spazio bellico, dunque ad interpretare in maniera innovativa gli scenari di guerra e l’evoluzione dell’impiego delle forze terrestri. L’efficacia degli UAV, se paragonata ad altri sistemi d’arma, è particolarmente valida nelle operazioni convenzionali anti-terrorismo e come alternativa all’impiego delle truppe su vasta scala, infatti, l’obiettivo fissato è quello di ridurre numericamente l’impiego dei militari sul campo per lasciare il posto agli interventi mirati nelle missioni UAV, definite “uccisioni mirate”. Il massivo utilizzo dei droni armati nei conflitti contemporanei, ha restituito come prodotto l’azzeramento delle perdite dei piloti, confortando la dottrina del senza rischio, ma ha diminuito sostanzialmente l’accuratezza al bersaglio con il conseguente aumento di vittime civili, il cui numero non è precisabile in quanto molte operazioni con i velivoli a controllo remoto sono coperte dal segreto. Un aspetto che sta diventando centrale e controverso negli ambienti militari, è l’impatto psicologico sui piloti che combattono da consolle sistemate in aree protette. Tecnicamente è definito: “impersonalizzazione della battaglia”. L’effetto principale che produce è l’abbassamento della soglia operativa, pertanto l’estraneazione del pilota dal teatro delle operazioni con la risultanza di aumentare esponenzialmente i danni collaterali e la dipendenza dalla componente robotica. Il pilota potrebbe distaccarsi dalla missione stessa, una dissociazione che implicherebbe la completa estraneazione dalle sue azioni. È esplicativo il concetto espresso da Albert Camus, in base al quale non si può uccidere se non si è pronti a morire. La “ragion di guerra” giustifica solo l’uccisione di coloro che a ragione sono suscettibili di essere uccisi, ossia i soldati, i quali a differenza dei civili, sono consapevoli del pericolo di perdere la vita.

In base al diritto internazionale verrebbero ad essere lesi i principi di proporzionalità e discriminazione dei non combattenti. Come esposto da Michel Walzer, è necessario incentrare l’attenzione sulla dicotomia tra guerra ed autodifesa. Alla prima non si può assegnare l’idea metafisica di estremo, dove le operazioni belliche rappresenterebbero l’estrema ratio per risolvere una controversia, infatti l’estremo è irraggiungibile e nel caso della guerra è sempre possibile tentare di risolvere le dispute con la diplomazia. I belligeranti avrebbero l’obbligo di discernere i bersagli legittimi da quelli illegittimi, un principio regolato dalla natura del target. Inoltre, dovrebbe essere bilanciato il grado di violenza adoperato per distruggere il bersaglio, un concetto di proporzione che prevede una forza maggiore se l’obiettivo è strategico, od una minore se dovesse trattarsi di una entità di basso profilo. Come descritto dal giurista Carl Schmitt, la “justa causa”, non deve prescindere dallo “justus hostis”, ossia il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo dai pari diritti contro il quale è necessario limitare l’uso della forza. Inoltre, nella dottrina dello “jus in bello”, è contemplata la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’Industria della Difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico.

Al fine di non abbassare la percezione della soglia di rischio dell’operatore, l’armamento dell’UAV a lui assegnato, dovrebbe essere di media letalità, ed il bersaglio meno fortificato e dunque facilmente violabile. In tal modo il pilota conserverebbe la coscienza di operare in un ambiente a bassa conflittualità, con la consapevolezza che non avrebbe corso il rischio di perdere la vita se si fosse trovato a bordo di un aeromobile. I droni sono costantemente in volo sui teatri delle operazioni e possono colpire qualsiasi target, sia civile che militare e questo ingenera un impatto sulla comunità civile che può essere fonte di ansia e traumi psicologici. Pertanto il pilota dalla sua postazione remota, in qualche modo trasferisce i suoi rischi verso altri soggetti, in quello che viene definito “trasferimento del rischio”, ed è tra gli effetti principali ingenerati dalla diminuzione della soglia di rischio dell’operatore. Una sorta di invincibilità ed inviolabilità che si traduce in azioni illegittime e contrarie al diritto internazionale.

I droni, oramai assorti a sistema d’arma fondamentale per la difesa, sono in continua evoluzione sia tecnologicamente che numericamente: La Russia dedicherà loro la base di Anadyr, nel Circolo Polare Artico, e diventerà quella più a nord dell’Equatore. Gli Stati Uniti hanno testato l’X-47B, in grado di decollare ed appontare su una portaerei, il cui impiego sarà concentrato verso obiettivi di matrice terroristica. Il vantaggio fondamentale nel disporre di un velivolo con tali peculiarità, è quella di non dover dipendere dalle autorizzazioni di Paesi terzi per utilizzare le loro basi. Sempre gli USA, stanno implementando il programma LOCUST, Low Cost UAV Swarming Technology, che consiste in un lancio multiplo di 30 piccoli droni. Saranno dei velivoli ad ala fissa lanciabili da tubi montati su unità di superficie o su mezzi terrestri mobili. Il vantaggio fondamentale sarà quello di costringere l’avversario ad ingaggiare bersagli multipli piuttosto che uno singolo. La filosofia costruttiva è imperniata sul basso costo, in quanto il piccolo UAV non sarà recuperabile, ed anche economicamente questa tattica avrà un vantaggio, soprattutto se paragonata all’eventuale perdita di un Reaper che vale oltre 15 milioni di dollari, o di un cacciabombardiere come l’F-35 il cui costo supera i 135 milioni di dollari. I test dei LOCUST sono in stadio avanzato e lo swarm dei 30 piccoli droni potrebbe essere operativo dal 2016. l’Europa ha in fase di sviluppo il progetto Medium Altitude Long Endurance, una partnership fra Airbus Defence and Space, Dassault Aviation ed Alenia Aermacchi. Il sistema aereo europeo a pilotaggio remoto per missioni a lunga durata a medie quote è la risposta ai requisiti delle forze armate continentali. Un progetto che definirà meglio il quadro delle alleanze strategiche nel contesto dell’UE, infatti sarà necessario ottimizzare la condivisione di fondi per la ricerca e lo sviluppo in un periodo di crisi economica. Il progetto MALE promuoverà le tecnologie avanzate sostenendo la catena del valore europeo e garantendo l’occupazione nell’Industria della Difesa in Europa. L’Airbus Defence and Space è il principale gruppo aerospaziale europeo e conta circa 40.000 dipendenti con un fatturato annuo di 14 miliardi di euro. La Dassault Aviation è una realtà a livello mondiale in termini di sviluppo e progettazione con commesse ricevute da oltre 80 diversi paesi. Gli introiti si sono attestati ad oltre 4,5 miliardi di euro che garantiscono l’occupazione ad oltre 11.000 addetti. L’Alenia, società del gruppo Finmeccanica, impiega oltre 11.000 dipendenti nella progettazione, produzione e supporto integrato dei velivoli civili e militari. Nel 2013 ha ottenuto ricavi pari ad oltre 3 miliardi di euro, ordini per quasi 4 miliardi con un portafoglio che raggiunge i 9 miliardi di euro. Nell’ambito del programma “smart defence” di cui fa parte l’Alliance Ground Surveillance, è stato coinvolto l’asset italiano di Sigonella, dove sono stati schierati 5 Global Hawk e 6 Predator. L’Aviation Industry Corp of China ha in programma la costruzione di droni low cost per competere sul mercato internazionale, entrando in un segmento dove vale l’interesse di tutti quei paesi che non possono accedere alla tecnologia più avanzata, ed ugualmente a quelli esclusi dall’Occidente. La vulnerabilità dei velivoli cinesi è notevole rispetto a quelli statunitensi od israeliani, ma la necessità di possedere questo sistema d’arma ha convinto Nigeria, Pakistan ed Egitto ad ordinarne alcuni esemplari. L’esportazione del sistema d’arma cinese, può avere implicazioni che travalicherebbero quelle puramente economiche. La tecnologia low cost applicata sugli UAV di Pechino, potrebbe essere integrata su piccoli jet, convertendoli in un sistema di attacco autonomo a servizio di entità terroristiche. Il know-how qualificato a tale mutazione non sarebbe così elevato da richiedere l’ausilio di tecnici specializzati, pertanto sarebbe di facile accessibilità a chiunque possieda i rudimenti di tale tecnologia. Il budget asiatico è stimabile ai 7 miliardi di dollari entro il 2020, con la Cina protagonista, la quale potrebbe attestarsi entro il 2023 come maggior produttore mondiale.

La proliferazione di questo sistema d’arma, le sue peculiarità e l’utilizzo indiscriminato, potrebbero ingenerare impatti negativi non solo sulla popolazione civile ma anche nelle attività economiche dei paesi bersaglio. Pertanto è possibile che nel medio e lungo termine diventi necessaria una regolamentazione sia per gli impieghi che per il numero degli esemplari costruiti.

 

Bibliografia
Stefano Borgiani, “L’impiego dei droni dopo Patreus”. Affari Internazionali, 2012
Stefano Orsi, “Locust, uno sciame di droni a protezione della marina militare americana”. Dronezine, 2015
Alessio Marchionna, “Tutto sui droni”. Il Post, 2013
Redazione, “Le industrie unite per un drone italo-franco.tedesco”. Analisi Difesa, 2014
Michele Perri, “La guerra della Cina agli Stati Uniti sul mercato dei droni militari”. Formiche, 2015

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DISCORSO DELLA GUIDA SUPREMA DELLA REP. ISL. DELL’IRAN IN OCCASIONE DELL’INTIFADA. 2011

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Col Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

Assalamu ‘alaykum

La Lode appartiene a Dio, il Signore dei mondi, e la preghiera e il saluto sia sul nostro maestro Muhammad, sulla sua pura Famiglia ed i suoi prescelti Compagni, e su coloro che li seguono fino al Giorno del Giudizio.

Disse Iddio il Saggio: “A coloro che sono stati aggrediti è data l’autorizzazione di difendersi, perché certamente sono stati oppressi e, in verità, Allah ha la potenza di soccorrerli; a coloro che senza colpa sono stati scacciati dalle loro case, solo perché dicevano: “Allah è il nostro Signore”. Se Allah non respingesse gli uni per mezzo degli altri, sarebbero ora distrutti monasteri e chiese, sinagoghe e moschee nei quali il Nome di Allah è spesso menzionato. Allah verrà in aiuto di coloro che sostengono la Sua religione. In verità, Allah è forte e possente”. (Sura al-Hajj, 39-40)

Diamo il benvenuto ai cari ospiti e a tutti i cari presenti. Tra tutti gli argomenti che meritano di essere discussi dalla élite religiosa e politica del mondo islamico, la questione della Palestina ricopre un’importanza speciale. La Palestina è la prima fra le molteplici questioni in comune tra tutti i paesi islamici. Questa questione possiede caratteristiche uniche.

La prima caratteristica è che un paese islamico è stato sottratto al suo popolo, è stata occupato ed è stato consegnato a stranieri radunati dai paesi più disparati, che hanno così formato una società falsa ed artificiale.

La seconda caratteristica è che questo evento, senza precedenti nella storia, è stato accompagnato costantemente da assassini, crimini, oppressione e umiliazione.

La terza caratteristica è che l’originaria Qiblah (direzione verso cui i musulmani si rivolgono per la Preghiera rituale, n.d.t.) dei musulmani e molti altri centri sacri che si trovano in questo paese sono minacciati dalla distruzione, dall’offesa e dal sacrilegio.

La quarta caratteristica è che quel falso governo e società, collocati nel punto più sensibile del mondo islamico, dall’inizio fino ad oggi hanno svolto il ruolo di base militare, di sicurezza e politica per i governi dell’Arroganza (Istikhbar). L’asse del colonialismo occidentale – che per diversi motivi si è opposto all’unità, allo sviluppo ed al progresso dei paesi islamici – li ha sempre usati come un pugnale da conficcare nel cuore della Ummah islamica.

La quinta caratteristica è che il sionismo – che costituisce una grande minaccia etica, politica ed economica per la comunità umana – ha usato questo luogo come strumento e trampolino di lancio per diffondere la sua influenza e dominio nel mondo.

Si potrebbero includere anche altre caratteristiche, come le alte perdite umane e materiali finora pagate dai paesi islamici; i problemi creati ai popoli ed ai governi musulmani; la sofferenza di milioni di profughi palestinesi, che per la maggior parte vivono ancora nei campi profughi dopo ben sessanta anni; l’interruzione della storia di uno degli importanti centri della civiltà nel mondo islamico.

Oggi può essere aggiunto un altro punto chiave a queste caratteristiche ed è costituito dal Risveglio Islamico che ha investito l’intera regione ed ha aperto un nuovo e determinante capitolo nella storia della Ummah islamica. Questo grande movimento – che indubbiamente può portare alla creazione di una potente, avanzata e coerente alleanza islamica in questa importante zona del globo, e mettere fine all’era di arretratezza, debolezza e umiliazione delle nazioni musulmane, affidandosi alla grazia divina ed alla ferma determinazione dei seguaci di questo movimento – ha tratto un’importante porzione della sua forza e coraggio dalla questione della Palestina.

La crescente oppressione ed arroganza del regime sionista e la complicità di alcuni governanti autocrati, corrotti e mercenari da una parte, ed il sollevamento della resistenza esemplare dei palestinesi e dei libanesi e le loro miracolose vittorie nelle guerre dei 33 giorni in Libano e dei 22 giorni a Gaza dall’altro lato, sono tra gli importanti fattori che hanno reso tempestoso l’oceano apparentemente calmo dei popoli di Egitto, Tunisia, Libia e di altri paesi della regione.

E’ un fatto, che il regime sionista, armato fino ai denti e che si riteneva invincibile, ha subito una decisiva ed umiliante sconfitta in Libano in una guerra impari contro il pugno chiuso dei credenti e coraggiosi combattenti (mujahidin). Successivamente ha sfoderato nuovamente la sua spada non più tagliente contro la resistenza ferrea dell’oppressa popolazione di Gaza, fallendo.

Seria attenzione deve essere riposta a questi punti quando si analizzano le condizioni correnti della regione, e la pertinenza di ogni decisione deve essere valutata alla luce di tutto ciò.

E’ quindi corretto dire che oggi la questione della Palestina riscuote maggiore importanza e priorità, e che il popolo della Palestina – nelle attuali condizioni della regione – ha il diritto di attendersi di più dai paesi musulmani.

Diamo uno sguardo al passato ed al presente e tracciamo una “Road Map” per il futuro. Toccherò alcune questioni al riguardo.

Sono trascorsi più di sei decenni dalla tragica occupazione della Palestina. Tutte le principali cause di questa sanguinosa tragedia sono state identificate e il governo colonialista inglese ne è la causa maggiore. Il potere politico, militare, economico, culturale, della sicurezza e delle armi del governo inglese e degli altri arroganti governi occidentali e orientali venne messo al servizio di questa grande oppressione. Sotto le grinfie degli occupanti senza pietà, il popolo indifeso della Palestina è stato massacrato ed espulso dalle proprie case. Fino ad oggi neanche l’un per cento della tragedia umana e civile – che è stata condotta a quel tempo dai pretesi portatori di civiltà ed etica – è stato appropriatamente presentato, e questa tragedia non ha il suo giusto spazio né nei media né nella cinematografia. I proprietari dei media e della cinematografia e la mafia dei film occidentali non hanno permesso che questo avvenisse. Un’intera nazione è stata massacrata e resa profuga nel silenzio.

Alcune posizioni di Resistenza emersero all’inizio, ma vennero soppresse in maniera dura e spietata. Dal di fuori dei confini della Palestina, e principalmente dall’Egitto, un numero di persone con ideali islamici realizzarono degli sforzi che non vennero sufficientemente supportati e che non hanno influenzato la scena.

Dopodichè fu il turno delle guerre classiche e su larga scala tra alcuni paesi arabi e l’esercito sionista. Egitto, Siria e Giordania mobilitarono le proprie forze militari, ma l’incondizionato, massiccio e crescente supporto finanziario e militare di USA, Gran Bretagna e Francia al regime sionista portò alla sconfitta degli eserciti arabi. Essi non solo fallirono nel sostenere la nazione palestinese, ma durante queste guerre persero anche una parte importante dei propri territori.

Dopo che si palesò la debolezza dei governi arabi limitrofi alla Palestina, si formarono gradualmente, sotto forma di gruppi armati palestinesi, cellule di Resistenza organizzata, e poco dopo la loro unione sfociò nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Era una scintilla di speranza che brillò, ma non durò a lungo. Questo fallimento può essere attribuito a vari fattori, ma quello essenziale era la loro separazione dalla popolazione e dal suo credo e fede nell’Islam. L’ideologia di sinistra o i meri sentimenti nazionalisti non erano ciò che richiedeva la questione complessa e difficoltosa della Palestina. Islam, Jihad e martirio sono i fattori che avrebbero potuto incoraggiare un’intera nazione ad entrare nell’alveo della Resistenza e trasformarla in una forza invincibile. Essi non lo compresero. Durante i primi mesi successivi alla vittoria della grande Rivoluzione Islamica, quando i capi dell’OLP avevano trovato un nuovo spirito e visitavano Tehran ripetutamente, chiesi ad uno dei pilastri dell’organizzazione: “Perchè non innalzate la bandiera dell’Islam per guidare la vostra giusta lotta?” La sua risposta fu che vi erano anche dei cristiani tra loro. Successivamente questa persona venne assassinata dai sionisti in un paese arabo e prego Iddio Altissimo di avere misericordia di lui. Ma il suo ragionamento era carente ed incompleto. Io credo che un credente cristiano che combatta al fianco di un gruppo di mujahidin pronti al sacrificio – che compiono il Jihad sinceramente con fede in Dio, nel Giorno del Giudizio e nel sostegno divino – sarà più motivato nel combattere di un cristiano che deve lottare al fianco di un gruppo di persone prive di fede, che si affidano a sentimenti instabili e mancano del supporto leale del popolo.

La mancanza di una salda fede e la separazione dalla gente li ha resi gradualmente neutrali e inefficaci. Ovviamente tra loro vi erano persone nobili, motivate e di valore, ma l’organizzazione intraprese un corso differente. La sua deviazione ha danneggiato gli interessi della Palestina. Come certi governi arabi traditori, hanno voltato le spalle all’ideale della Resistenza, che è l’unica via di salvezza della Palestina. E in realtà non hanno danneggiato soltanto la Palestina, ma anche loro stessi. Come scrisse un poeta arabo cristiano:

“Se perderete la Palestina, la vostra vita sarà solo un lungo dolore”

Trentadue anni di vita miserevoli sono trascorsi in questo modo, ma all’improvviso la mano potente di Dio cambiò la situazione. La vittoria della Rivoluzione Islamica dell’Iran nel 1979 mutò completamente le condizioni della regione ed aprì una nuova pagina. Tra gli sbalorditivi effetti globali di questa Rivoluzione e i colpi inferti ai progetti dell’Arroganza, quello al governo sionista fu chiaro e immediato. Le dichiarazioni dei dirigenti di quel regime durante quei giorni sono interessanti da leggere e mostrano quanto fossero afflitti e angosciati. Durante le prime settimane dopo la vittoria, l’ambasciata israeliana a Tehran venne chiusa e il personale espulso. La sede diplomatica venne ufficialmente concessa all’OLP, i cui rappresentanti sono lì ancora oggi. Il nostro grande Imam (Khomeyni, n.d.t.) affermò che uno degli obiettivi della Rivoluzione era liberare la Palestina e rimuovere il tumore cancerogeno, Israele. Le potenti onde di questa Rivoluzione, che a quel tempo si diffondevano in tutto il mondo, trasmisero questo messaggio ovunque giunsero: “La Palestina deve essere liberata”. Anche i ripetuti e grandi problemi che i nemici della Rivoluzione imposero all’Iran Islamico fallirono nello scoraggiare la Repubblica Islamica dal difendere la Palestina. Un esempio dei problemi causati fu la guerra di otto anni imposta all’Iran da Saddam Hussein, il quale era stato aizzato dagli USA e dall’Inghilterra e supportato dai governi arabi reazionari.

Quindi nuovo sangue venne iniettato nella vene della Palestina. Gruppi combattenti (mujahidin) iniziarono ad emergere. La Resistenza libanese costituì un nuovo e potente fronte di lotta contro il nemico ed i suoi sostenitori. Invece di affidarsi ai governi arabi e cercare l’aiuto delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, complici delle potenze arroganti, la Palestina iniziò a porre fiducia in sé stessa, nei suoi giovani, nella sua profonda fede islamica e nei suoi uomini e donne pronti al sacrificio. Questa è la chiave di tutti i successi!

Negli ultimi tre decenni si è visto questo fronte crescere quotidianamente. L’umiliante sconfitta del regime sionista in Libano nel 2006, il cuocente fallimento dell’arrogante esercito sionista a Gaza nel 2008, la fuga del regime sionista dal sud del Libano e il ritiro da Gaza, la formazione di un governo resistente a Gaza e, in breve, la trasformazione della nazione palestinese da un gruppo di persone prive di speranza e aiuto in una nazione fiduciosa, speranzosa e resistente: sono queste le caratteristiche eminenti degli ultimi trenta anni.

Questo specchio generale verrà rischiarato qualora i tentativi di compromesso e tradimento – il cui obiettivo è di fiaccare la Resistenza e ottenere il riconoscimento di Israele da parte dei gruppi palestinesi e dei governi arabi – verranno riflessi nel modo appropriato.

Questa tendenza, iniziata con gli accordi di Camp David dal traditore e indegno successore di Gamal Abdul Nasser, ha sempre avuto come obiettivo quello di corrodere l’inflessibile determinazione delle forze della Resistenza. Fu durante gli accordi di Camp David che per la prima volta un governo arabo riconosceva ufficialmente che le terre palestinesi appartenevano ai sionisti e venne firmato un documento secondo il quale la Palestina veniva riconosciuta come patria dei giudei.

Da allora fino agli accordi di Oslo nel 1993, e poi con gli accordi aggiuntivi – che vennero imposti uno dopo l’altro ai gruppi collaborazionisti e passivi palestinesi con l’intervento americano e la cooperazione dei governi colonialisti europei –, il nemico fece del suo meglio per scoraggiare la nazione palestinese e i gruppi palestinesi dal resistere, attraverso l’utilizzo di vuote e ingannevoli promesse e tenendoli occupati tramite i ‘giochi’ della politica. L’inutilità di tutti questi accordi venne rivelata molto presto, ed inoltre i sionisti ed i loro sostenitori mostrarono ripetutamente che li consideravano come pezzi di carta privi di valore. L’obiettivo di questi piani era quello di instillare il dubbio tra i palestinesi, rendere ingorde le persone prive di fede e materialiste e frenare la Resistenza islamica.

Lo spirito della Resistenza tra i gruppi islamici palestinesi e il popolo palestinese è stato l’antidoto a tutti questi trucchi traditori. Essi si sollevarono contro il nemico con il permesso di Dio e beneficiarono dell’assistenza divina: “Allah verrà in aiuto a coloro che sostengono [la Sua religione]. In verità, Allah è Forte e Possente” (Sura al-Hajj, 40). La Resistenza di Gaza, nonostante l’assedio totale, è stata un esempio dell’aiuto divino. Il crollo del governo corrotto e traditore di Hosni Mubarak è stato un aiuto divino. L’emergere di un’onda potente di Risveglio Islamico nella regione è un aiuto divino. La rimozione della maschera di ipocrisia dal volto dell’America, dell’Inghilterra e della Francia e l’aumento dell’odio delle nazioni della regione verso questi paesi è un aiuto divino. I ripetuti e innumerevoli problemi del regime sionista – da quelli politici, economici e sociali interni all’isolamento internazionale e l’odio diffuso, e persino il boicottaggio delle sue università in Europa, sono tutti segni dell’aiuto divino.

Oggi più che mai il regime sionista è odiato, indebolito e isolato, e il suo principale sostenitore, gli Stati Uniti d’America, è più impantanato e smarrito di sempre.

La storia della Palestina negli ultimi sessanta anni è oggi dinnanzi ai nostri occhi. E’ necessario delineare il futuro considerando questa storia e traendo lezioni da essa.

Due punti devono essere inizialmente chiariti. Il primo punto è che il nostro obiettivo è la liberazione dell’intera Palestina, non di una sua parte. Ogni piano che punta a dividere la Palestina è totalmente inaccettabile. L’idea dei due Stati, camuffata ad arte con l’abito del “riconoscimento del governo palestinese come membro delle Nazioni Unite”, non è altro che accettare la volontà dei sionisti – ovvero riconoscere il regime sionista sulle terre palestinesi. Questo significa calpestare i diritti della nazione palestinese, ignorare il diritto storico dei suoi profughi e minacciare inoltre il diritto dei palestinesi residenti nelle terre occupate nel 1948. Significa lasciare intatto il tumore cancerogeno e esporre l’Ummah Islamica – specialmente le nazioni della regione – ad un pericolo costante. Significa la ripetizione di decenni di sofferenze e calpestare il sangue dei martiri.

Ogni soluzione deve essere basata sul principio: “tutta la Palestina per tutto il popolo palestinese”. La Palestina è la terra che si estende dal fiume al mare, non un centimetro in più, né un centimetro in meno. Proprio come a Gaza, ogni terra palestinese che verrà liberata dovrà essere amministrata da un governo palestinese indipendente, ma non bisogna mai ovviamente dimenticare quale è l’obiettivo finale.

Il secondo punto è che per raggiungere questo nobile obiettivo, ciò che è necessario è l’azione, non le parole. Bisogna essere seri, non limitarsi a gesti da palcoscenico. E’ necessario avere pazienza e saggezza, non intraprendere azioni affrettate. E’ necessario considerare l’ampio orizzonte e muoversi verso di esso, passo dopo passo, con determinazione, speranza e affidandosi a Dio. Ogni governo, ogni nazione musulmana e ogni gruppo della Resistenza, in Palestina, in Libano e negli altri paesi, può trovare il proprio ruolo e parte in questa lotta collettiva e il proprio posto nello scacchiere della Resistenza, con il permesso di Dio.

La soluzione che propone la Repubblica Islamica dell’Iran per risolvere la questione della Palestina e per rimarginare questa vecchia ferita, è una proposta chiara e logica, basata sulla saggezza politica. Questa soluzione è accettata dall’opinione pubblica mondiale ed è stata presentata in dettaglio precedentemente.

Noi non proponiamo né la guerra classica con gli eserciti dei paesi islamici, né di gettare in mare gli immigrati ebrei, né l’intervento delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni internazionali. Noi proponiamo un referendum tra il popolo palestinese. Come ogni altra nazione, anche il popolo palestinese ha il diritto di determinare il suo futuro ed eleggere il proprio governo. Tutte le genti originarie della Palestina – musulmani, cristiani ed ebrei [autoctoni], ma non gli immigrati – devono prendere parte ad un referendum ordinato e generale, onde determinare il futuro governo della Palestina, che esse vivano in Palestina, nei campi profughi o in ogni altro luogo. Il governo che verrà stabilito successivamente al referendum deciderà il destino dei immigrati non-palestinesi trasferitisi negli anni in Palestina. Questa è una proposta giusta e ragionevole, che può esser compresa da tutti, e può ricevere il supporto dai governi e dai popoli indipendenti.

Ovviamente non ci aspettiamo che gli usurpatori sionisti accettino questa proposta, ed è qui che diventa importante il ruolo di governi, popoli ed organizzazioni della Resistenza. Il più importante supporto alla nazione palestinese è fermare il sostegno al nemico usurpatore: questo è il grande dovere dei governi musulmani. Dopo che i popoli musulmani sono scesi in piazza e hanno urlato slogan contro il regime sionista, su quale base logica i loro governi persistono nel continuare le loro relazioni con il regime usurpatore sionista? La prova dell’onestà dei governi musulmani è legata al loro sostegno alla nazione palestinese ed alla loro decisione di interrompere le relazioni politiche ed economiche, pubbliche o segrete, con il regime sionista. I governi che ospitano ambasciate o uffici economici sionisti non possono affermare di difendere la Palestina, e nessuno slogan anti-sionista da parte loro sarà considerato serio e sincero.

Le organizzazioni della Resistenza islamica, che si sono assunte il pesante dovere del Jihad negli anni scorsi, hanno oggi la stessa identica grande responsabilità. La loro Resistenza organizzata è un sostegno attivo che può aiutare il popolo palestinese a muoversi verso l’obiettivo finale. La coraggiosa Resistenza da parte di un popolo la cui casa e terra sono state occupate, è stata riconosciuta ed elogiata da tutti gli accordi internazionali. Le accuse di terrorismo da parte delle reti politiche e mediatiche affiliate al sionismo sono strali falsi e privi di valore. I veri terroristi sono il regime sionista e i suoi sostenitori occidentali. La Resistenza palestinese è un movimento contro i brutali terroristi ed è un movimento umano e sacro.

Viste le attuali condizioni, è appropriato che i paesi occidentali valutino la situazione da una prospettiva realistica. Oggi l’Occidente è a un bivio. O rinuncia all’arroganza, riconosce il diritto del popolo palestinese e rifiuta di seguire il piano dei sionisti nemici dell’umanità, o dovrà attendersi duri colpi in un futuro non troppo distante. Questi colpi paralizzanti non sono limitati al continuo crollo dei loro governi fantoccio nella regione islamica. Il giorno in cui i popoli degli USA e dell’Europa comprenderanno che la maggior parte dei loro problemi economici, sociali ed etici sono il frutto dell’egemonia della piovra del sionismo internazionale sui loro governi – e che i loro governanti, per proteggere i loro interessi personali e di partito, obbediscono e si sono arresi all’arroganza dei sionisti parassiti, proprietari di compagnie in USA ed Europa – ci sarà per loro un vero inferno dal quale non potranno più uscire.

Il Presidente degli Stati Uniti ha affermato che la sicurezza di Israele è la sua linea rossa. Ma chi ha tracciato questa linea rossa? Gli interessi nazionali statunitensi oppure la necessità personale di Obama di ricevere i soldi ed il supporto delle compagnie sioniste per assicurarsi il secondo mandato come Presidente USA? Quanto pensi ancora di ingannare la tua stessa nazione? Cosa farà di te il popolo statunitense il giorno in cui comprenderà che hai accettato l’umiliazione e l’obbedienza alla plutocrazia sionista per rimanere al potere qualche giorno in più? Cosa farà di te quando comprenderà che hai sacrificato gli interessi di una grande nazione ai piedi dei sionisti?

Cari fratelli e sorelle, sappiate che questa linea rossa tracciata da Obama e da gente come lui verrà infranta dai popoli musulmani che si sono sollevati. Ciò che minaccia il regime sionista non sono i missili dell’Iran o dei gruppi della Resistenza, così da costruire scudi anti-missile qua o là onde neutralizzarli. La reale e inevitabile minaccia è la ferma determinazione di uomini, donne e giovani nei paesi islamici che non vogliono che gli Stati Uniti, l’Europa e i loro governi fantoccio li governino ed umilino ancora.

Ma ovviamente questi missili, dove ci sarà una minaccia dei nemici, svolgeranno pienamente il loro dovere.

“Sopporta dunque con pazienza. La promessa di Allah è veritiera e non ti umilino coloro che non hanno certezza.” (Sura ar-Rum, 60)

Wa salam ‘alaykum wa rahmatullah

Fonte: www.islamshia.org/

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DISCORSO DELLA GUIDA SUPREMA DELLA REPUBBLICA ISLMAICA DELL’IRAN IN OCCASIONE DELLA QUINTA EDIZIONE DELLA CONFERENZA INTERNAZIONALE DEL RISVEGLIO ISLAMICO . 2011

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Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

La Pace, la Benedizione e la Grazia di Allah siano su di voi

La lode appartiene ad Allah, il Signore degli uomini, e la pace e la benedizione siano sul nostro profeta Mohammad, la sua progenie pura e i suoi discepoli prescelti.

Disse Allah, l’Invincibile, il Saggio: “O Profeta, temi Allah e non obbedire né ai miscredenti, né agli ipocriti. In verità Allah è sapiente, saggio. Segui ciò che ti è stato rivelato dal tuo Signore. In verità Allah è ben informato di quel che fate. Riponi fiducia in Allah: Allah è sufficiente patrono”.
(Parti pronunciate in arabo, le righe sottolineate sono tratte dal Corano, i primi tre versetti della sura Al-Ahzab/ndr)

Do’ il benvenuto ai presenti ed ai cari ospiti.

(Introduzione/ndr)

Ciò che ci ha riuniti quì è il risveglio islamico, cioè uno stato di coscienza ed evoluzione nella Ummah islamica che ora ha creato un grande cambiamento tra i popoli della regione ed ha dato vita a rivoluzioni ed insurrezioni che non potevano mai essere previste dai demoni che dominano la regione ed il mondo; sollevamenti grandiosi che hanno distrutto le mura della dittatura e dell’imperialismo sconfiggendone i guardiani.
Non c’è dubbio che i grandi cambiamenti sociali sono sempre basati su radici storiche e inerenti alla civiltà, e sono l’esito dell’unione di conoscenze ed esperienze. Negli ultimi 150 anni la presenza di grandi intellettuali e combattenti islamici in Egitto, Iraq, Iran, India ed altri paesi dell’Asia e dell’Africa, ha gettato le basi per la creazione della situazione attuale.
L’altro elemento che ha avuto un ruolo evidente nella formazione del pensiero profondo odierno nel mondo islamico fu l’esperienza degli anni ’50 e ’60 dei paesi islamici; questi paesi vennero governati da regimi prevalentemente orientati verso pensieri ed ideologie materialiste che, per via della loro natura, poco dopo la loro nascita, caddero nella tela delle potenze imperialiste e colonialiste dell’Occidente.
La vicenda della grande Rivoluzione Islamica in Iran, dove, come disse l’Imam Khomeini, “il sangue vinse contro la spada”, e che portò alla formazione del sistema duraturo, forte, coraggioso e progredito della Repubblica Islamica, e l’effetto di questo paese sul mondo islamico di oggi, sono poi altri elementi che avrebbero bisogno di lunghe spiegazioni e sicuramente verranno analizzati dagli storici.
Come conclusione, si può pertanto dire che la realtà che invade sempre più il mondo islamico, non è una miriade di fatti sparsi senza radici storiche, sociali e intellettuali, in modo che i nemici o gli analisti superficiali la possano liquidare come un’onda passeggera o casuale e spegnere il lume della speranza nei cuori dei popoli con analisi deviate ed ostili.
Io in questo discorso fraterno voglio soffermarmi su tre punti fondamentali:

1. uno sguardo breve all’identità di queste rivoluzioni e sollevamenti.
2. un esame delle sfide e dei pericoli che minacciano queste rivoluzioni.
3. Suggerire alcune soluzioni per superare le sfide e prevenire i pericoli.

(Identità rivoluzioni/ndr)

1. Sul primo argomento, secondo me l’elemento più importante di queste rivoluzioni è la presenza reale e diffusa della gente negli sviluppi e nella scena della lotta e della Jihad. La gente partecipa non solo con il cuore e la fede, ma pure con il corpo. C’è grande differenza tra questa presenza diffusa ed una insurrezione guidata da un gruppo di militari o persino da un gruppo di combattenti che si battono dinanzi agli occhi indifferenti della gente, o tra una gente che è d’accordo con l’insurrezione ma non partecipa.
Nei fatti che si verificarono negli anni ’50 e ’60 nei paesi africani ed asiatici, il gran peso delle rivoluzioni non fu portato da interi popoli ma da piccoli gruppi golpisti o piccoli gruppi armati. Loro decisero ed entrarono in azione, ma quando loro stessi o la generazione dopo di loro, a causa di certe cause, cambiò il proprio corso, la loro identità cambiò e i nemici presero in mano di nuovo il controllo dei loro paesi.
Questo è completamente differente da un cambiamento che viene veicolato dalle masse popolari, che sono pronti a dare anima e corpo e a sacrificarsi per cacciare il nemico. In questa situazione è la gente che crea gli slogan e stabilisce gli obbiettivi, identifica il nemico, lo presenta, lo insegue ed infine cerca di realizzare, anche se in maniera sommaria, il suo futuro prediletto. Per questo non permette la deviazione e la scesa a patti col nemico ai personaggi collaborazionisti e nemmeno agli elementi dei nemici travestitisi da alleati.
Nel movimento basato sulla forza della gente, è possibile che la rivoluzione venga ritardata, ma la forza di questo movimento fa sì che non sia superficiale e instabile. Tutto ciò è un qualcosa di puro del quale Dio parlò così:
“Non hai visto a cosa Allah paragona la buona parola? Essa è come un buon albero, la cui radice è salda e i cui rami [sono] nel cielo” (Corano, sura Abramo, v.24/ndr).
Io quando vidi attraverso la tv l’intero corpo del glorioso popolo egiziano in piazza Tahrir capii che quella rivoluzione avrebbe vinto. Voglio rivelare una cosa: dopo la vittoria della rivoluzione islamica e la formazione del sistema islamico in Iran, che creò un sisma nei governi materialisti d’Occidente e d’Oriente, e scatenò in maniera senza precedenti i popoli islamici della regione, noi pensavamo che l’Egitto si ribellasse prima di ogni altro paese. L’esperienza ed il passato della Jihad, e i grandi intellettuali e pensatori dell’Egitto, avevano creato nei nostri cuori questa aspettativa. Dall’Egitto però non si udiva nulla di chiaro.
Ma dopo sì, questo segreto sacro, e cioè la volontà di insorgere, gradualmente si formò nel pensiero del popolo egiziano e prese forza, e nel momento più opportuno della storia si palesò creando una scena piena di imponenza.
La Tunisia, lo Yemen, la Libia ed il Bahrain avranno lo stesso destino, e tra loro c’è chi attende, ma non ci sarà cambiamento per il loro destino.
In rivoluzioni come queste, i principi, i valori, gli obiettivi, non sono stati collocati nei manifesti scritti a tavolino da gruppi o partiti, ma sono nella mente e nel cuore della gente presente nella rivoluzione che esprime in tutti i modi, con gli slogan ed il suo comportamento, i suoi ideali.
Con questo calcolo si può comprendere chiaramente che le basi delle rivoluzioni attuali della regione, in Egitto e negli altri paesi, sono in primo piano le seguenti:
– Il risveglio e la ricostruzione della dignità e della gloria nazionale, che col tempo è stata danneggiata con la presenza di dittatori corrotti e con il dominio politico degli Usa e dell’Occidente.
– Issare la bandiera dell’Islam, che è il credo profondo ed amato della gente, e la creazione di una società sicura, giusta e progredita grazie alla sharia islamica.
– Resistere dinanzi al dominio e ai tentativi di breccia dell’America e dell’Europa, che negli ultimi due secoli hanno danneggiato e umiliato nel peggiore dei modi i vostri paesi.
– La lotta contro il regime occupatore e falso dei sionisti, che è come un pugnale conficcato dal colonialismo nel corpo della nostra regione, ed è uno strumento per proseguire il dominio satanico delle potenze e un regime che ha scacciato dalla sua terra un intero popolo.
Indubbiamente le rivoluzioni della regione si basano su questi pilastri che non sono affatto positivi per l’America, l’Occidente e il Sionismo; loro si adoperano per negare queste realtà, ma negando queste realtà non le si può nascondere.
La natura “popolare” di queste rivoluzioni è l’elemento più importante nella formazione della loro identità. Le potenze straniere cercano di mantenere in questi paesi i dittatori corrotti e dipendenti con le ultime tattiche e smettono di sostenerli solo quando comprendono che non ci sono più speranze per fermare la volontà popolare; per questo non hanno il diritto di ritenersi partecipi nelle vittorie della gente. Nemmeno in un luogo come la Libia, l’ingerenza e l’intromissione dell’America e della Nato possono inquinare la verità. In Libia la Nato ha provocato crimini gravi. Se non ci fosse stata l’intromissione dell’America e della Nato, il popolo avrebbe vinto più tardi, ma invece non sarebbero state distrutte tutte le infrastrutture, non sarebbero morti tutti questi civili innocenti e soprattutto i nemici, che per lunghi anni avevano aiutato Gheddafi, oggi non farebbero la figura degli amici del popolo libico.
Il popolo, gli intellettuali e coloro che sono parte della gente sono i padroni di queste rivoluzioni, e sono loro che hanno il dovere di difenderle e tracciarne il tragitto, e Inshallah lo faranno.

(Sfide e pericoli dinanzi alle rivoluzioni nei paesi islamici/ndr)

2. Per quanto riguarda le sfide e i pericoli…Per prima cosa bisogna dire che i pericoli ci sono, ma ci sono pure le vie per salvaguardarsene. Lo stare attenti ai pericoli non deve terrorizzare i popoli. Lasciate che siano i vostri nemici ad aver paura di voi e sappiate che “…in verità l’inganno di Satana è debole” (frase detta in arabo/ndr).
Dio a proposito di alcuni dei mujahedin degli albori dell’Islam ricorda: “Dicevano loro: “Si sono riuniti contro di voi, temeteli”. Ma questo accrebbe la loro fede e dissero: “Allah ci basterà, è il Migliore dei protettori. Ritornarono con la grazia e il favore di Allah, non li colse nessun male e perseguirono il Suo compiacimento. Allah possiede grazia immensa”.
Bisogna conoscere i pericoli per non lasciarsi sorprendere e saper correre ai ripari al momento del bisogno. Noi abbiamo affrontato questi pericoli dopo la vittoria della rivoluzione islamica ed abbiamo ottenuto molte esperienze, e per volere di Dio e grazie alla guida dell’Imam Khomeini e per via dei sacrifici della nostra gente, li abbiamo superati indenni, anche se i complotti contro di noi proseguono e prosegue anche la risposta attenta della nostra gente.
Io divido in due gruppi questi pericoli: quelli che hanno radice in noi stessi e sono dovuti alle nostre debolezze, e quelli che il nemico crea direttamente.
Il primo gruppo di fenomeni sono di questo tipo: pensare o credere che dopo il crollo del regime corrotto e dittatoriale del passato tutto è fatto; sentirsi sicuri della vittoria. Poi la perdita della volontà è il primo pericolo, e questo diventa più grande quando ci sono individui che vogliono accaparrarsi il merito della rivoluzione portata a termine da tutto il popolo.
La questione della battaglia di Ohod (una delle battaglie degli albori dell’Islam/ndr) e la questione di alcuni musulmani che lasciarono le loro postazioni per racimolare un bottino di guerra causando la sconfitta dei musulmani ed il biasimo di Allah l’Altissimo nei loro confronti, è un esempio simbolico che non deve essere mai dimenticato. Farsi impaurire dall’apparente potere degli imperialisti e temere l’America e le altre potenze è un’altro di questi problemi del primo gruppo da cui bisogna stare lontani. Intellettuali coraggiosi e giovani, cacciate la paura dal vostro cuore! Fidarsi del nemico e farsi ingannare dai suoi sorrisi, dalle sue promesse e dal suo sostegno è un’altro grande pericolo, che minaccia soprattutto i leader delle rivoluzioni e gli intellettuali. Il nemico ed i suoi segni bisogna conoscerli sotto qualsiasi forma e abito si presentino, e bisogna difendere il popolo e la rivoluzione dal nemico che si è travestito da amico. L’altra faccia della medaglia è farsi conquistare dalla superbia e reputare ingenuo il nemico; il coraggio deve essere accompagnato dalla saggezza e dalla lungimiranza.
Dinanzi ai demoni, che siano Jinn o uomini, bisogna adoperare tutte le proprie potenzialità divine. Creare divisione e divergenza tra i rivoluzionari e far breccia nelle loro file da parte del nemico, è un’altra grande minaccia.
I pericoli del secondo gruppo sono già stati affrontati in passato dalla maggior parte dei popoli della regione. Il primo pericolo è la salita al potere di individui alleati dell’America e dell’Occidente.
L’Occidente dopo il crollo inevitabile delle sue pedine, mira a salvaguardare i sistemi e le sue leve di potere e cerca di mettere una nuova testa sul corpo di questi regimi per mantenere il suo dominio.
Ciò vorrebbe dire sprecare tutto l’impegno e tutti gli sforzi. In questa fase, se incontreranno l’intelligenza e la resistenza della gente, cercheranno di deviare in diversi modi la rivoluzione e i pensieri della gente. Questo tipo di complotto può anche comprendere la proposta di modelli di governo o costituzioni che facciano cadere di nuovo i paesi islamici nella trappola della colonizzazione culturale, politica ed economica dell’Occidente. Questo tipo di minaccia può pure materializzarsi attraverso il sostegno a correnti deviate e misteriose dei rivoluzionari e l’emarginazione dei veri e autentici rivoluzionari. Anche ciò significherebbe il ritorno del dominio occidentale ed il rafforzamento dei modelli occidentali estranei alle rivoluzioni.
Se queste tattiche non funzionano, l’esperienza ci dice che allora vengono usate tecniche come la creazione di disordine, il terrorismo ed il tentativo di scatenare guerre civili tra i seguaci delle diverse religioni, o tra razze e tribù e partiti diversi, o addirittura scatenare guerre tra nazioni vicine, oppure usare sanzioni e bloccare i conti ed i patrimoni nazionali e aggredire i paesi con campagne propagandistiche.
L’obbiettivo di tutte queste cose è stancare la gente, indurre in essa rassegnazione e farla pentire di aver sfidato le potenze. In questo caso, senza la forza della gente, sconfiggere le rivoluzioni sarà facile e possibile. Basterà uccidere gli intellettuali influenti oppure offuscare la loro figura e, dall’altro canto, corrompere alcuni di loro con i metodi abituali che i paesi occidentali usano.
Nell’Iran islamico, quando i rivoluzionari conquistarono il “nido di spie” statunitense a Teheran, compresero che tutti questi complotti erano stati preparati ad arte contro il popolo iraniano. Per loro far ritornare il loro dominio nei paesi dove ci sono state le rivoluzioni, è un principio per la cui realizzazione si è autorizzati a compiere tutte queste sporche azioni.

(Suggerimenti alle nazioni islamiche/ndr)

3. Nella parte finale delle mie parole, voglio dare dei suggerimenti basati sulle mie esperienze dirette nel nostro Iran e basate sugli studi che ho condotto sugli altri paesi. Non c’è dubbio che le condizioni delle nazioni e dei paesi non sono tutte uguali ma ci sono principi chiari che possono essere utili per tutti.
La mia prima parola è che affidandosi a Dio e con la speranza nelle Sue promesse di vittoria fatte ai fedeli nel Corano, e con l’uso della ragione, della saggezza e del coraggio, si possono vincere tutte le sfide. Bisogna ammettere però che ciò che voi state facendo è molto grande e determinante, e per questo ci sarà bisogno di un grande sforzo.
Il consiglio importante e di sentirsi sempre partecipi nella rivoluzione, di sentire sempre presente Dio, credere nel suo aiuto e non farsi prendere dalla superbia dopo le vittorie.
L’altro consiglio, è ripassare perennemente i principi della rivoluzione. Gli slogan devono combaciare con i principi ed i valori dell’Islam. Indipendenza, libertà, giustizia, la non resa dinanzi al colonialismo, il no alle discriminazioni razziali e religiose, il no chiaro al sionismo. Questi sono i pilastri delle rivoluzioni odierne dei paesi islamici e sono tutti tratti dall’Islam e dal Corano.
Scrivete i vostri principi sulla carta; salvaguardate le vostre origini con sensibilità; non permettete che siano i nemici a scrivere i principi dei vostri governi futuri; non permettete che i principi islamici vengano sacrificati per interessi passeggeri. La deviazione nelle rivoluzioni inizia dalla deviazione degli slogan e degli obbiettivi. Non fidatevi mai dell’America, della Nato e di regimi criminali come Inghilterra, Francia e Italia, che hanno saccheggiato e diviso tra loro per molto tempo le vostre terre; diffidate di loro e non credete al loro sorriso; dietro a quei sorrisi ci sono i complotti ed i tradimenti”. Questa è un’altra parte del discorso di oggi della guida suprema iraniana, il sommo Ayatollah Khamenei, che mette in guardia i musulmani nei paesi dove il risveglio islamico ha portato alla vittoria delle rivoluzioni. Trovate la vostra soluzione issando la sorgente generosa dell’Islam e restituite loro le loro ricette.
L’altro consiglio importante è quello di evitare divergenze religiose, razziali, tribali e di frontiera. Riconoscete le differenze e gestitele. L’intesa tra le confessioni islamiche è la chiave della salvezza. Coloro che incendiano le divergenze religiose dichiarando l’apostasia di questa o quella confessione, diventano volontariamente o involontariamente gli aiutanti di Satana.
Creare dei sistemi di governo è la vostra grande impresa. È un lavoro difficile. Non permettete che i modelli laici o liberali dell’Occidente, o il nazionalismo estremista, o il comunismo marxista, vengano imposti ai vostri popoli. Il fronte d’Oriente è crollato ed il blocco occidentale è rimasto in piedi solo con la guerra e l’inganno e non avrà lo stesso un destino felice. Il passare del tempo è a loro scapito e a favore dell’Islam.
L’obbiettivo finale deve essere la Ummah islamica unita e la formazione della civiltà islamica moderna, basata sulla religione, l’intelletto, la scienza e le virtù morali. La liberazione della Palestina dalle grinfie dei sionisti è l’altro grande obbiettivo. I paesi dei Balcani e del Caucaso e dell’Asia Occidentali si sono salvati dall’Unione Sovietica dopo 80 anni; ed allora pure la Palestina potrebbe liberarsi dopo 70 anni dalla prigionia dei sionisti!
L’attuale generazione dei paesi islamici ha questa capacità e può riuscire in queste grandi imprese. La generazione odierna è motivo di gloria per quelle passate. Credete nella nuova generazione, risvegliate in questa la capacità di credere in sé ed aiutatela con le esperienze degli anziani.
Devo ora ricordare due concetti importanti e pertinenti:
Primo: i popoli che si sono liberati con le rivoluzioni vogliono essere partecipi nella determinazione del loro futuro e vogliono eleggere i loro rappresentanti, e visto che sono musulmani, credono necessariamente nella “democrazia islamica”; in altre parole i governi vengono scelti dalla gente e i principi dominanti della società sono quelli basati sulla shariah islamica. Ciò può realizzarsi nei diversi paesi in modalità differenti a seconda delle condizioni particolari di ogni nazione, ma bisogna stare molto attenti alla democrazia liberale occidentale. La democrazia laica e le altre forme anti-religiose o secolari non hanno nulla a che vedere con la democrazia islamica, che s’impegna a rispettare i valori e le linee principali degli insegnamenti islamici.
Il secondo concetto è che l’islamismo non deve essere confuso con l’estremismo e l’esagerazione. Tra questi due il limite deve essere ben chiaro. Gli estremismi religiosi che di solito sono accompagnati dalla violenza, sono un segnale di mancato progresso e di allontanamento dagli obbiettivi della rivoluzione, e ciò potrebbe allontanare la gente dalle leadership rivoluzionarie e causare la sconfitta delle rivoluzioni.
(Conclusione/ndr)
Riassumo: parlare di Risveglio Islamico non significa parlare di un concetto vago e ambiguo e senza un significato particolare; significa indicare un preciso e determinato fenomeno reale che può essere sentito, che ha riempito l’atmosfera della regione, ha creato grandi cambiamenti ed ha fatto crollare pericolose pedine nemiche. Nonostante ciò, la scena è fluida e sono possibili sviluppi di qualunque genere.
I versetti del Corano che ho letto all’inizio sono il miglior piano d’azione. Vennero ispirati al Profeta in un momento sensibile e difficile della sua vita, ma in realtà quei versetti sono rivolti a tutti noi. Il primo consiglio, in questi versetti, è il timore di Allah nel suo significato più esteso, e poi il rifiuto della sottomissione agli ingiusti ed ai miscredenti e infine l’invito a seguire il messaggio divino.
Leggiamo di nuovo quei versetti:
“O Profeta, temi Allah e non obbedire né ai miscredenti, né agli ipocriti. In verità Allah è sapiente, saggio. Segui ciò che ti è stato rivelato dal tuo Signore. In verità Allah è ben informato di quel che fate. Riponi fiducia in Allah: Allah è sufficiente patrono”.
Pace, Benedizione e Grazia di Allah su di voi

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INTERVISTA DI S.E. J. MOZAFFARI, AMBASCIATORE DELLA R.I.DELL’ IRAN IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DI QUDS

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Luglio 2015

1)      Come ogni anno l’ ultimo venerdì del mese di Ramadan si celebra la Giornata Mondiale di Quds. Qual è il senso  di questa  giornata per i musulmani?

Mentre il regime israeliano insiste nel  mistificare la realtà storica , rendere normalmente accettabili occupazione e aggressione , distrarre l ‘opinione pubblica dalla causa palestinese  e dalla questione di Al-Quds , seminare  orrore  e disperazione, contrastare le forme di resistenza , fomentare le divisioni  tra i paesi della regione  e i popoli musulmani, celebrare la Giornata  di Quds  rappresenta il  punto  di collegamento dell’ unità della Umma islamica  e di tutti gli uomini liberi del mondo, nella difesa della causa palestinese  a protezione della nobile Quds e del contrasto  all’occupazione del regime sionista.

2)      Nonostante le proteste, le azioni illegali di Israele tra cui la costruzione di nuovi insediamenti continuano. Quali sono gli obiettivi di queste azioni?

Il regime sionista persegue l’ obiettivo di  cambiare la composizione demografica  di Gerusalemme attraverso la distruzione  delle abitazioni dei palestinese e la costruzione di nuovi insediamenti. Le azioni espansionistiche di questo regime mirano ad ostacolare il ritorno  dei palestinesi e a controllare tutti i territori di quella terra, confermando ancora una volta gli intenti razzisti e l’ assoluta indifferenza  verso i diritti inalienabili  di quel popolo martoriato. La continuazione dell’ assedio ingiusto della Striscia di Gaza da una parte  e la negligenza  della comunità internazionale  nel cercare di interromperne l’ingiusto  assedio, unitamente  al mancato tentativo di ricostruire quanto distrutto dalla guerra e di assistere le popolazioni di quell’ area dall’ altra , ha complicato ulteriormente  la situazione. Le azioni illegali del regime  sionista  quali la chiusura  dei valichi di frontiera , la giudeizzazione di Gerusalemme e la costruzione di nuovi insediamenti , testimoniano  il perdurare della politica di apartheid , dei crimini contro l’ Umanità e del terrorismo di Stato.

3)      Qual è la soluzione alla questione palestinese?

Innanzitutto si dovrebbero utilizzare al meglio le potenzialità e le capacità  del mondo musulmano e della comunità internazionale per indurre il regime sionista a fermare le sue azioni disumane  nei territorio occupati. La questione palestinese non è riconducibile all’ assenza di progetti di pace o negoziati, ma a disattenzione  verso la radice del problema  e la sua principale causa , ovvero l’ occupazione  del territorio palestinese e il disprezzo del regime israeliano per le norme e gli impegni internazionali. La lunga serie di insuccessi  dei negoziato tra le parti,  l’ inadempienza del regime israeliano verso qualsiasi obbligo  o accordo e i risultati ottenuti dalla resistenza nell’ ultimo decennio hanno provato   che l’ unica strada percorribile è quella della resistenza.  La soluzione alla questione palestinese passa  per la via della resistenza  basata sulle capacità intrinseche del popolo palestinese fino alla fine dell’ occupazione, al ritorno alla terra  di appartenenza, alla conquista  del diritto all’ autodeterminazione  e alla costituzione del Governo dell’ Unità palestinese con capitale a Quds.

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LA MURAGLIA CHE NON CROLLA

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L’8 luglio è stata una giornata drammatica per le borse asiatiche: Shanghai ha perso il 5,9% e Shenzen il 2,5%. In due settimane, sui mercati azionari cinesi si è registrata una perdita di più di 3.700 miliardi di dollari. Lo spettro di una gigantesca bolla speculativa in grado di contagiare l’economia cinese ha indotto cinque eminenti professori della Repubblica Popolare a paragonare la situazione attuale con quella di diciotto anni fa, quando “malvagie forze di mercato” agirono contro le valute dell’Asia orientale. Nel documento redatto dai cinque esperti viene espressamente citato il “burattinaio” di Barack Obama, ossia George Soros, già indicato come terrorista finanziario da Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro celebre studio sulla “guerra senza limiti”(1).

È vero che lo sviluppo del mercato azionario cinese dovrebbe essere garantito dalla disciplina politica che caratterizza il sistema cinese, nonché dall’impegno del governo a recuperare la stabilità dei listini e la tendenza crescente che ha caratterizzato la borsa negli ultimi mesi. È vero, inoltre, che la Cina ha una partecipazione di oltre 4.000 miliardi di dollari in riserve estere, a fronte dei 121 miliardi di dollari degli Stati Uniti, mentre il risparmio dei cittadini cinesi ammonta a 21.000 miliardi di dollari a fronte dei 614 miliardi statunitensi.

Nondimeno, ce n’è abbastanza per rendere verosimile la notizia diffusa da David Booth(2), secondo cui il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare di Cina avrebbe informato il Ministero degli Esteri russo che “adesso uno stato di guerra de facto esiste ufficialmente tra la nazione asiatica e gli Stati Uniti d’America”. La comunicazione inoltrata da Pechino a Mosca viene messa in relazione con quanto stabilito dall’Accordo russo-cinese sulla sicurezza cibernetica(3) dell’8 maggio 2015: se uno dei due firmatari del trattato prevede lo scoppio di ostilità, è obbligato ad informare immediatamente l’altro, affinché sia possibile provvedere ai preparativi necessari per proteggere le infrastrutture critiche. Il Consiglio di Stato avrebbe confermato l’esistenza di tali condizioni.

Non solo: in seguito all’atto di terrorismo finanziario due alti ufficiali della Repubblica Popolare avrebbero esortato l’Esercito di Liberazione del Popolo a rafforzare la propria efficienza navale e la prontezza al combattimento, nell’eventualità di una “guerra imminente”.

Tale eventualità viene prospettata anche nei documenti ufficiali del settore militare statunitense. Nel rapporto US National Military Strategy, pubblicato il 1 luglio 2015, il generale Martin Dempsey, l’ufficiale di rango più elevato delle forze armate USA nonché principale consigliere militare del Presidente, dichiara esplicitamente che “oggi la probabilità di un coinvolgimento degli USA in una guerra interstatale con una grande potenza è ritenuta bassa ma crescente” (“today, the probability of U.S. involvement in interstate war with a major power is assessed to be low but growing”)(4).

Come minacce alla pace globale vengono ovviamente citati, in una sorta di versione aggiornata della teoria dell’”Asse del Male”, l’Iran, la Russia e la Corea del Nord. Per quanto concerne la Cina, il rapporto dice testualmente: “Le azioni della Cina stanno aggiungendo tensione alla regione Asia-Pacifico. La comunità internazionale continua ad invitare la Cina a risolvere tali questioni collaborando e senza coercizione. La Cina ha risposto con aggressive rivendicazioni territoriali che le consentiranno di schierare le sue forze armate su vitali linee marittime internazionali”. (“China’s actions are adding tension to the Asia-Pacific region. The international community continues to call on China to settle such issues cooperatively and without coercion. China has responded with aggressive land reclamation efforts that will allow it to position military forces astride vital international sea lanes”)(5).

La signora Hua Chunying, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ha accusato il documento americano di inventare una inesistente minaccia cinese ed ha esortato i suoi estensori a “sbarazzarsi di una mentalità da guerra fredda ed a considerare senza preconcetti le intenzioni strategiche della Cina”.

Queste ultime, per quanto riguarda la regione Asia-Pacifico, consistono nel proposito di ricostruire una zona di influenza cinese nel Mar Cinese Meridionale. D’altronde le “azioni della Cina” in quest’area, come fa notare un Libro Bianco pubblicato il 7 dicembre 2014 dal Consiglio di Stato della Repubblica Popolare, hanno una storia bimillenaria, poiché “la Cina fu il primo paese che scoprì, denominò ed esplorò le isole del Mar Cinese Meridionale e ne sfruttò le risorse; fu il primo Stato che esercitò su di esse una continua sovranità”.
Ma le ragioni storiche della Cina non hanno nessun valore per gli Stati Uniti, i quali vedono nel progetto cinese una sfida alla loro egemonia.

Se il conflitto geostrategico tra le due potenze sarà, come molti osservatori ritengono6, prima o poi inevitabile, le cause geopolitiche della regione Asia-Pacifico si andranno ad aggiungere a quella che viene considerata la causa determinante dello scontro futuro, ossia l’aggravarsi del debito statunitense. L’extrema ratio per appianarlo potrebbe essere individuata dagli USA, pesantemente indebitati ed avviati verso il loro declino, nello scatenamento di un conflitto armato.

D’altronde la Cina ha già adottato, nel quadro della “guerra senza limiti”, una strategia finalizzata a scalzare il predominio del dollaro. “Il dollaro è un prodotto del passato”, ha detto il Presidente cinese.

In ogni caso, se non vorranno rassegnarsi alla prospettiva del declino ed alla nascita di un ordine mondiale multipolare, gli strateghi statunitensi faranno bene a tener presente l’avvertimento del generale NATO Jordis von Lohausen: “I tentativi di intrusione economica o militare in Cina non possono ottenere nulla, perché la sua estensione è troppo vasta. La Cina è di un’altra razza edi una cultura antica, di gran lunga più antica. Essa ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile”(7).

Claudio Mutti è Direttore di “Eurasia”

NOTE

1. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001.
2. http://www.whatdoesitmean.com/index1884.htm David Booth (alias Sorcha Faal) è un collaboratore del Counterintelligence britannico, settore spionistico dell’FBI.
3. http://www.russia-direct.org/analysis/china-russia-cyber-security-pact-should-us-be-concerned
4. http://www.defensenews.com/story/breaking-news/2015/07/01/pentagon-releases-new-national-military-strategy/29564897/
5. Ibidem.
6. Ad esempio Noah Feldman, The Unstoppable Force vs. the Immovable Object, “Foreign Policy”, 16-05-2013 (http://tinyurl.com/ogrc2wr)
7. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Kurt Vowinckel, Berg am See 1981.

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La muraglia che non crolla

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SOMMARIO

Claudio Mutti La muraglia che non crolla

Dossario La muraglia che non crolla

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Davide Ragnolini L’Organizzazione di Shanghai: strumento per un “mondo armonioso”
Sara Nardi “Un’unica Cina, diverse interpretazioni”
Sara Nardi Nuova fase a Hong Kong
Marco Costa Tradizioni culturali e spirituali della regione del Tibet-Xizang
Claudio Mutti Gli Uiguri fra Impero e separatismo
Giacomo Gabellini Xinjiang. La “nuova frontiera”
Reg Little La storia non detta dell’ascesa cinese
Reg Little Il comunismo di Mao
Lorenzo Salimbeni Le nuove Vie della Seta
Vanessa Baselli Il ruolo della Cina nell’ASEAN
Alessandro Gatti L’accordo sul gas tra Cina e Russia
Giuseppe Cappelluti Come aggirare le sanzioni antirusse attraverso la Cina
Stefano Vernole La Cina e la Banca dei BRICS
Carmen Nigro La banca d’investimento cinese
Saro Capozzoli La muraglia cinese non crolla
Loredana Orlando Le relazioni bilaterali tra Cina e Italia
Renata Dalfiume Il turismo cinese in Italia

Documenti

Consiglio di Stato RPC La situazione della sicurezza internazionale
Consiglio di Stato RPC Lo scopo della “via mediana” è di spaccare la Cina
Consiglio di Stato RPC Tutela e sviluppo delle culture delle minoranze etniche
Consiglio di Stato RPC Taiwan, parte inalienabile della Cina
Consiglio di Stato RPC Le attuali condizioni della religione in Cina
Ugo Spirito La nuova Cina
Chang Hsin-hai Il professor Arnold J. Toynbee e la “guerra di razza”
Giuseppe Tucci Preistoria tibetana

Interviste

Intervista all’on. Marta Grande
Intervista al sen. Giacomo Stucchi

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